Cuore infermo/Parte Sesta/III
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III.
Ma da quel giorno le crisi aumentarono e tutta la vita di Beatrice diventò una contraddizione, qualche cosa di sragionevole, di sconvolto, di folle. Tutta la orribile incertezza del suo spirito, il va e vieni di una malattia inesorabile, le alternative di fiducia e di disperazione, si riflettevano sulla sua esistenza. Sbalzava da un periodo all’altro, con un sussulto crudele che faceva crescere il suo male.
Dopo avere avuto un accesso rimaneva stordita, stupefatta, con una specie di ebetismo del dolore. Giaceva immersa in un grande annientamento, immobile, con gli occhi spalancati e senza sguardo, la faccia terrea, le mani gonfie e cadenti. Ma come si avvicinava a Marcello ella faceva uno sforzo potente di volontà, si rialzava, cercava di sorridere, sorrideva. Imparava l’arte di fingere, vi si addestrava, vi si perfezionava. Poi si lasciava ingannare e vincere dalla sua stessa finzione, si sentiva meglio, un poco di tranquillità rientrava nel suo spirito, passava qualche giorno senza che avesse patito qualche avvertimento del male; ella si rianimava, nutriva la vaga speranza di essere guarita. Allora, per pochi giorni, per un breve intervallo, ricominciava la bella festa del suo amore, e Marcello riaveva la sua Beatrice, ridente, gaia, innamorata; allora ella faceva con lui quei lunghi, indefiniti e interminabili progetti che gli amanti carezzano tanto nella fantasia; allora ella si rimetteva a vivere nella gioia, nella soddisfazione dei suoi gusti, nella credenza coraggiosa della sanità ritornata. D’un tratto, mentre parlava, mentre scriveva, mentre camminava, nella calma e nel sorriso, un sordo avvertimento le scomponeva il volto, il male le mormorava, sottovoce: «eccomi, son qui». Era uno schianto. Fuggiva in camera sua, lontano dalla gente, in un angolo segreto ed oscuro, come un animale ferito, per soffrire sola. Gemiti interrotti le sfuggivano dalle labbra, si lamentava con una ingenuità di espressioni da bimbo ammalato, mordeva il suo fazzoletto, stringeva le mani fino a conficcarsi le unghie nella carne, si ribellava freneticamente al suo stato. Pregava con singhiozzi, con grida, con parole fervidissime la Vergine, il Signore, i Santi, la mamma sua: chiedeva soccorso, chiedeva pietà, in una crisi di lagrime e di singulti. Questo non la sollevava punto. Il male stava là, inesorabile, implacabile. Lo sentiva attraverso il cuore, come una spada spezzata nella ferita, incastrata profondamente. Se in quel momento Marcello veniva a battere al suo uscio, a chiederle di lasciarlo entrare, ella gli gridava attraverso la porta, con una voce breve e dura:
— Lasciami, sto bene.
Alle volte passava una giornata intiera così, chiusa nella sua camera, senza voler vedere nessuno, dicendo a suo marito che desiderava restar sola, che aveva bisogno, e che, se le voleva bene, doveva lasciarla tranquilla. Egli se ne andava a malincuore, scorato, chiedendo invano a sè stesso la causa di questi bruschi cangiamenti. Ma era peggio quando essa lo lasciava entrare, quando egli la vedeva pallida, stanca della sua lotta, con le labbra aride e stirate, col volto quasi cinereo, chiuso.
— Che hai, che hai? — le chiedeva continuamente Marcello.
E la risposta cadeva fredda, monotona, mai diversa:
— Niente.
Allora Marcello sedeva accanto a lei, senza interrogarla più, guardandola tacitamente, fantasticando su quella figura tetra che celava così gelosamente suo segreto. In certi momenti, con lo sguardo grigio, trasparente, senza alcuna espressione, nella immobilità del riposo, essa gli pareva come una statua di granito.
— Beatrice, Beatrice, rispondimi!
— Che vuoi, Marcello?
— Dimmi che ti senti, dimmi che pensi!
— Non sento niente e non penso niente. Voglio star quieta.
— Ti annoio?
— No, rimani.
E la bella sfinge si taceva di nuovo, immergendosi nella sua contemplazione. Scorrevano le ore così. L’immobilità, il silenzio regnavano nella camera. Egli non osava fare un gesto. Alle volte Beatrice gli rivolgeva un’occhiata così stracca, così indifferente, così glaciale, che egli se ne spaventava. Rivedeva la donna fredda e disamorata che aveva formato, per lo passato, la sua disperazione: era un’apparizione dolorosa, funesta. Istintivamente faceva un moto per farla scomparire. Non vi riusciva; allora si chinava su Beatrice per prenderle una mano, per carezzarle i capelli, per baciarla in fronte. Ella trasaliva, si scostava vivamente, come se un ferro rovente l’avesse toccata.
