Cristoforo Colombo (de Lorgues)/Libro III/Capitolo VII
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Traduzione di Tullio Dandolo (1857)
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CAPITOLO SETTIMO
§ I.
Mentre l’Ammiraglio, confidando nella saviezza della Regina e nella giustizia della sua causa, vedendo rinascere nell’isola l’ordine e la sicurezza, si occupava assiduamente in ampliare la fortezza della Concezione, della quale, da valente ingegnere qual era, faceva una cittadella di prim’ordine, la mattina del lunedì, 23 agosto, si videro da San Domingo due caravelle che lottavano contro i venti di terra, e manovravano alla distanza di circa una lega per guadagnare l’entrata dell’Ozama.
Pensando don Diego Colombo che queste caravelle menassero il suo nipote don Diego, figlio primogenito dell’Ammiraglio, del quale bramava con ardore la venuta, spedì incontanente verso le caravelle una scialuppa che accostatasi alla Gorda, dimandò chi n’era il comandante. Bobadilla, appoggiato al parapetto, rispose essere egli stesso; che si chiamava il commendatore Francesco di Bobadilla1; che giungeva in qualità. di commissario dei Re, per giudicare i ribelli, e che il giovane don Diego non era stato imbarcato. La scialuppa tornò indietro.
Questa notizia, prontamente sparsa, diffuse spavento ne’ ribelli.
Verso le dieci, caduto il vento di terra, le caravelle entrarono nel porto. Il commendatore potè vedere a bella prima due patiboli dai quali pendevano due corpi. Non occorreva più in là per giustificare a’ suoi occhi le accuse di crudeltà fatte all’Ammiraglio. La maggior parte degli impiegati andarono subito sulla caravella a presentare i loro omaggi all’inviato de’ Monarchi. ll commendatore decise che non scenderebbe a terra quel giorno.
L’indomani, accompagnato dal suo stato maggiore, trasse direttamente alla chiesa, ove si trovavano già don Diego Colombo, e Rodrigo Perez, ristabilito nel suo uffizio di luogotenente, del giudice dopo defezione di Pedro Riquelme. All’uscire dalla messa, sulla porta stessa della chiesa, Francesco Bobadilla fece, alla presenza di don Diego Colombo e di tutti gli astanti, dar lettura, per mezzo del notaro Gomez di Ribera, del rescritto reale; indi in virtù dei poteri che aveva fatto conoscere, intimò a Diego Colombo e al luogotenente del giudice Rodrigo Perez di dargli nelle mani i prigionieri chiusi nella fortezza, fra gli altri Fernando di Guevarra, Pedro Riquelme e tre altri che si dicevano condannati a morte.
Diego Colombo rispose che il Vice-re delle Indie aveva prerogative e titoli superiori a questa commissione, come lo proverebbe in tempo e luogo; che in assenza di lui non poteva secondare quelle dimande: e chiese al commendatore copia de’ suoi titoli per dirigerla all’Ammiraglio, da cui dipendeva ogni cosa nell’isola. Bobadilla replicò a don Diego, che, poich’egli non aveva alcuna potestà di fare, era inutile dargli la copia dimandata; ma che in breve farebbe valere altra autorità, diversa da quella di capo della giustizia, perché aveva il diritto di comandare a tutti, ed allo stesso Ammiraglio.
Il seguente mattino, al finir della messa, Francesco Bobadilla si fermò di nuovo sulla soglia della chiesa: fece fare dal notaro Gomez di Ribera, lettura dell’ordinanza reale del 21 maggio 1499, la quale conferivagli il governo e la giudicatura delle isole e della terraferma delle Indie, e prescriveva ad ogni suddito di riconoscerlo e di obbedirgli. Immediatamente il nuovo governatore prestò il giuramento d’uso, e ordinò a don Diego Colombo e al luogotenente del giudice Rodrigo Perez, in virtù dell’obbedienza che a lui dovevano portare, di consegnargli i prigionieri. Essi gli risposero che in nome dei Re, obbedirebbero sempre a’ suoi ordini, ma che l’Ammiraglio essendo assente, non potevano far cosa senza le istruzioni di quello che dal suo titolo di Vice-re trovavasi investito di poteri perpetui, e superiori.
Siccome la maggior parte degli astanti, e sopratutto gl’impiegati pareva fossero di quel medesimo avviso, e non volessero credere senza riserva ai titoli che aveva pubblicato il commendatore, Bobadilla fece far silenzio e leggere da Gomez di Ribera l’ordine dei Re, firmato il dì medesimo, il quale prescriveva all’Ammiraglio ed a’ suoi fratelli, del paro che ad ogni persona soggetta alla loro autorità, di consegnare in sue mani castelli, magazzini, arsenali, munizioni da guerra, cavalli, armi, greggi, tutto ciò che apparteneva alla Corona. Quest’ordine così imperioso parve cominciasse a piegare la convinzione degli astanti. Affine di attirarsi presto la benevolenza del popolo, Bobadilla disse che aveva un’altra pubblicazione da fare.
La turba ascoltava con vivissima curiosità.
Allora il notaro reale lesse l’ordine dato dalle loro Altezze al commendatore in data del 30 precedente maggio, di verificare i conti, e far pagare dall’Ammiraglio ciò che doveva personalmente. Siccome la maggior parte degli astanti trovavansi creditori, questa nuova suscitò viva soddisfazione e conciliò gli animi all’inviato dei Re. Facendo capitale del sostegno della moltitudine, il commendatore intimò di nuovo a don Diego Colombo e al luogotenente Rodrigo Perez di consegnargli i prigionieri, coi documenti del loro rispettivo processo, dichiarando che se non gli eran dati colle buone, saprebbe averli nelle mani colla forza.
