Cristoforo Colombo (de Lorgues)/Libro III/Capitolo VIII
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Traduzione di Tullio Dandolo (1857)
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CAPITOLO OTTAVO
§ I.
Parve che la Provvidenza per abbreviare i patimenti dell’Ammiraglio, gli desse venti continuamente propizii. ll suo viaggio fu de’ più felici e de’ più rapidi. Partite in ottobre, le due caravelle entravano il 20 novembre nella baia di Cadice. Nessuno prima era mai venuto dalle Indie in sì pochi giorni. Ad esempio del loro capitano, tutti gli ufficiali avevano dimostro ogni rispetto all’Ammiraglio ed a’ suoi fratelli1. Per le cure del padrone della Gorda Andrea Martin, appena fu gettata l’áncora, un uomo di confidenza venne segretamente spedito a Granata, ove allora dimoravano i Monarchi, latore della lettera scritta alla nutrice dell’Infante. La celerità di quel messaggero precedette l’arrivo dei dispacci e del processo mandati da Bobadilla. Per buona ventura di Colombo Granata non era Siviglia: le ostilità burocratiche, e gli odi locali non vi pervertivano l’opinione. Intorno all’Alhambra, conquistata alla fede cattolica, la gloria del gran Porta-croce della Chiesa si conservava intatta. Quali che si fossero i suoi detrattori, lo splendore de’ suoi servigi, la grandezza dell’opera sua, la memoria trionfale della sua prima scoperta, ammirata anco dai Musulmani, sollevarono una unanime indegnazione contra quell’oltraggio, che pareva a stento credibile. Nella stessa Cadice, in cui Colombo e i suoi fratelli, giusta gli ordini di Bobadilla, erano stati consegnati al podestà di Jerez, Gonzalo Gomez de Cervantes, amico di Fonseca, il sentimento pubblico esprimeva una riprovazion severa per tale attentato. Da tutto questo si argomenti ciò che dovette provare la Regina.
Appena dona Giovanna della Torre ebbele comunicata la lettera di Colombo, l’indignazione d’Isabella non fu superata che dal suo dolore. Un corriere straordinario spedito al momento portò l’ordine a Gonzalo Gomez di Cervantes di restituire in libertà immantinente l’Ammiraglio e i suoi fratelli: la Regina scrisse a Colombo una lettera firmata anche da Ferdinando, nella quale deploravano l’ingiuria inflittagli, così opposta ai loro sentimenti, e dalla quale dicevano sentirsi offesi essi medesimi; l’invitavano a venire immediatamente alla corte, e comandavano gli fossero pagati duemila ducati d’oro, affinchè: potesse riparare l’odiosa nudità a cui lo aveva osato ridurre Bobadilla. .
Secondo ogni apparenza, la costui relazione e i documenti del processo da lui compilato non diventaron oggetto di attento esame; furono percorsi solamente per avere la misura dell’audacia e dell’odio dei nemici dell’Ammiraglio. I fatti di quella relazione erano così inconciliabili colla natura elevata e tutta cristiana di Colombo, che quel cumulo di atroci denunzie, virtuosamente respinte dalla collera della Regina, fu distrutto sotto i suoi occhi; nè si parlò di tal processo e di tal relazione, che per annunziare la destituzione e il castigo di Bobadilla.
ll 17 dicembre, Colombo, co’ suoi fratelli, fu condotto all’udienza solenne de’ Sovrani, i quali lo accolsero coi segni più soddisfacenti della loro benevolenza, e di un amaro risentimento verso il suo insultatore. Questo primo ricevimento dei Re, tutto di gala, non era, propriamente parlando, che una riparazion pubblica dell’oltraggio commesso in loro nome contro l’uomo a cui essi andavano debitori di tanto2. Ma pochi giorni dopo, la Regina chiamò in udienza particolare Colombo, per avere una spiegazione sui motivi dell’odio che lo perseguitava, e sul vero stato delle Indie.
In questa conferenza Cristoforo Colombo era solo.
A mirarsi innanzi lo scovritore del Nuovo Mondo, ricordando la Regina l’indegnità del trattamento da lui patito in suo nome, si sentì tocca in fondo al cuore, e i suoi occhi si empierono di lagrime. Scorgendo quella emozione ch’esprimeva eloquentemente tenerezza e dolore, Cristoforo tentò indarno di trovar parole per accusare o per difendersi. L’uomo che aveva intrepidamente sopportati i colpi della fortuna, non pote contenere più lungamente gli affetti compressi entro il suo cuore, e diessi a piangere dirottamente. Colombo e Isabella piangevano al tempo stesso, senza proferire parola. Solamente dopo questa comunanza di tenerezza e dopo la muta eloquenza del colloquio delle loro anime, il rivelatore del Nuovo Mondo gettò a terra con brevi parole l’intero sistema de’ suoi accusatori.
Le lagrime d’Isabella furono un balsamo sovrano al cuore dell’eroe. La Regina Cattolica promisegli che punirebbe i suoi oltraggiatori, riparerebbe tutte le loro ingiustizie e lo rintegrerebbe nella sua dignità. Tuttavolta, a motivo delle ardenti inimicizie sollevate contra di lui, avvisò non convenire di esporlo a nuovi guai, rendendogli immediatamente il governo della Spagnuola. Dopo questa udienza, Colombo diresse ai Sovrani una querela formale contra gli atti tirannici commessi dal commendatore Bobadilla, e fece conoscere i vizi, e i gravi danni recati dalla nuova amministrazione: poi, affine di interessare al suo richiamo alcuni personaggi che facevano parte del consiglio dei Re, compilò un promemoria, la cui brutta-copia, scritta di sua mano, ci è stata felicemente conservata.
Non è in quella carta nè artifizio di lingua, nè ordine oratorio, nè abilità diplomatica: il messaggero della croce vi si esprime con semplicità: ricorda ch’è venuto volontariamente ad offrire alla Spagna il conquisto delle Indie; che ha conservato a lei la preferenza, mentre Francia, Inghilterra e Portogallo erano decisi a tentare la spedizione. «Allora il nostro Redentore, dice, mi assegnò la via. Io ho posto sotto il dominio delle loro Altezze terre più grandi dell’Africa e dell’Europa... Evvi ragione di credere che la Santa Chiesa vi prospererà grandemente. In sette anni integrai sì fatta impresa per la volontà divina3. Lorch’io sperava di ottenere riconoscenza e riposo, mi sono veduto pigliare improvvisamente, e incatenare a danno del mio onore e del servizio delle loro Altezze, ecc.» L’Ammiraglio prega i membri del consiglio, nella loro qualità di fedelissimi cristiani4, di esaminare tutti i suoi trattati colla corona, di considerare come sia venuto da lungi a servir que’principi, come abbia abbandonato moglie5 e figli, condannandosi a non vederli quasi mai, per attendere meglio al loro servizio; e di notare, che, in contraccambio di questo attaccamento, è stato, sul tramonto di sua vita, spogliato della sua dignità e de’ suoi diritti senz’alcun risguardo di giustizia e di misericordia. E temendo che s’ingannassero sul senso di questa parola, ripiglia in questi termini: «dico misericordia; nè s’intenda ch’io abbia voluto dire clemenza da parte di sua Altezza, perchè non fu da me commessa alcuna colpa6.»
Rispetto al promemoria con cui egli giustificava la sua amministrazione, non si può dubitare che non contenesse fatti concludenti e considerazioni importanti: perocchè, dopo questa comunicazione, non ostante l’influenza degli uffici di Siviglia, le principali innovazioni di Bobadilla furono annullate, e i regolamenti di Colombo rimessi in vigore.
Diverse ordinanze reali ne fanno fede.
Quantunque i Sovrani riconoscessero così autenticamente la saviezza amministrativa di Colombo, pure non giudicarono cosa prudente rimandarlo alla Spagnuola prima che si avesse tempo di quietare il fermento degli spiriti irritati contro di lui. Fu deciso che si nominerebbe, in surrogazione di Bobadilla, un governatore temporaneo, incaricato di amministrare le Indie per due soli anni; il qual tempo pareva dover bastare a dissipare le fazioni, cancellare la traccia delle nimicìzie, e ristabilire a regolarità tutti gli uffici amministrativi. Fu dichiarato che si adottava un tale partito, principalmente nell’interesse dell’Ammiraglio.
Quando prometteva di rintegrarlo ne’ suoi titoli e nelle sue funzioni, la Regina era sicuramente sincera e veridica; ma lo scaltrito Ferdinando aveva interiormente deciso di togliere per sempre a Colombo, oltre la dignità di Vice-re, il governo delle Indie. Da quel momento tutto fu concertato a questo scopo.
§ II.
Vedendo l’odio de’ coloni della Spagnuola contro l’Ammiraglio, e la segreta determinazione del Re a non rendergli il suo governo, la maggior parte degli storici hanno pensato che realmente Colombo non era destinato, a malgrado del suo genio, a governare popoli, e ch’esisteva in lui una qualche incapacità a ben amministrare.
Nel sistema degli scrittori che negano ogni azione provvidenziale sull’umanità, e trovano che il solo progresso della navigazione portoghese avrebbe necessariamente causata la scoperta di un continente posto all’ovest dell’Europa, Colombo non ha potuto mancare di commettere colpe come governatore, perchè non poteva possedere tutte le qualità, e perchè, «per le sue qualità medesime, non era conveniente a questo difficile incarico7.» Ma i nostri lettori, i quali ricorderannoi doni superiori conceduti all’araldo della croce, le sue doti eminenti superate dalle sue virtù; quelli che sanno che nel cristiano, animato dall’amore di Dio e del prossimo, la sapienza viene infusa in aggiunta alla giustizia, non dubiteranno che tante facoltà eccellenti, tante diverse attitudini, una penetrazione sì grande, unita allo spirito di osservazione, all’esperienza e ad una pazienza cosi lungamente provata, non lo rendessero atto ad amministrare utilmente i paesi da lui scoperti.
