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come una furia, che dalla soglia della sua capanna urla «vili!» ai soldati che hanno l’ordine di retrocedere, indicando loro il Reno tedesco, mentre la sua scarna persona pare giganteggiare in quell’atto; il tranquillo lavoratore che durante una sanguinosa giornata di battaglia continua imperturbabile a spingere innanzi il suo aratro giacchè «non sarebbe perchè si combatteva che le messi cesserebbero di crescere e gli uomini di vivere»: la gloriosa spada del capitano vinto, spezzata con una forza atletica dalla gracile mano d’una madre dolorosa; l’aiuola di margherite, nell’ambulanza, arrossata senza posa di acqua insanguinata fino a diventare un piaccicchiccio nauseabondo; e tanti e tanti che io sciupo citando sommariamente così.

Ancora una parola, però: un’esclamazione ammirativa per il racconto della fatale battaglia di Sèdan, racconto elaborato con sommo magistero; per la figura dell’imperatore che s’intravede a intervalli, così oggettivamente; per la descrizione del grande incendio di Parigi titanicamente grandiosa. Si finisce per avere le vertigini di quell’eterna porpora di sangue e di fuoco, di quella distruzione pazza, diabolica, vorticosa, orgiasticamente macabra; e la mente eccitata par travolgersi nel delirio del povero Maurizio, il soldato ferito, morente, che inneggia alla distruzione, all’ecatombe, come a una salutare disinfezione, come a una pasqua di vita...

Ebbene, no; gli Dei sono sazi di respirare sangue e fuoco, e non è con un sacrifizio umano che si schiuderà agli uomini la feconda e pacifica landa sognata da Faust. L’amore deve estinguere, siccome invocava il De Amicis in una vecchia e nobile poesia, questo «fiume dai vortici cruenti», questo