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314 | Cuore infermo |
— Me ne vado. Addio, Beatrice.
— Addio.
Quando egli era partito, allora ella ricominciava a vederlo addolorato, contristato, eppure soffocante le sue lagnanze. Ella si adirava con sé stessa, si chiamava cattiva, perfida, disamorata, crudele; egli solo era buono, era amabile, era cortese, era quattro volte buono!
Si metteva ad amarlo furiosamente, a desiderare immediatamente la sua presenza, a chiamarlo sottovoce coi nomi più carezzevoli, a volerlo assolutamente lì accanto a sé. Dovunque egli fosse lo faceva ricercare, inviando tre o quattro servi, in tutte le direzioni, impaziente, insofferente, lacerando il suo fazzoletto, strappando i suoi polsini di trina. Quando egli giungeva, affannoso, essa lo guardava con un sorriso:
— Voleva dirti che ti amo.
E l’amore diventava così forte, così tenace, che li sgomentava. S’amavano ogni giorno come se quella fosse l’ultima ora del loro amore, come se vi volessero concentrare ed esaurire la loro vita. Non ridevano più di quel riso sincero e cristallino che apre all’occhio gli orizzonti azzurrini; nessuna gaiezza li sollevava più. In quei balbettii incoerenti, in quei petti oppressi, in quei volti pallidi, senza sorrisi, quasi divorati da un fuoco interno, era qualche cosa di molto cupo. Spesso non trovavano una parola da dirsi, tanto era l’immanità di quanto sentivano. Tacendo, si guardavano. Un velo scendeva sui loro occhi rendendoli vitrei, quasi che l’anima, sdegnosa di espansione, si fosse ritirata nell’angolo più remoto. E nel profondo silenzio non si udiva più neppure il loro respiro. Marcello non udiva