Dal mio verziere/Aspettando un Alessandro
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Aspettando un Alessandro.
. . . . .un Alessandro, sì, o meglio forse nel caso nostro un’Alessandrina, che col suo bravo paio di forbici (arma più umile, ma qualche volta più spiccia della spada) venisse a tagliare il nodo Checcucciano intorno al quale da troppo tempo la signorina Gianelli ed io stanchiamo le mani delicate.
Se al silenzio non si potesse dare che un’unica interpretazione, starei zitta e addio; ma si ha un bel indorare il silenzio; tacerà sempre chi non sa più cosa dire. Veramente gran che di nuovo da dire non l’ho più neppur io; feci le mie considerazioni e ridissi le mie impressioni come la signorina Gianelli fece e ridisse le sue. Ora vorrei solamente domandarle il permesso di stenderle non la mano, ma tutte e due le braccia, per ringraziarla del troppo bene che disse di me e della simpatia di cui mi onora; vorrei dirle il desiderio di vederla qui in una poltroncina, accanto alla mia, nella beata solitudine del mio salottino di studio, per continuare la nostra polemica in tutta intimità e difendermi dall’accusa d’incoerenza, che con un garbo tutto femminile mi fa più intuire che leggere fra le sue righe cortesi.
No, cara signorina Elda, non ho mutato opinione, l’ho solamente accentuata e forse per quel cattivo vezzo d’ostinarsi vieppiù nel proprio parere, magari di esagerarlo, quando insorge qualcuno che vuol dimostrarci il contrario. Parlando subito di quel libro, fresca di lettura e trovandomi contro al gusto dei più, non osai, confesso, di impancarmi a dir crudo e netto il mio parere, come lo spifferavo al piccolo crocchio dei miei amici, ma vi gettai su un velo di dubbio, abbastanza trasparente, mi parve per farlo conoscere a chi lo voleva intendere.
Ora che non temo più l’immaturità delle mie impressioni, ora che la falange partigiana dell’astro novello non s’è accresciuta, non solo, ma si sfronda di molte illusioni; ora con voi, signorina, e in un giornale di signore, mi attento a togliere quel velo e a confidarvi all’orecchio che l’autore della mastodontica Vita, secondo il mio umilissimo modo di vedere, non è niente affatto poeta, che qualche emanazione di poesia fresca e gentile e il corruscare di gemme e i fili d’oro e tante belle cose che scovai esultante fra i fossili della Vita, e anche i bei versi vigorosi iridati fluenti, di cui feci perfino al signor Checcucci un’aureola (badate; scrissi i bei versi per distinguerli da... quegli altri del poema), tutta questa fragilità in sboccio, insomma, — il fummo del ruscel di sopra aduggia — e, come io temevo, ora un po’ di lontano, stempera tutto in una tinta greve e monotona di cielo piovorno.
Non dallo scienziato scorgevo io sprigionarsi il poeta, ma ascoltavo con malinconica curiosità lo scienziato delirare, poichè, persuadetevi, signorina, anche agli scienziati è permesso di aver il delirio qualchevolta, e fantasticavo monellescamente (non lo dimenticate!) su un incubo punitore cagionato dal rimorso di aver abbandonata una professione per un’altra. E se dissi che il Checcucci, prendendo il suo soggetto da un diverso lato e con diversi intenti, sarebbe forse riuscito a donare all’Italia una artistica creazione, non lo dissi perchè avessi riconosciuto in lui, come voi dite, la stoffa del poeta, ma per misurare la distanza che lo separava da un supposto poeta vero. Se l’autore della Vita, prese il suo soggetto da quel lato, gli è segno che lo ha sentito così. Se la Vita non fosse la Vita, Checcucci non sarebbe più Checcucci. E perdonatemi il bisticcio.
Ancora: perchè, signorina, non volete ricordare accanto alla mia ammirazione per le bellezze che mi vanto di aver spigolato nel vostro prediletto poema, le impertinenze che mi scivolarono dalla penna? Perchè non ricordarvi del mio sconforto per quelle nubi che salivano, salivano, togliendomi ogni illusione d’azzurro? non ricordarvi delle mie nervose impazienze crescenti fino a risolversi in una risata irriverente? perchè non ricordarvi che lo collocavo, più volentieri fra i buoni padri di famiglia che fra i poeti, udendo parlare di grumoli di punti economicamente utilizzati: — dite, perchè?
«È uno sgomento, Dio buono, (finivo guardandomi intorno fra le rovine), e vado domandandomi con melanconico rammarico come mai un verseggiatore che ha saputo pennelleggiare così finamente e così grandiosamente certe alate visioni, sia poi caduto in queste goffaggini che mutano le iridi variopinte in un abito da Arlecchino...
«....In alto dunque, e voli; abbracci un po’ meno e idealizzi un po’ più, e perdoneremo volentieri all’angelica farfalla di non essere un elefante. Dal grandioso che sbalordisce al grottesco che attira il frizzo, il passo è così breve!
Così finivo la mia succinta recensione nella Battaglia Bizantina, e così ripeto ora e non vorrei ripeterlo solamente a voi, signorina, ma a coloro che credono che pur di far dello spirito si rida scioccamente di tutto. Qualche volta si ride per non piangere, e ci sarebbe proprio da piangere se si pensasse un poco alle nostre condizioni letterarie d’Italia, e come dal vecchio seicento e dalla giovine America s’annida in modo allarmante fra noi la mania del concettoso, dello stracarico, dell’enorme, dell’immane. Tutti si fermano a guardare l’orso che balla, pochi a meditare sulla variopinta meraviglia di un insettuzzo che vola!
Oh, no, gentile Elda, credete, credete a me, non è un mito il poeta quale tentai di dipingerlo, nè dovrebbe essere un taumaturgo; basterebbe che fosse un poeta e non un verseggiatore, basterebbe che appunto si trovasse a disagio in un secolo come il nostro che voi chiamate a ragione positivo, scettico, investigatore; basterebbe che non sapesse il peso specifico del sole, ma che si prostrasse ad adorarlo. Potrei fare la scommessa che un vero poeta (e grazie a Dio, sebbene scarsi, ne conosco ancora), un vero poeta non scriverà mai una sola delle parole dotte che il Checcucci mi ha insegnato. La scienza, questa spietata carità, ci darà faticando dei versi, dall’ignoranza popolare fluirà essenza vera di poesia. Omero non sapeva come fosse fatto il mondo, e Dante ha detto degli strafalcioni astronomici. Non lo dimentichiamo.