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318 Cuore infermo

Egli chinò un poco il capo; l’indifferentismo indefinito, senza contorni decisi, che è delle anime che non hanno sofferto nè dubitato, era la sua parte di religione.

— Prega con me, Marcello.

Ed insieme, a bassa voce, tenendosi per mano ripetettero gravemente il Padre nostro. D’un tratto parve ad essi che la camera fosse diventata solenne, enorme, vuota. Ella scoppiò in singhiozzi, abbracciandolo, compresa da un grande terrore.

Finivano per sedere al cantuccio favorito, presso la lampada azzurrina, ella nell’angolo del divanetto, egli sopra uno sgabello più basso. Leggeva per lei; a volte alzava gli occhi a interrogarla se potesse continuare. D’un cenno, ella rispondeva di sì. Talora la mano di lei si metteva a carezzare i capelli di Marcello, una carezza quieta, materna. Subito egli si fermava. Discorrevano pianamente. Poco a poco le voci si affiochivano, quasi stanche; le risposte tardavano; di nuovo si faceva nella camera il silenzio. Anzi pareva che il silenzio fosse così naturale, così consono all’ambiente diventato quasi severo, che essi, mossi da rispetto, non osavano più turbarlo. Restavano immobili, immersi in una distrazione senza fine; non rimaneva di sensibile che la materna carezza che la mano di Beatrice faceva sui capelli.

L’alba talora li sorprendeva così; li sorprendeva pallidi, quasi lividi, gli occhi cerchiati di nero, le labbra violacee, stanchi e rotti di quella immobilità e di quel silenzio, le anime perdute in un’amarezza infinita.