— No, no! — gridava ella, con un senso di paura, di orrore.
Allora egli si lasciava dominare dalla sua natura violenta ed eccessiva, dava in escandescenze, passeggiava su e giù per la camera, esclamava che ella non l’amava più, che ella aveva dei segreti per lui, che lo odiava, forse. Si esaltava nella sua collera. Le parlava nel volto, a voce soffocata, repressa, a parole vibrate, per fare scuotere quella impassibilità taciturna. Beatrice ascoltava, ascoltava, senza batter palpebra; ma lentamente, un po’ di sangue saliva a colorirle le gote, un sospiro d’amore le gonfiava il petto, un fremito le correva per la persona. Improvvisamente, mentre egli parlava ancora, trasportato dalle sue stesse frasi, ella si rizzava davanti a lui, d’un pezzo, come spinta da una molla, e lo abbracciava, lo stringeva, lo guardava negli occhi con una espressione feroce di amore, gli mormorava parole spezzate, affannose, quasi morsicchiate dalle labbra prima di uscire. Talvolta, dopo simili slanci, cadeva in deliquio, quasi morta.
Oppure l’asprezza se ne andava, inondata, ammollita. Ella cominciava a rispondergli pianamente, per non agitarsi, senza muoversi; gli diceva tranquillamente che egli aveva torto, che ella lo amava sempre, come prima, più di prima, sempre di più; che non aveva segreti, no; che la sua salute era un po’ sofferente, una indisposizione passeggera, un mal di nervi: cose da nulla. Lo amava sempre, sempre, sempre; era il suo caro sposo, il suo dolce amore, la sua tenerezza, la sua felicità, la sua adorazione - e le sue parole lente, amorose, quasi gravi, spiravano una dolcezza infinita. Marcello stesso, quasi per riflesso, quasi per contagio, veniva compreso, a quella soave mestizia, da uno struggimento singolare. A lei si gonfiavano gli occhi di lagrime.
— Perchè piangi? — le chiedeva lui turbato, commosso.
— È meglio che io pianga, mi fa bene.
Ella si rasciugava le guancie col fazzoletto, si passava una mano sulla fronte, quasi a scacciarne la sua idea fissa, faceva un moto della persona, come se rigettasse indietro il suo fardello, si rialzava, si versava una boccetta di profumi sulle mani, riannodava i suoi capelli disciolti e veniva di nuovo a lui, domandandogli:
— Eccomi: usciamo, restiamo, facciamo qualche cosa?
Così si dava ai divertimenti, ai piaceri, con una foga tutta nervosa di donna assetata. Sempre avendo daccanto il suo Marcello, appoggiata al suo braccio, senza lasciarlo mai; s’amavano all’aria aperta al cospetto della gente, ed ella prodigava la sua esistenza di donna amata e ricca. Quella stagione invernale fu per lei un lusso straordinario, incredibile, quasi pazzo. Buttava via i suoi abiti, dopo averli portati solo due volte, come se l’avessero infastidita. Si copriva di merletti preziosi, che lacerava allegramente in una notte di festa, con una gaiezza forzata, con le mani nervose. I gioielli più splendidi luccicavano sulla bianchezza delle spalle e sui bruni capelli; ogni giorno si faceva venire a casa, sceglieva, nel capriccio di un momento, i più strani, i più costosi gingilli. Faceva la scelta con Marcello, che si consolava vedendola interessata a qualche cosa; perdevano del tempo a discutere gravemente, con molti e vari argomenti. Ella rideva talvolta, ma di un riso sprizzato, troppo squillante, come una coppa di cristallo che si rompa. Gettava in un cantuccio i fiori delicati, dal prezzo molto alto, imitazione finissima della verità, che avevano adornato i suoi abiti. Giovannina li raccoglieva con una grande premura, e la interrogava tacitamente.
— Non li voglio — rispondeva Beatrice — portali via.
