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300 | Cuore infermo |
la vaga speranza di essere guarita. Allora, per pochi giorni, per un breve intervallo, ricominciava la bella festa del suo amore, e Marcello riaveva la sua Beatrice, ridente, gaia, innamorata; allora ella faceva con lui quei lunghi, indefiniti e interminabili progetti che gli amanti carezzano tanto nella fantasia; allora ella si rimetteva a vivere nella gioia, nella soddisfazione dei suoi gusti, nella credenza coraggiosa della sanità ritornata. D’un tratto, mentre parlava, mentre scriveva, mentre camminava, nella calma e nel sorriso, un sordo avvertimento le scomponeva il volto, il male le mormorava, sottovoce: «eccomi, son qui». Era uno schianto. Fuggiva in camera sua, lontano dalla gente, in un angolo segreto ed oscuro, come un animale ferito, per soffrire sola. Gemiti interrotti le sfuggivano dalle labbra, si lamentava con una ingenuità di espressioni da bimbo ammalato, mordeva il suo fazzoletto, stringeva le mani fino a conficcarsi le unghie nella carne, si ribellava freneticamente al suo stato. Pregava con singhiozzi, con grida, con parole fervidissime la Vergine, il Signore, i Santi, la mamma sua: chiedeva soccorso, chiedeva pietà, in una crisi di lagrime e di singulti. Questo non la sollevava punto. Il male stava là, inesorabile, implacabile. Lo sentiva attraverso il cuore, come una spada spezzata nella ferita, incastrata profondamente. Se in quel momento Marcello veniva a battere al suo uscio, a chiederle di lasciarlo entrare, ella gli gridava attraverso la porta, con una voce breve e dura:
— Lasciami, sto bene.
Alle volte passava una giornata intiera così, chiusa nella sua camera, senza voler vedere nessuno, dicendo a suo marito che desiderava restar sola, che aveva bisogno, e che, se le voleva bene, doveva lasciarla