Anzichè contrastare a Colombo la sua capacita amministrativa, bisognerebbe, per lo contrario, stupire se, in mezzo a cosiffatta superiorità in tutto il resto, ne fosse stato privo. Tuttavia i suoi biografi, non vedendo in lui imperfezione, nè come cristiano, nè come uom di mare, noiati sicuramente di dover sempre lodare, hanno creduto di variare il loro stile, e fare atto d’imparzialità scrupolosa censurando certi provvedimenti della sua amministrazione. Tenersi a buona ventura convalidare alcune frasi del suo vecchio nemico Oviedo con due brani di Las Casas, (d’altronde ridotti quasi a nulla da questo medesimo scrittore, in altri luoghi del suo manoscritto), per tentare una specie di biasimo altrettanto vago quanto mite.
Fin ad oggi, gli storici di Colombo si erano limitati a reticenze timide, a dubbi, a congetture, senza entrar mai francamente nell’esame delle accuse supposte. Le accuse contra il governo di Colombo non hanno realmente preso corpo che sotto la penna parziale e preoccupata di Fernando Navarrete, il quale è venuto a rafforzare la scuola protestante sulle orme di Humboldt. Noi ne ringraziamo quest’ultimo. La sua mercè, le oscure e tortuose insinuazioni dell’accademico Spagnuolo, imputazioni confuse, come calunnia che arrossì di sè medesima, sono precise, schiettamente articolate e perciò tali da potersi discutere.
Incontrastabilmente, quando le si considerano in faccia, spogliate delle ambagi e delle precauzioni, di cui i loro relatori tentarono avvolgerle, queste accuse sorprendono per la loro gravità.
Colombo è accusato formalmente: l.° di durezza inflessibile e di crudeltà: 2.° di attentato contro la libertà degli Indiani, raccomandati dalla Regina alla sua protezione: 3°. d’imperizia e d’incapacità amministrativa.
Verifichiamo primieramente la più grave di queste accuse: la crudeltà.
Colombo manifestò, si dice, sopratutto la sua crudele severità— nel complotto di Bernal Diaz di Pise; — nelle sue istruzioni scritte al comandante Pietro Margarit; — nel supplizio di Adriano di Mogica.
Esaminiamo i fatti.
Bernal Diaz di Pise formò contro la colonia un complotto, il cui piano, scritto di sua mano, gli fu trovato addosso. Il delitto non poteva essere negato. Colombo, però, invece di fare, secondo il suo diritto, giudicare e mettere incontanente a morte il capo del complotto, si contento mandarlo in Ispagna.
Ecco come l’americano Washington Irving giudica un tal atto:
«L’Ammiraglio procedette con gran moderazione. Avuto riguardo al grado ed allo stato di Diaz, si astenne dall’infliggergli alcun castigo; ma lo consegnò a bordo di una delle sue navi; proponendosi mandarlo in Ispagna, perchè fosse quivi giudicato... Alcuni de’ suoi complici di un grado inferiore venner puniti secondo il loro grado di colpabilìtà, ma non col rigore che meritava la loro colpa. I partiti che Colombo prese, quantunque necessari per la sicurezza generale, e i più temperati che fosse possibile, furono qualificati arbitrari e parvero a certuni dettati da uno spirito di vendetta8.»
Perchè il Vice-re era straniero, la sua autorità riusciva insopportabile ai Castigliani, non ostante la sua moderazione. Scrive il padre Charlevoix nella sua Storia di San Domingo «questo atto di giustizia così necessario, e in cui furono esattamente osservate tutte le formalità, gli alienò per sempre la moltitudine, ed ebbe conseguenze molto funeste per lui e per tutta la sua famiglia9.» Da quel punto venne tenuto crudele. I suoi nemici lo accusarono che infliggeva a capriccio «le punizioni corporali più rigorose alle genti di bassa condizione, e che caricava d’oltraggi i gentiluomini castigliani» ma si guardarano bene, dice nuovamente Washington Irving, di parlare delle circostanze imperiose che avevano comandati que’ lavori straordinari, nè delle dissolutezze e dei delitti di ogni genere commessi dai coloni, e che bisognava reprimere, nè delle cabale sediziose de’ cavalieri spagnuoli, i quali avevano assaggiata più assai la sua indulgenza che il suo rigore10.»
Rispetto alle istruzioni date al comandante Pedro Margarit, avendole il governo Spagnuolo pubblicate nella raccolta dei documenti diplomatici, noi medesimi abbiamo potuto giudicarne: e confesseremo, che ciò che a bella prima ci ha sorpresi, ella si è la penetrazione colla quale Colombo aveva indovinata l’indole particolare di que’ popoli fanciulli: crederebbesi ch’ei gli avesse dianzi governati.
Eppure la filantropia di Humboldt fu ributtata d’un procedere contro i ladri, raccomandato da Colombo nel corso di queste istruzioni ammirabili.
La penalità varia secondo i luoghi e i tempi: esigere la sua attenuazione, la sua uniformità, e le cure dilicate che la frenologia e la filantropia. protestante vogliono oggi prodigalizzate ai colpevoli, è un sogno degli ideologi moderni. Al tempo della scoperta, gli Spagnuoli, ed anche più gI’Indiani, non trattavano cosi delicatamente il delitto. Nell’abbondanza e negli agi della vita che loro porgeva la natura, i popoli delle Antille risguardavano il furto come un’odiosa perversità, perocchè male avrebbe potuto addurre a scusa il bisogno; perciò lo punivano in un modo spaventevole. Ecco ciò che ne dice l’autore della storia naturale delle Indie, Oviedo, che ne aveva assunte informazioni sopra luogo. «La colpa che più avevano in odio gli abitatori di quest’isola era il furto: se qualcuno era côlto sul fatto, per piccola che fosse la cosa rubata, impalavano bello e vivo il ladro, come si dice che si fa in Turchia, e lo lasciavano così impalato fino a che rendeva l’anima11.
Era tale nei costumi d’Haiti l’orrore del furto, che il colpevole «era impalato di qualsivoglia condizione esso fosse, e rimaneva esposto in tale stato alla vista di tutti; e non era neppure permesso ad alcuno d’intercedere per lui. Una così grande severità aveva prodotto l’effetto desiderato12.»
Ma, incoraggiati dalla pazienza degli Spagnuoli, che sul principio ridevano della loro avidità per le bagattelle d’Europa, e chiudevano gli occhi su piccoli furti, molti, che il timor del castigo avrebbe impedito di derubare i compatriotti, si erano messi a svaligiare sulle strade e colla violenza i lor ospiti. Colombo prescrisse, adunque, di punire i ladri. Invece d’infligger loro il supplizio del palo, a cui si sarebbero condannati fra loro, cento volte peggiore della forca e della ruota, sostituì una pena, che, senza spegnere la vita, dopo un dolore passaggero lasciava un segno durevole, affinchè il reo servisse ovunque di esempio e di terrore: questa pena consisteva nella recisione della punta del naso o delle orecchie, ed anche questa suggeritagli dai codici spagnoli di Valenza13 e della Hermandad14. In Ispagna la recidiva veniva punita di morte. Un popolo, che, per secondare gl’istinti della vanità, col dipingersi e forarsi certe parti del corpo, si sottoponeva di buon grado a dolori più vivi e protratti del raccorciamento degli orecchi o del naso; era mal preparato ad impaurirsi dello staffile, o delle verghe o del bastone siccome punizione di furto: Colombo applicò, dunque, agli Indiani la pena in vigore in Castiglia15 contro i ladri recidivi. Quest’era un introdurre nel codice criminale degli indigeni un temperamento cristiano. Nondimeno questa umanità, che fu certamente benedetta e ammirata dagl’isolani, scandolezzò la bacchettoneria filantropica di una certa scuola.
L’accusa di crudeltà lanciata a Colombo sembra principalmente giustificata da circostanze accompagnanti il supplizio di Adriano di Mogica.
Ricordiamo brevemente i fatti.
Dopo la sua ultima ribellione, Adriano di Mogica fu arrestato improvvisamente in un conciliabolo notturno co’ suoi principali complici dal gran-giudice Roldano, il quale scrisse all’Ammiraglio, occupato da più settimane alla costruzione della fortezza della Concezione, per dimandargli i suoi ordini. L’Ammiraglio rispose che questa nuova sollevazione essendo avvenuta senza alcun motivo, la sua impunità produrrebbe effetti deplorabili: che doveva, dunque, venir fatta giustizia di tal ribellione, conforme alle leggi del regno: per conseguenza il gran-giudice fece fare il processo di Mogica e de’ suoi complici.
La sentenza condannò Mogica, qual capo di complotto, alla pena di morte, e i suoi coaccusati, secondo il grado della loro partecipazione, gli uni al bando perpetuo, gli altri a prigionia temporaria. Nel momento del supplizio fu mandato a Mogica un prete; ma costui, sin allora insolente e bravaccio, vedendo che, nonostante la sua nobiltà e i suoi amici, la cosa si faceva seria, fu preso da paura: studiandosi di guadagnar tempo, rifiutava di confessarsi: fu condotto sugli spalti della cittadella; il prete lo esortava, ed ei rifiutava di ascoltarlo, per ritardare il momento terribile. Il gran-giudice, informato di questo maneggio, indegnato di tal codardia succeduta a tanta arroganza, comandò di attaccar la corda ad uno dei merli e di lanciare il condannato giù dal bastione.
