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sultare altri — e con molti complimenti si era licenziato col suo bel sorriso di medico da signore. Solo nel suo elegante carrozzino egli diventò un po’ serio, pensando alle bugie che aveva dette. Di sopra, Beatrice rideva col suo risettino secco, quasi ghignando; pure prese la medicina. N’ebbe qualche breve ristoro; brevissimo anzi. Mentre era stata nella calma per una settimana, ricominciò la sua vita nervosa, rabbiosa, affogata di attività. Dentro di sè sentiva aumentare il morbo. Allora, mezzo impazzita, con le sue stesse mani ella squarciava la sua esistenza, quasi volesse darle ferocemente, in una voluttà acrissima del dolore, l’ultimo crollo. Tentava tutte le vie per scomporre maggiormente il suo organismo. Esauriva tutti i mezzi per triplicare, per moltiplicare le sue sensazioni, per accrescere l’urto dei nervi per arrivare all’esagerazione, alla pazzia della vita. Si vedeva esaurire ogni giorno, assisteva al proprio disfacimento con piacere crudele. Ma quando si fermava un momento a pensare, immancabilmente scorgeva l’avvenire prossimo. Voleva scongiurarlo.

— Vattene, vattene, mi fai paura! — gridava con un gesto disperato delle mani, e scacciava via la visione.

In cambio venivano il presente tormentoso, l’affanno delle giornate inquiete, le veglie della notte, la febbre della sua fantasia, l’insaziabilità dei suoi gusti, l’ardenza dei sensi, il bisogno inappagato di vivere bene, di vivere felice, di rimanere ancora fresca, bella e giovane.

Intorno a sè vedeva Marcello, felice del suo amore, ma profondamente turbato, quasi sentisse di essersi unito ad una persona inferma, guasta. Marcello, che a furia di amarla le veniva dietro in ogni bizzarria, perdeva anche lui la quiete, si affannava a realizzare i sogni malaticci, ardeva anche lui della stessa febbre, precipi-