Pagina:Jolanda - Dal mio verziere, Cappelli, 1910.djvu/45


— 43 —

— E questa interrogazione, allora forse un tantino imprudente, mi assediò anche terminato il libro che chiusi triste per la delusione. Al solito. Fuori di qualche ispirazione felice, specialmente nei primi canti, io non trovai, confesso, che aridità, che monotonia, che goffaggine, che... presunzione. Delle immagini leggiadre, degli squarci lirici efficaci, degli accenti delicati, dissi tutto il bene che potevo; sul resto risi. Un poeta a cui è balenato il concetto colossale di un poema sulla Vita, che ha domandato la sua ispirazione agli elementi, alle forze, a Dio, doveva darci qualche cosa di più, doveva dirci qualche cosa di nuovo, doveva farci entrare nel mondo riflesso dalla sua fantasia e non trascinarci in una faticosa spedizione geologica, facendoci inciampare nei ciottoli ad ogni momento. Non ho dimenticato ancora certi marsupiali, certe capillarità di sensazioni, certi sbilanci e certi incagliamenti.

«Il poeta», dice uno degli ingegni più chiari e più penetranti d’Italia, il Nencioni, «il vero poeta, non è un sognatore ma un veggente,» ed io gli faccio eco con intima convinzione. Un veggente, sì; egli deve aver lo sguardo più acuto di noi e l’orizzonte più vasto; egli deve fissare e discernere ciò che non è che una fluttuazione iridata e luminosa ai nostri occhi; egli deve sviscerar l’anima delle cose e intenderne il linguaggio arcano: intuirne il simbolo, e senza enumerarci le sfere celesti farci sentire con una parola tutta l’immensità dell’infinito, evocarci con un’immagine tutto un mondo di larve e di splendori; richiamarci, con un metro o con un’intonazione, le visioni delle età passate; farci respirare, insomma, l’aria dei secoli e illuminarci di tutte le luci e avvolgerci di tutti i colori. Oh, non