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chiediamo al poeta il perchè delle cose; l’analisi svela e distrugge; la poesia deve afferrare complessivamente gli aspetti, i sentimenti, per farsene un’anima e rivestirla poi di tutti gli splendori dell’idealità. E sempre dall’alto, qualunque soggetto ci svolga, storia leggenda, ci canti le sinfonie della natura o le battaglie del cuore.

L’estensione non fa l’altezza, la vastità di un concetto non fa l’opera d’arte. In nessun’epoca, credo, si fece tanto spreco di grandiosità come nel seicento; parole, monumenti, pitture, vita, tutto doveva essere grande, magnifico. E quanto orpello invece! quanto presuntuoso barocchismo! Che abbondanza opprimente di materia, che assenza malinconica di classica sobrietà!

Mancava l’essenza, quell’essenza che ho cercato invano fra i quindici canti che compongono il poema della Vita; quell’essenza che deve scorrere sotto la trama d’un’opera d’arte come una linfa vivificatrice, che dà freschezza, e intensità, e vigorìa, e tumulti fecondi. Che m’importa se sono quattro versi invece che quattrocento quelli che mi dànno la divinazione dell’infinito o che mi fanno piangere sulle lotte degli umani? La corda ha vibrato, l’emozione artistica o del sentimento c’è; basta. Io preferisco un piccolo bronzo di Jerace alla torre Eiffel che ha sbalordito mezzo mondo. Questione di gusti.

E voi stessa, signorina, che difendete l’autore della Vita, non potete trattenervi dal convenire che accanto alle bellezze che io pure riconosco, v’è nel poema «l’ampollosità che affanna e la minuzia pedantesca che agghiaccia. A profondità filosofiche, dite, seguono declamazioni, in cui il pensiero diluisce; agli slanci più arditi, ai più vigorosi colori,