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alle grazie più schiette dell’arte, sono spesso vicini subentrano lunghi periodi intralciati, che accusano la preoccupazione ed hanno quasi l’aria di bisticci scientifici.» Ebbene, a me pare che ce ne sia abbastanza per distruggere il poeta. Come volete che la poesia alata, eterea, inafferabile e luminosa, e ingannatrice come il regno della fata Morgana, non dilegui all’apparire della scienza, che ci avverte di tutte le menzogne, che ci mette in guardia contro tutti gli incanti, che ci sveglia da tutti i sogni?
Un poema scientifico per me è una contraddizione, un paradosso. Si reggerà se la scienza si personifica in larve fantasiose come nel Faust di Goethe, in spiriti smaglianti come nel capolavoro dantesco, (lasciando dormire i genii) se si diffonde nel panteismo, come nei versi puri e freddi del Marradi, oppure se diverrà favola come in una delicata creazione di Alfredo Baccelli. Ma un poema cosmogonico e solitario come quello del Checcucci, in cui non si sente che la sua voce come quella di Dio, durante i sei giorni della Creazione, non può che trascinarci sotto il suo peso soffocando in sè ogni melodioso accento di passione, frenando ogni volo, spegnendo bagliori, ottenebrando l’immensità. Poi, che ne dite voi, signorina, voi l’autrice elegante di tanti versi armoniosi, fra cui non dimentico certi «Fiori d’Arancio» fragrantissimi: che ne dite di certe trascuraggini di forma che accuserebbero la fretta, se non si sapesse anche troppo che la Vita costò sei anni di lavoro al suo poeta? di certe ripetizioni, stucchevoli, d’immagini e di vocaboli? di certe parole così barbare, così barbare che fanno accapponar la pelle come lo stridere d’una lama sul vetro?