Questo atto di brutalità, conforme al naturale altero e violento di Roldano, mostra al vivo la sua durezza e offende il sentimento cristiano. La soppressione del Sacramento, ultima consolazione del moribondo, stringe il cuore. Sciaguratamente lo storiografo reale Herrera, abitualmente esatto e giudizioso, ingannandosi in ciò, ha imputato all’Ammiraglio, allora lontano da San Domingo, il carceramento e il supplizio dl Adriano di Mogica, che furono atti di Roldano. Gli storici posteriori hanno riprodotto questo errore, e tutti lo ripeterono.
Navarrete, Washington Irving, Humboldt hanno un bel accreditarlo, noi lo smascheriamo: chiunque ama la gloria di Colombo, e cerca la verità nella storia ci saprà grado di questa giustizia.
Primieramente il carattere dell’uomo, la natura del fatto, le circostanze del tempo e del luogo, le regole dell’etichetta e del decoro, e le disposizioni materiali provano l’errore di Herrera. Egli stesso dice che l’Ammiraglio era alla Concezione quando avvenne la ribellione di Mogica, e questo è esatto. Colombo amava quella residenza, chiave della magnifica pianura chiamata la Vega Real, e che godeva di deliziosi prospetti. Fin dal suo secondo viaggio, vi aveva eretto, finchè potesse costruirvi una chiesa, una gran croce, appiè della quale riceveva invisibili consolazioni, e ch’è noto essere stata lungamente privilegiata di favori divini e di non pochi prodigi16. L’araldo della croce si compiaceva in quel soggiorno per cause misteriose.
Poco prima, Roldano aveva fatto imprigionare Fernando di Guevarra, cugino di Mogica, e chiesti gli ordini dell’Ammiraglio: questi aveva risposto di mandare l’incolpato nella fortezza di San Domingo. Alcun tempo dopo, avendo Roldano carcerato Adriano di Mogica, dimandò nuovamente le sue istruzioni all’Ammiraglio, il quale risposegli come abbiam detto. Mogica fu dunque condotto, per esservi giudicato, a San Domingo, ove venne del pari menato il suo complice Pedro Riquelme, ex giudice di Bonao. Non si poteva convenientemente procedere contra i ribelli alla Concezione, non trovandovisi che l’Ammiraglio, ed operai ch’eseguivano i suoi piani, onde non vi erano la nè tribunale, nè cancelliere, nè usciere, nè ufficiale di polizia, ma semplicemente un posto di cavalleria. Fu dunque alla sede del governo, e nella prigione della cittadella, che furono rinchiusi, poi esaminati e giudicati i colpevoli: l’ardito colpo di mano che fece cader Mogica di notte tempo in potere di Roldano, non poteva essere tentato dall’Ammiraglio; non conveniva nè alla sua dignità nè al suo carattere. D’altronde, se fosse venuto lo stesso Ammiraglio, come non avrebbe preso nella guarnigione della fortezza altro che tre soldati, oltre i sette servi di cui è parlato? Per lo contrario, questo picciol numero di soldati spiegasi dalla posizione topografica di Roldano, il qual era in campagna, lungi da ogni guarnigione: l’Ammiraglio non aveva abbandonato la Concezione da più mesi, e non se ne allontanava quasi mai.
L’Herrera si è ingannato, non intorno al fatto, ma rispetto ai nomi.
Per lo contrario, lo scrupoloso storico don Fernando rettifica i nomi e le date, e attribuisce a ciascuno ciò che gli appartiene in questi avvenimenti. Egli prova l’assenza dell’Ammiraglio17; parla del suo carteggio col gran-giudice intorno agli incolpati; menziona il processo regolarmente fatto a San Domingo, e seguito dal supplizio del principale autore del complotto. Fra il dire contraddittorio di Herrera e l’asserzione particolarizzata di don Fernando, non è lecito di poter dubitare; e noi diciamo, come don Eustachio Fernandez de Navarrete, ove confuta con lealtà il suo avo, che tra le due relazioni di questi storici, quella di Fernando appare la più veridica18.
D’altronde la pietà di Colombo gli avrebb’essa permesso il rigore quasi empio, che priva un moribondo di un sacramento, sua ultima consolazione, e sua unica speranza? ll Vice-re avea fatto voto «di non torcere neppure un capello de’ suoi amministrati.» Non avvenne mai nelle sue spedizioni marittime che sottoponesse un suo dipendente ad un consiglio di guerra; non avvenne mai che comandasse un supplizio capitale. Quando scrisse a Roldano rimettendogli Adriano di Mogica, lo fece «colle lagrime del dolore:» ma la necessità parevagli tale che avrebbe creduto di non poter fare altramente neppur con un suo proprio fratello in caso simile19. Colombo dice formalmente che Roldano arrestò esso medesimo Adriano di Mogica con una parte della sua schiera, e che lo fece mettere a morte senza ordine da parte sua. «Il fatto, dice, è che Roldano ne fece giustizia senza che lo lo avessi ordinato20.» Sicuramente, il vendicativo alcalde, sapendo la mansuetudine cristiana del Vice-re, e temendo una sospensione indefinita od una commutazione di pena, ne prevenne gli effetti colla prontezza dell’esecuzione.
Noi dobbiamo, eziandio, notare, che, raccontando queste particolarità, Colombo non previde la imputazione postuma che gli si farebbe relativamente a Mogica; deplorava quel supplizio, perchè si era lusingato, e aveva l’evangelica speranza che sangue non si verserebbe mai sotto il suo governo. Il gran-giudice, che aveva provocata e fatta eseguire la sentenza, era ancora in funzione; i testimoni assegnati, gli agenti della forza pubblica vivevano ancora. D’altronde gli atti del processo rimanevano presso il cancelliere. Se realmente, come nota Herrera, contr’ogni verosimiglianza, avesse lo stesso Colombo carcerato, fatto giudicar, e mettere a morte Adriano di Mogica, avrebbe egli poi osato attribuire questo triplice incidente al gran-giudice Roldano, che appunto allora era nel pieno esercizio della sua carica, avendovelo conservato Bobadilla?
Rispetto all’accusa di essersi beffato della libertà degli Indiani e di aver fatto di questa parte de’ suoi amministrati una materia di vendita, essa cade innanzi al più rapido esame.
Ne’ costumi di quel tempo, la schiavitù non era quale ci appare oggidì. Il cavaliere preso alla guerra apparteneva a colui che lo aveva costretto ad arrendersi, e non diventava libero che pagando il proprio riscatto. Dopo Pavia, Francesco I apparteneva a Carlo V. Temperata dal cristianesimo la schiavitù non aveva appo gli Spagnuoli il carattere odioso che le hanno dato il fanatismo de’ Musulmani e il disumano orgoglio de’ piantatori americani. Già, sotto il regno di Enrico III, si vedevano a Siviglia schiavi neri trattati con benevolenza21. Dopo conquistata Malaga, Ferdinando e Isabella fecero dono alle regine di Napoli e di Portogallo di un certo numero di giovani scelte fra le più belle. I due Re mandarono al papa Innocenzo VIII, tra gli altri magnifici presenti, cento schiavi22. Il Santo Padre li accettò; ma in meno di un anno, per l’influenza augusta della sua bontà e delle sue persuasioni, aveva fatto di loro altrettanti cristiani, e stimava sì alto la loro fedeltà, che gli incorporò nella sua guardia23.
Fin dal suo arrivo fra’ Caraibi, Colombo sentì che la dolcezza e l’esortazioni riuscirebbero inefficaci su quelle barbare tribù, nemiche dell’ordine provvidenziale, e che non conoscevano altra legge che la violenza. Egli chiese l’autorizzazione di ridurre in ischiavitù quella razza antropofaga, affine di toglierla alle sue feroci abitudini, trapiantarla e insegnarle, insiem colla lingua castigliana, il Vangelo, che solo poteva preservarla da una intera distruzione. Per eccesso di filantropia, gli fu risposto di trattare i Cannibali come gli altri Indiani24. I fatti diedero pienamente ragione all’Ammiraglio: i filantropi degli uffici della marina furono costretti in appresso a chiedere che fossero praticati i partiti proposti da Colombo25.
Trasportando in Castiglia gl’Indiani dichiarati schiavi legali, l’Ammiraglio non considerava il prezzo della loro vendita come rappresentante la proprietà dell’uomo, ma la locazione del suo lavoro. Questa schiavitù, temperata dalla dolcezza cristiana, non era, in realtà, che un usufrutto del lavoro dell’Indiano colpevole di aver partecipato ad un complotto, o di avere avuto mano nell’uccisione di uno Spagnuolo.
Lungi dal ridurre in ischiavitù gli Indiani pacifici, Cristoforo Colombo si costituiva lor difensore: faceva rispettare la loro persona, la loro famiglia, la loro proprietà; perciò i dissoluti, gli avventurieri rapaci, e gli infingardi dell’Hispaniola si erano collegati contra di lui. Mentre l’eco degli uffici di Siviglia biasimava alla corte la pretesa crudeltà di Colombo verso gl’indigeni, i Castigliani d’Hispaniola, per lo contrario, scrivevano in Ispagna che non permetteva che gli Indiani fossero assoggettati ai cristiani. Lo stesso Humholdt ha notato questa fragrante contraddizione26. Colombo non consigliò che la schiavitù degli antropofaghi; e questo consiglio era salutare: ma non attentò mai alla libertà degl’Indiani pacifici.
L’ignoranza, e la preoccupazione gli hanno imputato di avere organizzata la schiavitù degl’lndiani, istituendo il sistema dei ripartim-ientos, o distribuzioni di lavori penosi senza paga, e il lavoro degli indigeni nelle miniere. .
Questo e un dopio errore di fatto e di data, al tempo stesso una calunnia, ed un anacronismo.