Cambiava acconciatura quattro volte al giorno. Nel suo gabinetto di toletta si soffocava fra le stoffe, la biancheria ricamata, le trine che si trascinavano sul tappeto, l’odore delle boccette sturate. Ordinò un costume montenegrino, tutto coperto di monetine d’oro, per fare una sorpresa a Marcello. Si era fatta fare una miniatura di suo marito, tutta circondata di perle, e la portava sotto l’abito, sul petto, col volto sulla pelle, con le borchiette d’oro che le producevano delle piccole cicatrici, quando l’abito era troppo stretto. Ella provava un piacere delizioso in quelle punture, quando qualche macchiolina di sangue compariva sulla batista. Lo chiamava il suo cilicio.
Nei suoi appartamenti, ora, tutto si cangiava.
— Ma queste stanze sono vuote! — esclamava ogni mattina, quando faceva il suo giro.
E si metteva a pensare quali e quante ricchezze dell’arte e dell’industria avesse potuto accumulare per riempiere quei grandi vuoti che le davano la paura della solitudine. Con Marcello andavano fuori a visitare gli studi artistici, i grandi emporii di belle arti, i grandi magazzini di mobilio. E i bronzi fiorentini, dalle patine di verderame, i bronzi moderni, bruni, quasi neri, lucidi, le lacche fragilissime giapponesi, le delicate intarsiature di oro, d’avorio, i cristalli di Murano, così nitidi che non dànno un’ombra, le sculture in quell’oscuro legno di quercia, così sobrio, così elegante, i quadri, le statuette, le porcellane, andavano a popolare tutti gli angoli del salone e dei salotti. Beatrice era presa dalla febbre delle cose belle, ne voleva dappertutto, ne metteva dappertutto, le stanze ne erano ingombre, il lusso diventava esuberante, strabocchevole. Una confusione regnava. Continuamente ella faceva cangiar di posto i mobili, le sculture, i quadri, mutando gusto ogni giorno. Talvolta s’irritava, si desolava:
— Il salotto grigio è stupido, è vuoto, è inerte.
E ordinava si rifacesse tutto da cima a fondo. Nulla la soddisfaceva; un’aria di scontento era sempre nel suo viso; si fermava a pensare, con una profonda attenzione, ad un nuovo capriccio. Spesso non sapeva inventare più niente.
— Tutto è esaurito, tutto — esclamava, con una espressione di sconforto.
— Cerchiamo qualche cosa di molto strano — le diceva suo marito, che si faceva trascinare volontieri nel turbine dei desiderii incomposti di Beatrice.
— Ohimè! ohimè! non vi è più nulla — aggiungeva lei sempre più sconfortata.
Ed egli si occupava seriamente per ritrovare un aspetto nuovo, una nuova sensazione, una nuova impressione. La sua immaginazione balzava, sussultava, ardeva, si consumava, si scomponeva come quella di sua moglie. Vivevano così uniti, erano diventati tanto una persona sola, che si rassomigliavano, si imitavano, si seguivano per tutte le vie. Si mettevano insieme a vagheggiare qualche piacere delicatamente raffinato. Sognavano, tutti due, di fare una grande sorpresa all’altro. Ma non riuscivano; s’intendevano dalla prima parola, dalla prima occhiata. Appena uno proponeva qualche cosa di molto bizzarro, l’altro accoglieva la proposta con entusiasmo, l’ampliava, la perfezionava. Poi non avevano ostacoli, erano così ricchi, così disposti a buttare dalle finestre il loro denaro!
— Garavino vende il yacht, compriamolo ed andiamo a passarvi a bordo una settimana — diceva Beatrice, colpita da un’idea felice, dopo due giorni di esaurimento.
Marcello comprava il yacht, faceva addobbare splendidamente il piccolo appartamento e si recavano ad abitarlo, costeggiando Napoli, Castellammare, Sorrento ed Amalfi, senza mai scendere a terra, bruciando dei profumi nelle stanzette, prendendo dei sorbetti alla turca, fumando delle sigarette; sibbene una notte Marcello non trovò più Beatrice nel suo nido, la trovò sul ponte, sola, spenzolata dal bordo, con gli occhi confitti sul mare nero; la chiamò, non lo udì.
— Che fai qui, Beatrice?
Ella dette un grido come se fosse lontana le mille miglia da quel punto, come se precipitasse da un’altezza incommensurabile. Uno spavento la faceva tremare verga a verga; ella volgeva attorno lo sguardo smarrito, come se ritornasse da un grande pericolo, e non poteva proferir parola.
— Ma, Beatrice, amor mio, cerca di riaverti, sono io!
Ella stese la mano per toccarlo, quasi per riconoscerlo:
— Soffocavo laggiù... — mormorò poi — mi mancava l’aria... ma neppure qui si respira... il cielo nero ed il mare nero hanno assorbita tutta l’aria.
