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308 | Cuore infermo |
prima volta, ella aveva disteso sulle guancie un sottile strato di rossetto. Del resto, i suoi occhi servivano ad accendere tutto il volto.
Ma nella irrequietezza ardente dei suoi padroni, il palazzo Sangiorgio si sconvolgeva anch’esso da cima a fondo. Trenta ordini diversi in poco tempo scombussolavano la schiera dei servi. Le porte sbattevano, aperte e chiuse ogni momento. In anticamera, in sala da pranzo, nella grande cucina si perdeva un po’ la testa; i servi correvano, si urtavano, si arrestavano con aria stordita, senza ricordarsi più di quel che si dovessero fare. Il maestro di casa, un bravo signore, quieto e flemmatico, non poteva avere un minuto di colloquio col signor duca. Il signor duca accendeva una sigaretta, gli volgeva le spalle e se ne andava rispondendogli:
— Ora non posso, parleremo un altro giorno.
Così pure la signora duchessa aveva sempre un certo moto di noncuranza nelle spalle, per cui bisognava inchinarsi ed andar via. Non si sapeva più l’ora dei pranzi. Talvolta i padroni uscivano al mattino e non rientravano che la sera. Talaltra, mentre erano attesi pel pranzo, giungeva un telegramma da Pompei, da Capri, da Caserta, per avvisare che non sarebbero ritornati che fra tre o quattro giorni; invece capitavano il giorno seguente, d’improvviso, mentre nulla era pronto. Alcuni giorni Beatrice era dura, comandava con quel disprezzo che dev’essere così pesante per chi è obbligato ad obbedire, girava per gli appartamenti, frugando gli angoli, riprendendo una sorveglianza molto attiva che non ammetteva repliche; allora dalla Giovannina fino all’ultimo staffiere tutti tacevano ed abbassavano il capo. Ma, subito dopo, venivano i lunghi intervalli in cui ella si abbandonava al languore, alle malinconie di una esistenza che rovinava. In quei momenti ella si faceva