Primieramente Colombo non possedette mai neppure un solo Indiano in qualità di schiavo27: no, Colombo non ebbe un solo schiavo; laddove il vescovo ordinatore della marina, primo autore di tutte le calunnie sparse contra l’Ammiraglio, ne possedeva dugento, di cui un frate francescano, il cardinale Ximenes, l’obbligò a spogliarsi. Ritiratosi Ximenes dal ministero, il vescovo ordinatore Fonseca si fece restituire dal Re quella proprietà anticristiana.
Ricordisi poscia ch’era vietato rendere schiavo un indiano battezzato; indi, che l’Ammiraglio non permetteva neppure ai Castigliani di lavorare alle miniere senza certe condizioni religiose. Unqua sotto la sua amministrazione gli Indiani furono costretti ad estrarre l’oro dalla terra. Rispettando il modo di governo stabilito fra loro, non volle mai invertire l’ordine esistente, elevare ai cacichi i loro sudditi naturali. Solamente, quando, dopo ribellioni o misfatti doveva punire i cacichi, invece di mandare tutti i rei in Castiglia, secondo il rigore del diritto, imponeva loro gravezze di viveri o d’altro a profitto della colonia: i cacichi puniti dovevano fornire un numero d’uomini, che lavoravano pel governo Spagnuolo un giorno o due per settimana in opere di pubblica utilità.
Talvolta l’Ammiraglio propose di surrogare col mezzo di questi lavori il pagamento dell’imposta; il qual cambio fu liberamente accettato. I cacichi soddisfacevano di buon grado a questa tassa ch’essi medesimi esigevano dai loro sudditi. Gl’Indiani designati dai cacichi a quell’uopo non cessavano per questo di appartenere ai loro sovrani naturali: la loro dipendenza e la loro libertà non pativano menomamente per siffatto lavoro periodico: solamente si abituavano a riunirsi, a lavorare insieme: le loro relazioni cogli Europei potevano agevolare la loro iniziazione al cristianesimo.
Questo pubblico servigio non era schiavitù, somigliava alle odierne prestazioni comunali, le quali non degradano chichessia. Ma i governatori surrogati all’Ammiraglio, in dispregio d’ogni diritto, falsando il principio e lo scopo di tal prestazione, convertironla in ischiavitù, e la schiavitù in distruzione della razza indigena. Bobadilla e il suo successore furon essi che 0rganizzarono il sistema dei repartimientos, diventato fatale agl’indigeni d’Haiti. Lungi dal consentirvi Colombo deplorò per primo un tale abuso.
La sola accusa fondata che facessero contro Colombo i Suoi nemici consisteva nella sua opposizione formale al battesimo degl’Indiani.
Potrà sembrare strano che il messaggero della salute, il quale piantava in ogni luogo croci e invitava gl’indigeni a venerare questo Simbolo, li respingesse dalla Chiesa lorchè desideravano entrarvi; e tuttavia è una cosa verissima.
Molti Indiani, adescati dall’attrattiva della novità, tirati dall’inclinazione fanciullesca all’imitazione, e, sopra tutto, adescati dall’immunità concedute ai convertiti, senza avere la menoma nozione del Cristianesimo, dimandavano il battesimo come avrebbero dimandato una veste od un cappello d’Europa. L’Ammiraglio si oppose alla condiscendenza di certi ecclesiastici, il cui proselitismo troppo indulgente favoreggiava questo preteso movimento religioso, e che, nel desiderio di accrescere prontamente il loro gregge, ammettevano al battesimo gl’indigeni sulla lor semplice dimanda. Egli impediva l’abuso del Sacramento, vale a dire la sua profanazione, per sentimento di pietà. Il suo modo di trattare gl’Indiani fu sempre paterno: riconosceva in que’ figli delle foreste suoi fratelli in Gesù Cristo: gli amava anche come sue creature, avendoli egli scoperti, per acquistarli al Vangelo.
ll carattere amante e contemplativo di Colombo lo recava alla dolcezza, all’indulgenza. Se pubblicò editti severi, fu per proteggere la vita e l’onore degl’indigeni, di cui gli Spagnuoli si pigliavano giuoco. La sua pretesa crudeltà non fu che la giustizia messa al servigio della fraternità cristiana.
Dicasi altresì che l’odio dei nemici dell’Ammiraglio studiavasi di attribuire a lui tutti i provvedimenti presi da suo fratello l’Adelantado; il quale retto e giusto, ma conscio della sua utilità e della sua alta superiorità su tutti que’ licenziosi, infingardi bravacci, e rodomonti cogl’Indiani, non si dava cura di temperare con ispiegazioni verbali e l’affabilità delle forme la precisione de’ suoi comandi. Egli correva diritto la sua via, offendendo nel vivo l’orgoglio degli arroganti idalghi, senza curarsi della loro rabbia: faceva incurvare le loro fronti impudenti sotto l’autorità legittima di suo fratello, il Vice-re: a testimonianza di Las Casas, la sua giusta severità fu sopratutto cagione delle accuse di crudeltà sì spesso mosse contra l’Ammiraglio28. E, nondimeno, secondo la confessione di don Eustachio Navarrete, non si vede come, senza rigore, avrebbe potuto contenere quella popolazion mobile, piena di superbia, ardente alla cupidigia e così naturalmente licenziosa29.
Anzichè venir biasimato alla corte per la sua durezza verso i propri amministrati, Colombo fu al contrario accusato di troppa dolcezza e di troppi risguardi. Perciò, nelle istruzioni date al suo successore in udienza solenne, alla presenza dei Re, il consigliere di stato Antonio de Fonseca, fratello del vescovo ordinatore della marina, raccomandava al nuovo governatore, per timore che non gli accadesse come all’Ammiraglio, di usare severità. sin dal principio contra ogni ribellione, e di percuotere come la folgore30.
E così considerando attentamente, le più gravi accuse fatte a Colombo, elle dileguano una dopo l’altra.
Rimane ora la presunzione generale d’imperizia amministrativa.
Qui, vuolsi convenirne, l’accusa diventa singolarmente indeterminata e confusa; nè sa presentare un solo fatto preciso. Vien rimproverata a Colombo la proposizione da lui fatta di colonizzare la Spagnuola con galeotti, e la sua scelta infelice di Roldano ad esercitare le funzioni di gran-giudice dell’isola.
L’idea di arruolare i coloni nelle prigioni e nelle galere non deve ascriversi all’Ammiraglio, ma alla stessa necessità; e mette in luce la penosa estremità a cui era ridotta la Corte. Non si dimentichi che al momento di tale proposta, la preoccupazione contra le Indie era così grande, che nessuna ricompensa avrebbe potuto muovere un Castigliano ad andarvi. Il soggiorno di due anni alla Spagnuola riscattava da pena capitale; ci avea là una quistione di vita o di morte per la colonia. D’altra parte l’esclusioni volute da Colombo, cadendo sui malfattori più colpevoli, davano motivo di sperare che questo reggimento penitenziario recherebbe felici frutti. E se i condannati non fossero stati sbarcati in avverse circostanze in mezzo a ribelli, il cui esempio, e le cui suggestioni ridestarono ogni lor malvagità non si avrebbe avuto motivo di lamentarsi della loro deportazione. La necessità di aprire le prigioni per popolare la Spagnuola suona piuttosto accusatrice de’ Castigliani che dell’Ammiraglio. Risulta da questa dura necessità, com’egli avesse a cuore di salvare la colonizzazione cattolica di quelle contrade. Prima di abbandonarle, Colombo andava a cercare gli elementi della coltura e dell’incivilimento, fuori di tutti gli usi e di tutte le idee del suo tempo: non diceva, come un eloquente girondino «periscano le colonie anzichè un solo principio;» ma accettava i rischi d’incessanti lotte contro indoli ingrate e perverse, piuttostochè lasciar perire il germe della fede cattolica che aveva seminato. A’ nostri giorni, la rapida prosperità dell’Australia, e il nostro primo tentativo nella Guiana sembrano giustificare il penetrante ardimento delle speranze di Colombo.
Per ciò che risguarda le scelte da lui fatte, esse furono sempre eccellenti. La rea condotta di Roldano non accusa il discernimento di Colombo. Essendo stato Roldano fra’ suoi dimestici, l’Ammiraglio aveva potuto apprezzare il suo amore della legalità, la sua attitudine agli affari contenziosi, alle soluzioni giudiziarie: ei gli aveva sulle prime confidata la carica di giudice di prima istanza, da lui esercitata con soddisfazione di tutta la colonia: l’elevazione alla dignità di gran-giudice o alcade, era ad un tempo una ricompensa ed un incoraggiamento a ben fare. L’ambizione allignò in cuore a Roldano, lo rendette ingrato e traditore; ma la sua capacità, la sua specialità rimangono incontrastabili; ne si potrebbe con equità rendere Colombo mallevadore dell’ingratitudine di un uomo da lui ricolmo di benefizi, fino ad onorarlo del titolo di amico.
Sicuramente, abbiamo un bel cercare, non troviamo errore, nè difetto nell’ingegno amministrativo di Colombo.
Noi non emettiamo come una semplice nostra opinione, che durante il corso della sua amministrazione egli non commettesse errore; sibbene l’affermiamo perentoriamente; lo sosteniamo di certa scienza; lo dichiariamo conscii della sincerità delle nostre investigazioni, dell’estensione delle nostre fatiche, della leale testimonianza, a cui ha diritto la verità travestita, e l’interesse che ispira l’eroismo calunniato.
Non v’ebbe mai governo più difficile dell’affidato a Colombo: egli operava sullo sconosciuto, sprovvisto d’ogni precedente lume amministrativo, continuamente attraversato dalle difficoltà del clima, dell’igiene, delle antiche abitudini e de’ nuovi bisogni; dai conflitti perpetui cogli idalghi e cogli indigeni, dalle diffidenze, dalle brame brutali, dall’insubordinazione permanente, e dalle pedantesche pretensioni della burocrazia di Siviglia, inapplicabili alle esigenze impensate di un reggimento affatto nuovo.