Il giorno seguente abbandonavano il yacht per non ritornarvi più. Ma le fantasie principesche ricominciavano da un’altra parte. Nelle feste del carnevale, quando il popolo dalla via si cava il gusto di mitragliare coi coriandoli la borghesia e l’aristocrazia che sta nelle carrozze e sui balconi, per essere mitragliato a sua volta, Beatrice ebbe il balcone meglio addobbato della via Toledo. Col costume di flanella bianco, con la mascheretta sul volto, ella si divertì a buttar giù coriandoli, confetti, dolci, fiori, frutta, soldi, aiutata da Marcello, compiacendosi tutti due a fare scatenare tutta una ressa di gente che tendeva le mani.
— Ti diverti molto? — le chiedeva ogni tanto Marcello.
— Moltissimo — e rideva, rideva, attraverso la maschera.
Ma sotto la maschera le lagrime cadevano silenziose. Ella pensava ai morti nel Camposanto, cui non arriva il fracasso del carnevale. Il terzo giorno, quando v’era il getto dei fiori, non volle uscire. Si chiuse in camera sua, indossò un abito di lana nera e lesse tutto il giorno l’Imitazione di Cristo di Tommaso da Kempis. Ma il giorno del corso di gala alla Riviera, ella uscì con un equipaggio nuovo, con quattro cavalli e due di seguito, tre pariglie inglesi del valore di sessanta mila franchi. Nelle rosette bianche all’orecchio dei cavalli, era un brillante; la carrozza era piena di fiori; dentro ella parlava con suo marito, senza guardarsi d’attorno. Le sue amiche erano letteralmente furiose. Amalia diceva che Beatrice in un anno avrebbe mandato in rovina suo marito; ma che il suo abito di raso carmelite era irreprensibile. L’equipaggio non fece che due giri alla Riviera e se ne andò alla via della Marina, a meravigliare gl’impiegati delle assicurazioni navali, i doganieri, gli stoviglieri ed i marinai, abitatori di quella via. In quanto al ballo in casa Della Marra, Beatrice non vi andò che tardissimo, verso le due del mattino, tanto che si vociferava che non sarebbe venuta più, perchè era stata ammalata nella giornata; pure vi comparve così bella, così affascinante, così piena di vita, che subito si disse aver essa ritardato appositamente per produrre maggior effetto. Rimase sino all’alba. Ma quella sera, per la prima volta, ella aveva disteso sulle guancie un sottile strato di rossetto. Del resto, i suoi occhi servivano ad accendere tutto il volto.
Ma nella irrequietezza ardente dei suoi padroni, il palazzo Sangiorgio si sconvolgeva anch’esso da cima a fondo. Trenta ordini diversi in poco tempo scombussolavano la schiera dei servi. Le porte sbattevano, aperte e chiuse ogni momento. In anticamera, in sala da pranzo, nella grande cucina si perdeva un po’ la testa; i servi correvano, si urtavano, si arrestavano con aria stordita, senza ricordarsi più di quel che si dovessero fare. Il maestro di casa, un bravo signore, quieto e flemmatico, non poteva avere un minuto di colloquio col signor duca. Il signor duca accendeva una sigaretta, gli volgeva le spalle e se ne andava rispondendogli:
— Ora non posso, parleremo un altro giorno.
Così pure la signora duchessa aveva sempre un certo moto di noncuranza nelle spalle, per cui bisognava inchinarsi ed andar via. Non si sapeva più l’ora dei pranzi. Talvolta i padroni uscivano al mattino e non rientravano che la sera. Talaltra, mentre erano attesi pel pranzo, giungeva un telegramma da Pompei, da Capri, da Caserta, per avvisare che non sarebbero ritornati che fra tre o quattro giorni; invece capitavano il giorno seguente, d’improvviso, mentre nulla era pronto. Alcuni giorni Beatrice era dura, comandava con quel disprezzo che dev’essere così pesante per chi è obbligato ad obbedire, girava per gli appartamenti, frugando gli angoli, riprendendo una sorveglianza molto attiva che non ammetteva repliche; allora dalla Giovannina fino all’ultimo staffiere tutti tacevano ed abbassavano il capo. Ma, subito dopo, venivano i lunghi intervalli in cui ella si abbandonava al languore, alle malinconie di una esistenza che rovinava. In quei momenti ella si faceva umana, compassionevole, ridiventava buona, lasciava fare, non si curava più di nulla. Donava alla Giovannina, con una generosità affettuosa. Qualche volta le parlava con una certa confidenza:
— Da quanti anni siete con me, Giovannina? — le domandò un giorno.