Nondimeno Colombo non commise pur l’ombra di una colpa. Sicuramente, non era infallibile; tuttavia non fallì. La protezione di Dio si allargò sulle sue opere. Nessuna delle sue istituzioni conteneva il germe di un vizio, l’occasione di un disordine, o di un imbarazzo per l’avvenire.
Non iscovriamo difetti nella sua amministrazione, a quella guisa che non riscontriamo vizii in un santo. Ei non aveva in vista la propria elevazione personale, la grandezza della sua casa, la ricchezza de’ suoi figli; sibbene la gloria di Gesù Cristo, l’ingrandimento della Castiglia, l’incivilimento cristiano, il buon governo delle Indie, e l’amministrazione economica di quelle regioni collocate nelle migliori condizioni e col più gran vantaggio del popolo: credendo alla perpetuità dell’opera sua, Colombo non sagrificava mai al presente i vantaggi dell’avvenire.
A dir intero il pensiero nostro, non siamo menomamente sorpresi di non trovare errori nella sua amministrazione, e nella sua vita pubblica: ciò che, per lo contrario, ci sorprenderebbe, sarebbe di rinvenire una qualche lacuna in uomo così perfetto, un qualche difetto di logica, una qualche violazione dei doveri del cristiano: Colombo viveva alla presenza di Dio, e sentiva incessantemente nel suo cuore il peso di una gratitudine infinita pei favori dell’Onnipotente.
Questi vincoli misteriosi, queste comunicazioni coll’ordine sopranaturale, sono precisamente ciò che distingue Colombo dagli altri amministratori, e costituiscono la sua vita un insegnamento memorabile.
Volendo conformarci all’umiltà francescana, da cui Colombo non si discostò mai nella sua difesa, ci ristringiamo a respingere il biasimo, mentre potremmo al contrario mostrare la sua capacità quasi sovranaturale per l’amministrazione.
ll suo senso retto e pratico gl’indicò sempre l’opportunità dei provvedimenti, e del paro i mezzi più semplici e più diretti di recarli ad effetto. Ogni particolarità della sua amministrazione rivela la forza d’unità dell’insieme; e l’aspetto dell’insieme fa fede che la sua scienza sapeva scendere anche a’ più minuti particolari: questa era la scienza che l’imperator Napoleone I giudicava la più rara e più importante, così nella guerra come nella pace. Colombo ricordava questa sentenza della Scrittura: «colui che trascura le piccole cose cadrà a poco. a poco.» A che giova discutere qualche atto del suo governo? I fatti parlano più forte d’ogni interpretazione.
Lorchè, dopo la scoperta del Nuovo Continente, tornò malato alla Spagnuola, in mezzo alla sollevazione degl’indigeni, alla ribellione de’ Castigliani, al dispregio de’ suoi ordini ed all’abbandono de’ suoi subordinati; egli si trovava senza soldati, senza danaro, senz’appoggio morale; la sua condizione pareva disperata: nondimeno, seppe con astute concessioni, con un abile temporeggiare, domare la violenza, disarmare il delitto, ristabilire l’autorità, la sicurezza pubblica, organizzare i lavori ed iniziare la prosperità d’Hispaniola. Se questa non è abilità in fatto di amministrazione, domandiamo che ci venga spiegato un tal prodigio, e siagli assegnato il suo vero nome.
Come dubitare dell’ingegno amministrativo di Colombo, quando si vede quest’uom di mare diventare ad un tratto, secondo la necessità, agricoltore, architetto, ingegner militare, consultore di ponti e strade, economista, agronomo eccellente, impareggiabile magistrato? L’eminenti doti necessarie ai fondatori di colonie, i quali spesso con poco devono bastare a molto, valendosi d’un presente assai difficile per assicurar l’avvenire, erangli state largite in copia maravigliosa.
Non ostante la sua ardente brama di trovar oro, Cristoforo Colombo, appena venne a governare que’ nuovi paesi, alieno dall’occuparsi esclusivamente delle miniere e de’ progressi metallurgici, provvide con gran diligenza alla coltura delle terre, primo principio e ultimo scopo d’ogni buona colonizzazione.
Sotto nome di Podere Reale, aveva fondata una scuola di agricoltura, in cui si trovavano conservati nella loro purezza di razza gli animali riproduttori di ogni specie. Per sua cura, crescevano le piantagioni, e si tentavano saggi di acclimatazione e di orticoltura. Egli sentiva che bisognava rinunziare al reggimento europeo per adottare l’igiene dei naturali, e si sforzava di avvezzare i nuovi coloni agli alimenti degl’indigeni. In questo la sua penetrazione precedeva e superava le costose lezioni dell’esperienza. Voleva che i coloni potessero all’uopo far di meno della metropoli o renderle più di quello che fossero per riceverne. Invece di celibi affamati d’oro, incapaci di collocare affezione nella terra per coltivarla, e che non sapevano che metterla sossopra, egli non voleva ammettere che uomini ammogliati, laboriosi e che dovessero occuparsi di lavori utili di coltura, di dissodamenti, di canalizzazioni, o di prosciugamenti, di moltiplicazione dei greggi31.
Per menare di fronte l’agricoltura e il lavoro delle miniere d’oro, stabilì con esatta equità i diritti del fisco sui lavoratori. I cercatori d’oro pagavano volentieri alla corona il terzo del prodotto de’ loro scavi. Senza gravare il proprietario, arricchiva così il tesoro, invece d’impoverirlo, come aveva fatto Bobadilla, sacrificando l’interesse della Regina ad una bugiarda e fuggevole affezion popolare.
Temendo per gli abitatori della colonia il contagio causidico, facile a svilupparsi al sovraggiungere di que’ legulei che inventano le cause, avvelenano i richiami, soffiano la discordia e fanno da ogni nonnulla scaturir cause e liti, Colombo interdisse ad avvocati e patrocinatori l’entrata nella Spagnuola32, come l’aveva vietata agli stranieri ed agli eretici.
L’attestato ufficiale della superiorità amministrativa dell’Ammiraglio si legge tuttavia nell’istruzione generale del 23 aprile 1497, data dai Re al governatore delle Indie relative al modo di popolare l’isole e la terra-ferma. Questa istruzione, pretto riassunto delle idee di Colombo, prova che aveva trovato i veri mezzi di proteggere gl’interessi degli assenti, degli eredi lontani, e le forme di giustizia che potevano meglio assicurare tutti i diritti; ed in così bel modo, che in quel documento, i Re cattolici si riportano alla istruzione dell’Ammiraglio, e la riproducono testualmente33.
Ma diremo di più: un fatto prova irrefragabilmente la superiorità di Colombo e la sua attitudine al governo degli uomini; ed è questo: tutti i suoi decreti, e regolamenti coloniali, da prima censurati e abrogati dalla corte, sono stati poscia rimessi in vigore: per la forza delle cose tornò a galla il pensiero di Colombo mentre la sua persona veniva sprofondata da un’ingiusta critica e da un biasimo calunnioso.
Per riassumere:
Noi diciamo che nell’amministrazione di Cristoforo Colombo non si scovre errore. In lui la scienza del governo per essere innata; poichè, non avendo potuto acquistarla collo studio, e prepararvisi durante le sue navigazioni, nondimeno ne fece sempre prova a tempo opportuno.
Fu dunque accusato alla corte d’imperizia amministrativa in contraddizione dei fatti, dell’evidenza, in dispregio d’ogni giustizia e d’ogni convinzione: l’invidia aveva bisogno di un pretesto per velare il suo accanimento, simulando lo zelo degli interessi pubblici.
Il re Ferdinando, spirito piccolo, pieno di artificii, e che si credeva tanto valente nel governo, quanto nelle mariolerie politiche, disamava Colombo a motivo della sua superiorità, e le colonie perchè troppo lontane. Il sospettoso monarca temeva che la sua autorità s’indebolisse per effetto della distanza. La produzione immediata era il primo scopo delle sue speranze. Quantunque il suo tesoro non avesse arrischiato alcuna anticipazione a pro delle Indie, pur si doleva che la Castiglia si fosse obbligata a sostenere un’impresa, i cui risultati non erano proporzionati ai sogni della sua ambizione, ed al suo bisogno di danaro pe’ suoi disegni sull’Italia. La sorte del Nuovo Mondo eragli tanto indifferente34, quanto estraneo glien era stato lo scovrimento. Dopo di avere per brevi istanti cavata vanità da Colombo, considerò con occhio d’invidia la sua vasta rinomanza, e si adombrò della elevazione a cui era salito quel marinaro genovese mercè trattati che gli assicuravano titoli e governo.
In proporzione che si estendevano le scoperte, crescevano anche i diritti di Colombo. I nemici del grand’Uomo, gli ufficiali superiori della marina, l’ordinator vescovo Fonseca, il controllore generale Giovanni di Soria, il pagatore generale Jimeno di Bribiesca, sapendo il pensiero del Re, e la sua segreta avversione contro l’Ammiraglio, lo mantenevano fermo nell’idea che quel titolo di Vice-re scemava il prestigio della corona. Fu messo tutto in opera per annullare i titoli e i privilegi che Colombo possedeva, e per violare, anche apertamente, le convenzioni fermate con lui, e ratificate con tutte le forme legali. Si vuole nonpertanto riconoscere che l’ingratitudine e il mal volere del Monarca non ebbero tanta parte in questa iniquità, quanta l’egoismo e gli odii dell’ufficio delle colonie. L’animosita del vescovo Fonseca avanzò in nequizia la malevolenza e le meschine gelosie del re Ferdinando.