— Cinque, eccellenza.
— Se morissi, non mi lascierete toccare da nessuno. Mi vestirete voi.
— Eccellenza, che dite voi? Dovete campare cento anni in buona salute.
— Grazie, Giovannina; ma ricordatevene.
Però in casa si diceva che ella aveva stregato il duca, il quale la seguiva come un bambino. Una o due volte, nelle sue crisi, aveva chiamata la Giovannina, ma solo per avere accanto una persona, senza sperarne alcun aiuto. Lo spavento della cameriera aumentava il suo male. Le diceva subito di sentirsi meglio e la ringraziava. Dopo si umiliava fino ad invocarne la complicità.
— È inutile impaurire il duca quando viene. Non gli dite che sono stata indisposta.
In qualche ora, quando rimaneva sola, Beatrice chiudeva gli occhi e pensava. Era una sosta, una pausa. Spingeva lo sguardo nell’avvenire e ne veniva quasi respinta come da una grande muraglia bruna: l’avvenire era vicino, era triste, era terribile, era la morte. Ella lo sentiva. Aveva finito per interrogare un medico, giovane e compiacente, che l’aveva visitata a lungo, interrogata minutamente. Dopo egli aveva fatta una lunga ricetta — la malattia non era grave, no, ma poteva diventarlo — la quiete anzitutto — nessuna fatica — nessuna emozione — la maggiore tranquillità fisica o morale — il cambiamento d’aria — si poteva impedire facilmente un maggiore sviluppo — ad ogni modo consultare altri — e con molti complimenti si era licenziato col suo bel sorriso di medico da signore. Solo nel suo elegante carrozzino egli diventò un po’ serio, pensando alle bugie che aveva dette. Di sopra, Beatrice rideva col suo risettino secco, quasi ghignando; pure prese la medicina. N’ebbe qualche breve ristoro; brevissimo anzi. Mentre era stata nella calma per una settimana, ricominciò la sua vita nervosa, rabbiosa, affogata di attività. Dentro di sè sentiva aumentare il morbo. Allora, mezzo impazzita, con le sue stesse mani ella squarciava la sua esistenza, quasi volesse darle ferocemente, in una voluttà acrissima del dolore, l’ultimo crollo. Tentava tutte le vie per scomporre maggiormente il suo organismo. Esauriva tutti i mezzi per triplicare, per moltiplicare le sue sensazioni, per accrescere l’urto dei nervi per arrivare all’esagerazione, alla pazzia della vita. Si vedeva esaurire ogni giorno, assisteva al proprio disfacimento con piacere crudele. Ma quando si fermava un momento a pensare, immancabilmente scorgeva l’avvenire prossimo. Voleva scongiurarlo.
— Vattene, vattene, mi fai paura! — gridava con un gesto disperato delle mani, e scacciava via la visione.
In cambio venivano il presente tormentoso, l’affanno delle giornate inquiete, le veglie della notte, la febbre della sua fantasia, l’insaziabilità dei suoi gusti, l’ardenza dei sensi, il bisogno inappagato di vivere bene, di vivere felice, di rimanere ancora fresca, bella e giovane.
Intorno a sè vedeva Marcello, felice del suo amore, ma profondamente turbato, quasi sentisse di essersi unito ad una persona inferma, guasta. Marcello, che a furia di amarla le veniva dietro in ogni bizzarria, perdeva anche lui la quiete, si affannava a realizzare i sogni malaticci, ardeva anche lui della stessa febbre, precipitandosi, con un allegro e noncurante sorriso, in un vortice dove sarebbe rimasto affogato. Intorno a sè il suo palazzo in disordine, la confusione sovrana, le ricchezze che soperchiavano dalle finestre, dalle scale, sulla via, la fiammata di fortuna, il bagliore di un incendio, un ballo sfrenato, una ridda, dove tutto crepitava e moriva, la sua vita, la ragione di Marcello, il nome dei Sangiorgio, i loro palazzi, le loro terre. E la visione del presente, tutta rossa, tutta lucida, tutta splendida, dalle lingue di fuoco che salivano al cielo, dalle colonne incandescenti che abbruciavano le nuvole, era più spaventosa di quella dell’avvenire.
— Signore, Signore, fatemi non pensare!
Poi, come il pensiero si ostinava a restare, come ella udiva la follia battere alle porte del suo cervello un rullìo incessante, si gettava a corpo perduto, ad anima perduta, nella esecuzione di qualche stravaganza, dove potesse non sentire, dove potesse non pensare.