§ III.
La surrogazione temporaria all’Ammiraglio nel governo delle Indie essendo stata confermata, col consenso della Regina, che si era persuasa della prudenza di un tale partito, la scelta di Isabella fu astutamente diretta sopra un personaggio ben veduto a corte, ligio all’ordinatore generale della marina, accetto al Re, e il cui contegno grave, riservato, in bell’accordo colla cortesia del parlare, ispirava naturalmente riverenza. Questo personaggio era il commendatore di Larez don Nicola di Ovando.
A questa surrogazione, temporaria in apparenza, ma definitiva nella mente del Re, fu concessa la pompa d’uno splendido corteo e d’una magnifica flotta di trentadue vele. Il vescovo ordinatore, il pagatore Bribiesca e Gonzalvo Gomez di Cervantes, allora stabilito a Siviglia, per un’attività inudita, misero, in meno di sei mesi, le navi in istato di salpare. Se Colombo avesse potuto abbassarsi all’invidia, non avrebbe notato senza dispiacere e senza sospetto questo apparato guerriero, questo sfoggio di forze prodigalizzato ad un ordinamento provvisorio. Il controllore della marina, che gli aveva dianzi negato il passaggio gratuito per un solo servo, non faceva difficoltà per le dieci guardie del corpo a cavallo, e le dodici guardie a piedi del nuovo governatore, il quale menava seco ufficiali di alto grado, e andava con tale pompa che l’Ammiraglio non avrebbe neppure osato averne il pensiero. Evidentemente il governatore temporario era favorito in guisa ben maggiore del governatore a titolo perpetuo ed ereditario.
§ IV.
Ma le diffidenze e le volgari gelosie trovavano chiuse le vie al gran cuore di Colombo. Mentre veniva allestita la flotta, egli, nel suo ritiro, immerso nello studio e nella preghiera, aveva perduto di vista gl’intrighi della corte e le meschine agitazioni del mondo. Un’ambizione più ardita faceva palpitare il suo cuore. Non gli bastava di avere scoperto il Nuovo Mondo, rimanevagli di ricevere il prezzo delle sue fatiche.
La gloria umana era impotente a rimunerarlo: Colombo aspettava la sua ricompensa da più alta parte: egli sperava che, mettendo il colmo a’ suoi favori, Dio si degnerebbe concedergli la liberazione del Santo Sepolcro, fin allora rifiutata agli sforzi delle Crociate.
È noto, che tal era sempre stato il voto costante di Cristoforo Colombo. Dopo questo terzo viaggio, nel quale l’Ammiraglio aveva aumentato di un’altra metà lo spazio della terra, er’egli impaziente di recare ad effetto quell’eroico disegno. Ricoverato presso de’ suoi amici Francescani di Granata, e poscia nel pittoresco monastero de’ Francescani di Zubia, costrutto sul teatro della guerra, in memoria della scaramuccia della Regina35, donde lo sguardo abbracciava ad un tempo l’estensione della Vega, maraviglia della vegetazione europea, e l’Alhambra e l’Albacyn, prodigi dell’architettura araba, egli viveva studiando il capolavoro di san Tomaso d’Aquino, si pasceva deliziato delle Sante Scritture, aspirava nelle rivelazioni de’ Profeti e nell’elevazioni del Salmista il profumo esoterico del testo, tentava scoprire, sino al fondo delle imagini apocalittiche, alcuni raggi luminosi, che sperava avessero a rischiarare la questione de’ Luoghi Santi, attirare l’attenzione dei Re cattolici, e indurli a questa gloriosa impresa.
Talvolta nell’intervallo delle sue investigazioni il contemplatore del Verbo, elettrizzato dalla poesia d’Israele e dagli inni magnifici della Chiesa romana, si provava di rendere in versi l’emozioni della sua pietà. Poeta per sentimento, lo era altresì per la espressione, ed anche nel linguaggio della sua patria adottiva.
Questi carmi cristiani di Cristoforo Colombo sono andati per mala ventura perduti: alcuni vestigi se ne rinvengono conservati a caso nello schizzo d’un suo lavoro sulle profezie36. La poesia n’è grave e solenne come il genio cristiano. Evvi sentito il disinganno del mondo, la profondità della fede, la logica delle cose divine. Il componimento più lungo tratta dei fini dell’uomo. Colombo ha sviluppato in sei strofe, ognuna delle quali comincia con una parola latina, questa massima cattolica: Memorare novissima tua, et non peccabis in æternum. Queste sei strofe sono improntate della grandezza e dell’inflessibilità dei nostri dommi. Vi si ritrovano quelle impressioni profonde, quell’ardente sete del paradiso, quell’orrore del peccato, che sono così naturali alle sante anime. Se in una lingua ch’ei non cominciò a balbettare che verso il suo quarantesimonono anno, Colombo si mostrava poeta, quante armonie non avrebb’egli rivelate nell’idioma di Dante Alighieri e di Torquato Tasso, il dolce favellare della sua infanzia?
Questo fatto dell’ispirazione poetica destasi in Colombo durante la sua sciagura, e nella sua vecchiezza, ci pare degna di osservazione. Grandi genii, e grandi Santi scrissero anch’essi poesie in lor ultimi anni: la gioventù comincia col ritmo, la vecchiaia lo riprende come ad un sollievo, ed una consolazione. Questo ritorno alla poesia e diciam lo stesso della musica, da segno dell’eterna gioventù dell’anima, e sembra la ricompensa esclusiva dell’età che incanutì praticando la virtù. Per non ricordare che un esempio, poco prima della sua morte, Bossuet godevasi a tradurre in versi francesi i Salmi di Davide. A due secoli di distanza questi due uomini sublimi sentivano il medesimo bisogno, e cercavano alla medesima sorgente lo stesso sollievo.
Per quasi sette mesi, di conserva con alcuni dotti Religiosi versatissimi nelle Sante Lettere, Colombo esamino la Bibbia e gli autori ecclesiastici, affine di riunire i diversi testi e indicare le interpretazioni che si adattavano agli avvenimenti ne’ quali er’egli stato protagonista; ed anche i passi applicabili alla tomba del Salvatore. Finalmente, parendogli d’aver compiuto il suo lavoro, il 3 settembre 1501, ne mandò copia ad un dotto teologo di Siviglia, il padre Gaspare Gorricio, della Certosa delle Grotte, perchè lo esaminasse e l’ampliasse se bisognava.
Questo prezioso manoscritto, destinato ai Re cattolici, andò perduto. La sua brutta-copia formava un grande e smilzo volume in folio di 336 facce, con questo titolo: «Raccolta delle profezie sulla ricuperazione di Gerusalemme, e la scoperta delle Indie. Humboldt non ha temuto di chiamare questo lavoro» schizzo dell’opera stravagante delle Profecias: «Lo qualificò, altresì, dispregevolmente «profezie pagane e bibliche37»: l’onnipotenza del suo nome ha fatto accettare questo giudizio, che tende a screditare Colombo nella opinione de’ lettori eruditi. Noi non sapremmo acquetarci a questa sentenza pronunziata senza giustizia e senza esame dei documenti; e vogliamo primieramente stabilire la verità sopra due punti. Humholdt riconosce che «l’opera stravagante» non è che uno schizzo; e conviene che varii Religiosi aiutarono Colombo in tal lavoro.
Dilîatti, il frammento stampato «dell’opera stravagante» che Humboldt lesse in fretla, non è che uno schizzo, una specie di sbozzo, scritta in parte da mano straniera; un embrione senza coordinamento. I passi raccolti, le autorità diversamente classificate, non procedono unite col ragionamento, ed offrono un semplice apparecchio di materiali. È egli permesso di giudicare di un’opera da frammenti di abbozzo, compendiati e tronchi da quattordici mutilazioni? l dotti Religiosi che aiutarono Colombo nel suo lavoro, non lo giudicaron essi un’«opera stravagante.» Al sapiente teologo de’ Certosini di Siviglia fu noto questo libro nella sua interezza, vale a dire finito e integrato dalle quattordici pagine che una mano colpevole ha poscia furate allo schizzo, solo esemplare che ce ne sia rimasto. Queste quattordici pagine avevano dovuto formar la parte più importante del lavoro; Muñoz e Navarrete ne convengono38. Avendo il padre Gaspare Gorricio posseduto intero questo manoscritto, se n’era desso formata una opinione molto diversa da quella di Humboldt.
ll dotto certosino diresse più d’una lettera all’Ammiraglio intorno a questo argomento. Appena ebbe ricevuto e letto il suo manoscritto, gli scrisse che si applicherebbe con tanto maggior calore a secondare le sue intenzioni, in quanto che sperava di aguzzare la sua intelligenza mercè d’una occupazione così salutare, consolante, istruttiva, così stimolante al servizio di Dio39, cosi profittevole al bene come all’onore della Spagna e di tutta la Cristianità. Dopo di avere seriamente esaminata l’opera, confessava di non potervi aggiungere che poco, perché Colombo aveva già raccolto il fiore di tutte le autorità, sentenze, parole e profezie nelle Sante Scritture, e ne’ glossatori; onde trovava che non gli rimaneva altro che spigolare poveramente: nondimeno, si dava a tale studio con unzione, edificazione e consolazione interna. Sollevandosi ai pensieri generosi del contemplatore della creazione, il padre Gaspare Gorricio dimandava a Dio d’illuminare le sue ricerche, affinchè potesse corrispondere «ai santi desiderii40» di sua signoria il Vice-re delle Indie.