Ma vi era un’altra cosa su cui s’imprimeva, ogni dì più, un carattere febbrile quasi disperato: ed era il suo amore. Non era più quell’amore biondo come l’oro, dove si riuniscono tutti i colori e le gradazioni dell’iride, tutti i suoni armonici e melodici, tutte le felicità reali ed ideali, tutte le gioie piccine e grandiose. Era diventato un amore senza misura, senza regola, cupo nella sua forza, tetro nella sua condensazione, tumultuoso, selvaggio nella sua espansione. Beatrice non era più la innamorata gentile, il cui volto si colorisce nel roseo delicato del pudore alla parola dell’amore, che afferma nella sua figura tutta la pienezza della sua esistenza: era invece l’amante imperiosa, collerica, capricciosa, appassionata, gelosa, con l’anima sempre in sussulto, il volto sempre pallido, le labbra sempre assetate. Ella aveva preso dell’amante tutte le strane esigenze, le violenze incoscienti, i sùbiti abbandoni, le rinascenti seduzioni. Marcello, meravigliato, stordito, travolto, si metteva ad amarla con una maggior passione; la sua natura meridionale, il suo temperamento ricco, trovavano nell’amore di Beatrice una esplicazione completa. Quei cambiamenti bruschi, rapidissimi, senza causa, quella variabilità costante, quelli sbalzi da un eccesso d’affetto ad un eccesso di freddezza, animavano, fustigavano il loro amore, gli davano il colpo di frusta per scuoterlo, il colpo di sprone per insanguinarlo e farlo galoppare, gli davano il pimento che brucia il palato, gli davano il sapore molle ed acre delle lacrime con cui è tanto delizioso il bacio. Le loro gioie mescolate alla tristezza diventavano amaramente voluttuose. Non conoscevano più il limite dove il dolore diventa un piacere ed il piacere un dolore. Le sensazioni si spostavano, l’immaginazione si dilettava nel suo tormento, l’amore si deliziava nel suo cruccio. Come i santi fanatici del cristianesimo, essi si consolavano nel vedersi consumare in un focolare ardente. Anzitutto Beatrice, che si sentiva veramente sfinire ogni giorno — e si allietava di questo sfinimento e ne rilevava ogni giorno i sintomi e sempre più cercava di aggiungervi una nuova fiamma di emozione. Alle volte, mentre erano in presenza di persone, nella via, in carrozza, in visita, essa rivolgeva al marito un’occhiata obliqua che bastava a turbarlo. Poi lo fissava lungamente con gli occhi grigi in cui passavano come delle onde di azzurro, con un tremito lieve e provocante delle labbra che pareva mormorassero parole spezzate; e lui irresistibilmente le si accostava, quasi volesse dirle qualche cosa a voce sommessa.
— Io non t’ho chiamato — diceva lei freddamente, abbassando le palpebre, corrugando le sopracciglia in un moto di severità.
Talvolta, mentre assistevano allo spettacolo, molto soli, ma al cospetto del pubblico, ella si metteva a parlargli lentamente, con la sua bella voce languida, dove ogni tanto si trasfondeva un fremito che era una carezza, a dirgli quelle frasi singolarmente cadenzate che quasi si allargano, quasi hanno un’eco nell’anima che le ascolta. Gli ripeteva a fior di labbro, con un sorriso lungo quelle parole incantate, nelle cui sillabe vi deve essere uno strano fascino se arrivano a commuovere solo col loro suono; ella ne trovava di nuove, di quelle che fanno vibrare tutte le corde affettive di un cuore. Egli l’ascoltava, con un’attenzione sostenuta, guardandola, chinando un po’ capo, cullato da quell’onda dolcemente sonora, socchiudendo gli occhi come se una viva luce lo abbagliasse. Quando stava per risponderle:
— Taci, taci — esclamava lei, e gli voltava le spalle e per un’intera serata non gli parlava più.
Poi diventava diversamente crudele, per giornate intere si dimenticava di lui, quasi che non esistesse più. Usciva, ritornava, leggeva, scriveva, pregava, senza badargli, senza parlargli. Non gli rispondeva; e si stringeva nelle spalle quasi annoiata, si lasciava adorare da lui in ginocchio senza commuoversi, come un idolo di pietra. Lo guardava senza sdegno, ma senza un pensiero, come si fissa una cornice o una tavola. Senza dire un motto, senza fare un gesto, lo respingeva energicamente, costantemente, con tutta l’indifferenza della sua figura.
— Tu mi odii — le diceva lui.
— Oh! no — rispondeva ella, con un accento di stanchezza — non ti odio.
E volgeva il capo dall’altra parte, quasi non volesse vederlo più. Egli comprendeva; si alzava, scorato, disanimato, sperando ancora una parola d’amore.
— Me ne vado. Addio, Beatrice.
— Addio.
Quando egli era partito, allora ella ricominciava a vederlo addolorato, contristato, eppure soffocante le sue lagnanze. Ella si adirava con sé stessa, si chiamava cattiva, perfida, disamorata, crudele; egli solo era buono, era amabile, era cortese, era quattro volte buono!
Si metteva ad amarlo furiosamente, a desiderare immediatamente la sua presenza, a chiamarlo sottovoce coi nomi più carezzevoli, a volerlo assolutamente lì accanto a sé. Dovunque egli fosse lo faceva ricercare, inviando tre o quattro servi, in tutte le direzioni, impaziente, insofferente, lacerando il suo fazzoletto, strappando i suoi polsini di trina. Quando egli giungeva, affannoso, essa lo guardava con un sorriso:
— Voleva dirti che ti amo.
E l’amore diventava così forte, così tenace, che li sgomentava. S’amavano ogni giorno come se quella fosse l’ultima ora del loro amore, come se vi volessero concentrare ed esaurire la loro vita. Non ridevano più di quel riso sincero e cristallino che apre all’occhio gli orizzonti azzurrini; nessuna gaiezza li sollevava più. In quei balbettii incoerenti, in quei petti oppressi, in quei volti pallidi, senza sorrisi, quasi divorati da un fuoco interno, era qualche cosa di molto cupo. Spesso non trovavano una parola da dirsi, tanto era l’immanità di quanto sentivano. Tacendo, si guardavano. Un velo scendeva sui loro occhi rendendoli vitrei, quasi che l’anima, sdegnosa di espansione, si fosse ritirata nell’angolo più remoto. E nel profondo silenzio non si udiva più neppure il loro respiro. Marcello non udiva che le pulsazioni ora rapidissime, ora languide e deficienti, del cuore di Beatrice.
— Che ha il tuo cuore?
— Ti ama — diceva ella semplicemente, accennandogli di tacere.
— Il tuo cuore s’ammala, Beatrice — insisteva egli.
— Ti ama, ti ama.
Questa domanda ripetuta, questo ricordo continuo che sorgeva fra loro, questo palpito che alzava la sua voce nel silenzio, era l’ombra lugubre, il nero precipizio dove rotolavano col loro tragico amore. Ed invero, in certi momenti, sul volto di Beatrice si vedeva la contrazione spasmodica di un’agonia, gli occhi che si sbarrano, il profilo che si evade, si affina, la bocca che si contorce senza mandar suono, il lieve sudore che bagna i capellucci delle tempia.
— Parlami, per pietà, tu fai paura! — gridava Marcello.
— Che paura, che paura! — esclamava ella, con un supremo sforzo, quasi ritornando per amor di lui nella vita.
Una notte, egli aveva vegliato molto tardi in camera sua. Per qualche tempo aveva scambiato, per la porta aperta, una parola con Beatrice, poi ella era venuta, lo aveva abbracciato per la buona notte ed era andata a letto. Egli continuava a scrivere, ma una vaga inquietudine lo dominava; due volte si alzò e andò nella camera di Beatrice a vedere s’ella dormisse bene. Non dormiva bene, no; dormiva e respirava affannosamente, rialzata un po’ sui cuscini, mentre un grande sospiro le sollevava ogni tanto il petto. Non osò risvegliarla e rimase qualche tempo là, a contemplarla, quasi confitto al suolo da una forza possente.
— Beatrice mia, Beatrice mia — ripeteva fra sè, preso da una tenerezza quasi infantile davanti a quella donna che rappresentava il suo dono di felicità.
Non se ne andò che mal volentieri, in punta di piedi, per non risvegliarla; si mise da capo al lavoro, mosso solo dall’idea di sbrigarlo per essere libero l’indomani. Erano lettere arretrate, conti arretrati, che si accumulavano da un mese; scriveva al duca Revertera che era andato in Sicilia un’altra volta, attrattovi dalla vecchia e rugginosa catena della Monsardo. Fatalmente Marcello ritornò alla sua preoccupazione... — «La salute di Beatrice — scriveva — non mi soddisfa per nulla...». Si alzò di nuovo a questo punto, senza sapere perchè, ritornò da Beatrice. A tempo. Ella era scivolata dai cuscini e la testa penzolava dalla sponda del letto, i capelli disciolti lambivano il tappeto; una mano si aggrappava al merletto dell’origliere, quasi facesse un vano conato per rialzarsi; l’altro braccio penzolava, la mano raggricciata nel vuoto; il viso rosso, quasi violetto; le vene del collo, delle tempia, gonfie, grosse, quasi nere. Egli la rialzò in un lampo, la ripose supina, la chiamò con un’angoscia indescrivibile, le bagnò di acqua la fronte, le fece odorare delle essenze, si disperò attorno a lei, non sapendo che cosa farsi. Ella non rinvenne che dopo un quarto d’ora, guardandosi attorno, attonita, palpando con la mano, con quel gesto vago e doloroso di chi non ritrova più la terra.