Avendo il lavoro di Colombo ad unico oggetto la liberazione de’ Luoghi Santi, l’Ammìraglio non insisteva sui vantaggi di questa conquista. I due Re conoscevano il suo disegno: egli ne aveva parlato con essi avanti la sua prima spedizione, ne aveva parlato da capo, reduce dal suo secondo viaggio, era tornato su questo argomento prima di andare alla scoperta del Nuovo Continente: perciò non si tratteneva a riepilogarne i motivi: solamente, siccome si fondava sull’autorità de’ Santi Libri per accreditare lo scopo esclusivamente religioso della proposta spedizione, metteva primieramente quale introduzione al suo scritto, certi principii spettanti alla migliore interpretazione delle scritture, tratti da sant’Agostino, da san Tomaso, da sant’Isidoro, da Gersone: indi, entrando in materia, ricordava in qual maniera maravigliosa fu eletto ad attuare le diverse parole de’ profeti, specialmente i detti di Isaia, relativi alle nazioni dei confini del globo.
Nonostante il numero de’ suoi nemici, che spiavano ogni occasione di rovinarlo, la vigilanza dell’Inquisizione, allora ardentissima a reprimere il menomo pensiero sospetto d’eterodossia, Colombo scrisse candidamente che la Santissima Trinita gl’inspirò la prima idea della sua impresa; che il Redentore, vale a dire il Verbo fatto carne, fu quello che gl’indicò la via; che nostro Signore si era mostrato propizio al suo desiderio, gli aveva conceduto lo spirito d’intelligenza; che nostro Signore gli aprì poscia l’intelletto in un modo quasi palpabile, e gli diede la forza necessaria di eseguir l’ideato41. Egli riconosce che, nella sua scoperta, le scienze matematiche gli furono di piccolo aiuto; e che da Dio solo erangli venute l’idea e la risoluzione che assicurarono il riuscimento.
Chi si spoglierà di ogni preoccupazione, non troverà certamente nè esagerazioni, nè «stravaganze» in questo lavoro sulle profezie. Quanto a noi, abbiamvi ammirate l’erudizione, e la grandezza unite alla semplicità del ragionamento. Rispetto al compimento delle profezie, Colombo stabiliva un l’atto già dichiarato sei anni prima dal nobile gioielliere di Burgos, don Jaime Ferrer, e da quel tempo riconosciuto da filosofi cristiani, da teologi, da vescovi, da principi della Chiesa di un merito eminente.
Sforzandosi di penetrare tutti i segreti di questo globo, e misurando lo zelo degli uomini dal suo proprio, il servo di Dio sperava, ora che aveva avvicinate le contrade lontane, che il nome del Salvatore renderebbesi rapidamente noto a tutta la Terra. Nell’ardore della sua fede, procedeva arditamente da siffatto risultato a questa induzione, che tutte le nazioni si convertirebbero a Cristo; e che, al consentire di tutte le genti nella medesima legge e nella osservanza d’un medesimo pastore, la fine del mondo sarebbe vicina. Quella mente investigatrice, allargato lo spazio, tentava conquistare la nozione del tempo futuro, e conghietturar l’epoca in cui finirebbe. Appoggiandosi all’opinione di sant’Agostino, ammessa da varii teologi, e in particolare dal cardinale Pietro d’Ailly, che il mondo doveva finire nel settimo migliaio d’anni a cominciare dalla creazione dell’uomo, egli aveva calcolato, secondo le tabelle Alfonsine, che la durata di questo globo non doveva andar oltre centocinquant’anni ancora.
Ne’ suoi scritti l’abate Gioachimo di Calabria, tenuto, mentre era in vita qual profeta e santo, e celebrato da Dante, san Vincenzo Ferreri, e san Bernardino da Siena, in alcuna delle loro predicazioni, rappresentarono anch’essi prossima la fine del mondo, quantunque dicessero che Dio poteva disporre altramente. ll dotto astronomo cardinale Nicola di Cusa si occupò anch’egli di siffatta quistione. Penetrato delle idee di Pietro d’AiIly, sull’estinzione del maomettismo e la venuta dell’Anticristo, Colombo tentava, alla sua volta, di fissare mercè calcoli il giungere dell’ultima ora del nostro globo. Ma egli non si fermò a queste probabilità, ne fece di questa possibilità il punto fondamentale del suo ragionamento.
L’adempimento delle profezie, l’infallibilità della parola di Dio, tale è la base della sua dimostrazione. «Nostro Signore ha detto, che, prima della consumazione di questo mondo, tutto ciò che è stato scritto accadrà.42»: e di qua, per una serie di ragionamenti, che una mutilazione di quattordici pagine c’impedisce apprezzare, conchiude la necessità di liberare prontamente il Santo Sepolcro, nè già affine di assicurare alla Spagna un vantaggio politico, ma per farne dono alla Chiesa Cattolica.
Ciò che ambiva il discepolo del Verbo, era, liberando dal giogo degl’infedeli la terra de’ miracoli, di riunire Gerusalemme a Roma, di dare la tomba del Salvatore al Successore del Principe degli Apostoli. Cosi la Palestina sarebbe appartenuta alla Santa Sede, secondo il legame naturale che unisce all’antica la nuova Gerusalemme, come l’antica legge al Nuovo Testamento. I Luoghi Santi sarebbero stati aggiunti al dominio di san Pietro, qual appanaggio del diritto di primogenitura apostolica. La quistione de’ Luoghi Santi, nodo gordiano degli interessi religiosi dell’avvenire, sarebbe stata sciolta dall’oro del Nuovo Mondo, o troncata dalla spada del suo rivelatore, e non avrebbe potuto servire attualmente di pretesto all’ambizione degli scismatici Greci e Russi, i quali osano pretendere d’esser essi la Chiesa Ortodossa. Non si sarebbero vedute nazioni separate dalla Comunione Romana, governi protestanti e panteisti, venire audacemente a disputarsi, come una parte di eredità, paterna, privilegi, che, pei diritti dell’antica possessione, del martirio, della cavalleria, appartengono alla sola Chiesa cattolica, apostolica romana, e, dopo di lei alla Francia, sua figlia primogenita.
Cristoforo Colombo calcolò, che col prodotto de’ suoi diritti di decima, potrebbe sostenere la impresa: combinava il suo budget in modo da levare in due volte un esercito di centomila fanti e diecimila cavalli43. Mentre l’eroe cristiano faceva questo pio calcolo, non riscuoteva delle sue entrate il bastevole per comperarsi un mantello. I duemila ducati che la Regina gli aveva fatto pagare a Cadice, erano stati impiegati per la sua casa e per quella dell’Adelantado: gli bisognava sostenere a Cordova la modesta casa di sua moglie dona Beatrice Enriquez, e fornire l’occorrente a suo fratello don Diego, che inclinava separarsi interamente dal mondo. Nella sua doppia qualità di Vice-re delle Indie e grande Ammiraglio dell’Oceano, era obbligato ad un vivere pomposo, doveva mantenere un certo numero di ufficiali e di servi: dopo d’aver soggiornato oltre di un anno in Ispagna trovavasi aver dato fondo ad ogni suo avere.
Nondimeno, allora che si ricordano i principii severi di ordine e di economia domestica, a cui si attenne sempre l’Ammiraglio, non si comprende, come, anche avuto risguardo alle sue spese eccezionali, si trovasse così privo di danaro. Non sapremmo dubitare che il suo zelo per gli spedali, e il suo amore de’ poveri, non abbiano particolarmente contribuito a quel suo impoverimento. Secondo ogni apparenza, facendo capitale delle sue rendite allora scadute, che dovevano montare ad oltre ottomila ducati, volle contentare la sua riconoscenza e la sua pietà, rendendo alla famiglia francescana di Granata ciò che ne aveva dianzi ricevuto alla Rabida.
Ma siccome non potè in quell’anno riscuotere il danaro che gli era dovuto alla Spagnuola, e che la prima spedizione di quattromila ducati non venne fatta che il 2 agosto 1502, così ei si trovò all’asciutto di danaro. Ei che aveva dato alla corona territorii cento volte più estesi della Castiglia, non possedeva un cantuccio di terreno, non un giardino per passeggiarvi, non un tetto per ricoverarvi sotto; ridotto a vivere all’osteria, e spesso senz’avere di che pagare lo scotto. Non solamente egli non trovava sempre con che «pagare lo scotto44,» ma, cosa più penosa alla sua carità, non aveva neppure una piccola moneta per dare all’offerta quando era in chiesa; e questo era ciò che gli dolea da vantaggio: solo per questa circostanza si lamenta della sua miseria: non potere offrir nulla alla Chiesa45 ed ai poveri, questo è ciò che gli cuoce del suo povero stato. Colombo non accenna a queste strettezze che tendono a diminuire lo splendore del suo grado, ad abbassare la dignità de’ suoi titoli: per lui la povertà non è penosa, sopratutto, se non perchè nuoce ai poveri, che non può assistere.
Il disfavore gettato sulle colonie impediva che l’Ammiraglio ottenesse anticipazioni. Le sue strettezze, e il discredito di pecunia e d’influenza in cui era caduto, noti in Castiglia, traspirarono anco fuori. Una lettera del segretario dell’ambasciator veneto in Ispagna, nella quale Angelo Trivigiano si vanta di essere diventato «grande amico» di Colombo, mostra ad un tempo le di lui strettezze, e la sua inesauribile bontà. In mezzo alle sue tribolazioni il Vice-re delle Indie faceva eseguire dai piloti di Palos, per Domenico Malipiero, una carta di gran dimensione46, rappresentante tutte le terre scoperte nelle Indie.