— Che è avvenuto? — chiese poi.
— Io non lo so; t’ho trovata penzoloni dal letto, col sangue che ti andava al cervello. Dormivi?
— Credo — disse lei, pensando un poco. — Credo di aver avuto l’incubo... Sognavo...
— Che sognavi?
— ... Sognavo di morire.
— È l’incubo, cara; non pensarvi.
— Non ci penso, no — ripetette Beatrice, incrociando le mani in grembo. Ma potrei morire anche presto, caro.
— Quali funebri idee! Il tuo sogno ti ha sgomentata.
— È vero, non parliamone. Eppoi non vi sarebbe una ragione che io morissi — finì ella, sorridendo stranamente.
Un’altra volta, alle tre del mattino, la trovò fuori il balcone, curvata sulla ringhiera, guardando nell’oscurità.
— Soffocavo nella camera — gli rispose ella — non potevo rimanere a letto. Questa primavera è di una dolcezza troppo grande.
Così ogni tanto, sempre più spesso, di notte, ella accendeva tutti i lumi della sua camera, spalancava le finestre ed i balconi, lasciava entrar l’aria. Non aveva sonno, non poteva dormire. In realtà, il giacere sul letto le diventava insopportabile; in realtà, aveva paura di morire, nella notte; Marcello, senza intendere il perchè, si lasciava attirare anche lui da questo nuovo capriccio. Tutto quello che veniva da Beatrice, lo seduceva; tutte le stravaganze di lei lo affascinavano. Quelle ore solitarie della notte gli parevano un tesoro acquistato; gli pareva si fosse raddoppiata la sua giornata di amore. Per un poco rimanevano al balcone, ella che si abbandonava appena sulla spalla di lui, nel suo invincibile languore; egli la reggeva, mentre un calore primaverile scendeva dal cielo a riscaldare quella notte di aprile. Non scambiavano che rade parole, rade e mestamente soavi. Rientravano. Ella desiderava passeggiare da una camera all’altra, appoggiata al braccio di lui, fermandosi ogni poco, presso un quadro, presso un mobile, lasciandosi trascinare. Una volta che arrivarono davanti al grande crocifisso in avorio bianco su velluto azzurro:
— Vuoi tu pregare meco, Marcello?
Egli chinò un poco il capo; l’indifferentismo indefinito, senza contorni decisi, che è delle anime che non hanno sofferto nè dubitato, era la sua parte di religione.
— Prega con me, Marcello.
Ed insieme, a bassa voce, tenendosi per mano ripetettero gravemente il Padre nostro. D’un tratto parve ad essi che la camera fosse diventata solenne, enorme, vuota. Ella scoppiò in singhiozzi, abbracciandolo, compresa da un grande terrore.
Finivano per sedere al cantuccio favorito, presso la lampada azzurrina, ella nell’angolo del divanetto, egli sopra uno sgabello più basso. Leggeva per lei; a volte alzava gli occhi a interrogarla se potesse continuare. D’un cenno, ella rispondeva di sì. Talora la mano di lei si metteva a carezzare i capelli di Marcello, una carezza quieta, materna. Subito egli si fermava. Discorrevano pianamente. Poco a poco le voci si affiochivano, quasi stanche; le risposte tardavano; di nuovo si faceva nella camera il silenzio. Anzi pareva che il silenzio fosse così naturale, così consono all’ambiente diventato quasi severo, che essi, mossi da rispetto, non osavano più turbarlo. Restavano immobili, immersi in una distrazione senza fine; non rimaneva di sensibile che la materna carezza che la mano di Beatrice faceva sui capelli.
L’alba talora li sorprendeva così; li sorprendeva pallidi, quasi lividi, gli occhi cerchiati di nero, le labbra violacee, stanchi e rotti di quella immobilità e di quel silenzio, le anime perdute in un’amarezza infinita.