I grandi che pigliano qual bussola nelle loro relazioni il favore della corte, avevano abbandonato il vecchio marinaro. Eccettuati i Francescani47, e alcuni dotti stranieri, nessuno rompeva la solitudine del Vice-re caduto in disgrazia. Egli comprese allora, che chi si dedica a tutti non ottiene riconoscenza individuale; che i servigii resi all’universale son come resi a nessuno: ricordava quel proverbio: «Chi serve al comune, serve a nessuno48.» Alleviato dal peso dell’amministrazione, si elevava più liberamente a Dio. Con sublime slancio sublimavasi più di frequente l’anima sua alle altezze inscrutabili della conversazione celeste. Il contemplatore del Verbo trovava consolanti compensi al suo sforzato ozio. L’ingratitudine del Re, l’ingiustizia dell’opinion pubblica non facevano che distaccare sempre più Colombo dagl’interessi temporali, e lo recavano, come l’Apostolo delle nazioni, felice ammiratore dell’invisibile, a vivere unicamente in Cristo, e a non voler possedere altra scienza, che Gesù morto in croce.
- ↑ Il P. Charlevoix. storia di San Domingo, lib. iii
- ↑ L’Ammiraglio parlò poco in presenza del Re, cui egli ben sapeva non essergli favorevole, ma alcuni giorni dopo, essendo stato ammesso ad un’udienza della Regina... egli commosse sino alle lagrime il cuore di questa buona principessa. — Il Padre Charlevoix, Storia di San Domingo, lib. III.
- ↑ “En siete años hice yo esta conquista per voluntad divina.” — Lettera di Cristoforo Colombo ai membri del Consiglio, alla fine dell’anno 1500. — Documento originale dello storiografo D. Martino Fernandez di Navarrete.
- ↑ Sono parole di Cristoforo Colombo. “Con zelo de fielisìmos cristianos.”
- ↑ “Y como vine á servir estos principes de tan lejos, y deje muger y fijos que jamas vi por ello.” — Copia alle lettere, delle bozze scritta dall’Ammiraglio di propria mano. — Coleccion diplomática. Documentos — n° cxxxvii.
- ↑ “... Y que en ello ni se aguardó justicia ni misericordia. Dije misericordia, y non se entienda de S. A. porque no tienen culpa.” — Copia alla lettera, delle bozze scritte dall’Ammiraglio di propria mano. — Coleccion diplomática, Documentos, n° cxxxvii.
- ↑ Washington Irving, Storia di Cristoforo Colombo. — Humboldt. Esame critico della storia della geografia, ec.
- ↑ Washington Irving, Storia della vita e dei viaggi di Cristoforo Colombo, lib. VI, cap. viii.
- ↑ Il P Charlevoix, Storia di San Domingo, lib. II, pag. 119, in-4
- ↑ Washington Irving, Storia di Cristoforo Colombo, lib. VIII, cap. viii.
- ↑ Oviedo y Valdez, Storia naturale e generale delle Indie, lib. V, cap. iii. — Traduzione di Giovanni Poleur.
- ↑ Il Padre Charlevoix, Storia di San Domingo, lib. I, p. 48, 49.
- ↑ Codice di Valenza. — Tarazona, Instituciones del fuero y privilegios del reino de Valencia, tom. VIII, p. 396.
- ↑ Rousseeuw-Saint-Hilaire, Storia di Spagna, lib. XVIII.
- ↑ “Quibus deinde furto gravius iterum cœsis aures amputantur” — Luici Marini Siculi, De rebus Hispaniœ, lib. XIX.
- ↑ Oviedo e Valdez, Storia naturale e generale delle Indie, lib. III, cap. v.
- ↑ Fernando Colombo, Vita dell’Ammiraglio, cap. lxxxiv.
- ↑ “Pero en cuestiones como estas en que el afecto filial non ha podido ladear la pluma de D. Hernando, su relacion debe ser la mas veridica.” — D. Eustaquio Fernandez de Navarrete, Coleccion de Documentos ineditos para la historia de España, tom. XVI, p. 524.
- ↑ “A mi hermano no hiciera inenos si me quisiera matar y robar el señorio que mi Rey é Reina me tenian dado en guarda.” — Carta del Almirante al Ama del principe D. Juam.
- ↑ “El alcade le prendió y á parte de su cuadrilla; y el caso era que él los justiciaba sin que yo lo proveyere.” — Idem, ibidem.
- ↑ Navarrete, Coleccion de los viages y descubrimientos, etc., introduccion, § xix.
- ↑ Ortiz de Zuñiga, Anales ecclesiasticos y seculares de la muy noble y muy leal ciudad de Sevilla, lib. XII, p. 401.
- ↑ "Rosseeuw-Saint-Hilaire, Storia di Spagna, t. V, lib. XVIII, cap. ii, p. 490.
- ↑ Memorial que para los Reyes católicos dió el almirante D. Cristóbal Colon en la ciudad Isabela. — Respuesta de los Reyes al márgen de cada capítulo.
- ↑ Apendice á la Coleccion diplomática, num. xvii.— Registr. del sello de carte en Simancas.
- ↑ Humboldt, Esame critico della storia della geografia del Nuovo Continente, t. III, sez. ii, p. 282.
- ↑ Colombo non ebbe un solo schiavo; ma il vescovo ordinatore della marina, primo autore delle calunnie sparse contro di lui, ne possedeva in piena proprietà duecento, dei quali un nobile francescano, il cardinal Ximenes, l’obbligo a privarsi. — Il P. Charlevoix, Storia di San Domingo, lib. V, p. 537, in-4.— Quando il cardinale ministro si ritirò don Juan Fonseca il Re e si fece restituire questa proprietà antichissima.
- ↑ “Por ventura fué la causa de las cosas de rigor y crudeldad que se imputaron al Almirante.” — Las Casas, Historia de las Indias, lib. I. cap. xxix. Ms.
- ↑ “Verdad es que toda esta severidad hacia falta, y no se sabe come hubiera podido gobernase de otro modo gente tan revoltosa y discola.” — D. Eustaquio Fernandez de Navarrete, Noticias de D. Bartolomé Colon. Coleccion de documentos ineditos, tomo XVI, p. 527.
- ↑ Herrera, Storia generale delle conquiste e viaggi dei Castigliani nella Indie occidentali. Decade I, lib. IV, cap. xiii.
- ↑ Cédula para que Fernando de Zafra busque veinte hombres de campo y otro que sapa hacer acequias. — Coleccion diplomática. Documentos n° xxiii.
- ↑ Il P. Charlevoix, Storia di San Domingo, lib. III, p. 141, 142, in-4.
- ↑ Nos parece que se debe guardar la forma que está en el capitulo de vuestro memorial, que sobre esto nos distes que es el siguiente: “Muchos extrangeros é naturales son muertos en las Indias, etc...” — Instruccion de los señores Reyes católicos al Almirante para la poblacion de las islas y Tierra firme. — Coleccion diplomática. Documentos n° civ.
- ↑ José Quintana. — “Consideraba el Nuevo Mundo como ageno, y no lo estimaba sino por el producto que rendia.”
- ↑ La sola importante battaglia avvenuta nella pianura di Granata durante l’assedio della città, impegnossi improvvisamente, in occasione d’una passeggiata della Regina Isabella sul colle di Zubio; questa giornata denominossi la scaramuccia della Regina.
- ↑ Per mala ventura, la parafrasi del Memorare novissima tua, il cominciamento di un’ode sulla nascita di San Giovanni Battista intitolata “Gozos del nascimiento de Sant’Juan Bautista,” poi una stanza che ha per soggetto il dovere cristiano, ed alcuni versi sparsi qua e là sui fogli del libro de las Profecias, compongono unicamente ciò che ci pervenne delle poesie di Cristoforo Colombo.
- ↑ Humboldt, Esame critico della storia della geografia del Nuovo Continente, t. I, p. 102.
- ↑ “Pero le falten catorce hojas que han cortado, y es factible fuese lo mejor de la obra.” — Nota alla collezione del manoscritto mutilato fatto dall’istoriografo a Siviglia il 14 marzo 1784.
- ↑ “Esperando de mi enseñar y despertar mi entendimiento en cosa tan salutifera, consolatoria, admonitoria y provocativa al servicio de Nuestro Señor Dios, y al pro é honra destos Nuestros Reyes é de toda la religion Cristiana.” — Respuesta del P. D. Frey Gaspar Gorricio. — Coleccion diplomática. Docum.,.n° cxl.
- ↑ “Rogando á Nuestro Señor que cumpla quod locutus est per os Prophetarum, y plega á su infinita clemencia de lo asi hacer, y llevar los santos deseos de V. S.” — Respuesta del P. D. Frey Gaspar Gorricio.
- ↑ “Ansi que me abrió Nuestro Señor el entendimiento con mano palpable... Y me abrió la voluntad para la ejecucion dello.” — Carta del Almirante al Rey y à la Reina. — Libro de las Profecias, fol. iv.
- ↑ “Nuestro Redentor dijo que antes de la consumacion deste mundo se habrá de complir todo lo questaba scritto por lss profetas.” — Libro de las Profecias, fol. iv. Carta del Almirante al Rey y á la Reina.
- ↑ “Que donde á siete años yo le pagaria cincuenta mil de pie y cinco mil de caballo en la conquista della, y donde á cincos años otros cincuenta mil de pie y otro cinco mil de caballo, que serian diez mil de caballo è cien mil de pie para esto.” — Carta del Almirante Calon á Su Santitad.
- ↑ “Y las mas de las veces falta para pagar el escote.” — Cristoforo Colombo, Lettera ai Re Cattolici datata dalla Giammaica il 7 luglio 1503.
- ↑ “No tengo solamente una blanca para el oferta.” — Ibidem.
- ↑ Lettere di Angelo Trivigiano del 21 agosto 1501. — Morelli, Lettera rarissima, pag. 44.
- ↑ Humboldt riconosce che a Granata Colombo viveva nella società dei Francescani. — Esame critico della storia della geografia del Nuovo Continente, t. III, § 2, p. 258.
- ↑ «Chi serve al comune, serve a nessuno.»