Diego Colombo rispose quanto aveva già detto.
Scortato dai suoi e accompagnato dalla moltitudine, Bobadilla andò con aria marziale verso la fortezza. Essa era difesa dall’Alcalde Michele Diaz, quel gentiluomo aragonese, che dianzi a’ servigi di don Bartolomeo Colombo, era fuggito dopo un duello alla catalana, e aveva risaputo dalla cacica Catalina, da cui era amato, ove giacevano le miniere d’oro sulle rive dell’Ozama. Michele Diaz, sapendo le intenzioni del commendatore Bobadilla, addoppiava di vigilanza. Le porte erano chiuse e l’Alcalde trovavasi sulle mura, quando sopravenne il nuovo governatore, il quale, dopo fatta replicar la lettura de’ suoi poteri, notificò all’alcalde di consegnargli i prigionieri. Michele Diaz chiese di verificare co’ suoi propri occhi que’ poteri, e ne dimandò copia. Bobadilla rispose che non v’era da temporeggiare trattandosi di prevenire l’esecuzione di una sentenza di morte, e che si dovesse subito consegnargli i prigionieri. L’alcalde replicò, che, tenendo il suo mandato dall’Ammiraglio che aveva conquistato quelle isole, attenderebbe le sue istruzioni. Bobadilla caduto di speranza di vincere quella fermezza, si ritrasse e andò a preparare l’attacco.
ll nuovo governatore fece sbarcare i marinai delle due caravelle, li riunì ai venticinque uomini menati seco ed alla paga regia, raccolse i militari sparsi nella città, fece appello a tutti quelli che si lamentavano di Colombo, e seguito da queste schiere di malcontenti, venne a porre l’assedio a quella fortezza, la quale non aveva di pauroso altro che il nome. Bobadilla formò le sue colonne di attacco sotto l’artiglieria delle mura, che rimase muta.
La prima schiera mandata gagliardamente contro la porta principale, gli diede tale scossa che i suoi cardini ne furono smossi, i catenacci si ruppero, la serratura in breve cedette, e l’entrata fu inaspettatamente libera, mentre si appoggiavano le scale contra i bastioni, e si cominciava un assalto inutile, poiché già la porta maggiore era aperta. Durante questo simulacro di assalto, due soli uomini erano apparsi colla spada in mano, pronti a combattere, l’Alcalde Michele Diaz e Diego di Alvarado, segretario dell’Ammiraglio. ll governatore trionfante, fece un’entrata romorosa nell’aperta cittadella, comandò che i prigionieri, che si erano trovati racchiusi in una sala incatenati, fosserin addotti; e, dopo un breve esame, li diede in guardia all’alguazil Juan Espinosa.
Di là corse ad una conquista non meno facile: s’impadronì della casa del Vice-re, il qual, diceva, non era per averne più bisogno, perocchè intendeva mandarlo in Ispagna co’ suoi fratelli2, carico di catene. Prese possesso di tutti i suoi mobili, dono personale della Regina; s’impadroni del suo vasellame, della sua biancheria, de’ suoi cavalli, delle sue armi, delle sue vesti, delle sue perle, delle sue pietre preziose: pigliò il danaro, l’oro in verghe, e quanto altro trovò; e ciò senza testimoni, senza verificazione, senza inventaro; fece scomparire pepite d’oro preziose, pezzi rari che l’Ammiraglio aveva messo in serbo per mostrarli ai Re, grani grossi molto, simili ad uova d’oca o di gallina, ed una catena che pesava venti marchi. Le curiosità mineralogiche, le rare conchiglie, le collezioni vegetali che Colombo aveva raccolto ne’ suoi viaggi, le figurine, le memorie religiose che gli erano state date, diventarono la preda di quell’ignorante cupido e brutale. Le note di Colombo, le osservazioni della sua sagacità, le operazioni del suo genio, le sue carte, i suoi disegni, le sue note scientifiche3, l’espansioni della sua pietà, le più intime confidenze di quel cuore sublime vennero frugate e contaminate dallo sguardo di tal sicofante. Egli confiscò i segreti del genio, e levò dalle carte amministrative tutti i documenti che avrebbero messo in confusione gli accusatori dell’Ammiraglio4.
Al tempo stesso, per inaugurare la sua nuova amministrazione con un atto solenne, fece pubblicare l’autorizzazione conceduta per venti anni ad Ogni abitatore dell’isola di cercar l’oro nelle miniere. Invece di mantenere il terzo del prodotto riserbato da Colombo alla corona. riduceva ad un undecimo i diritti del tesoro. Così, con questo primo provvedimento, che procurava a lui certamente una grande popolarità, egli diminuiva di molti milioni le rendite della colonia; e, formando la ricchezza di alruni privati, gravava la Castiglia di un gran peso.
§ II.
Un messo di don Diego Colombo venne a sorprendere l’Ammiraglio in mezzo alle fortificazioni che innalzava alla Concezione. Nelle prime notizie, ogni cosa era confusa; L’Ammiraglio pensò a bella prima che questo inviato, come gia Juan Aguado, infatuato de’ suoi poteri, gli esagerasse. Non trovando nella sua coscienza cosa che desse motivo ad un tal rigore dalla parte dei Re, era quasi per credere che questo Bobadilla avesse fabbricato questi titoli per imporne ai creduli, e, ad esempio d‘ Ojeda, ricominciare le turbolenze con tanta pena quietate. Tuttavia, affine di essere più vicino, e meglio informato degli affari di San Domingo, andò a Bonao. Quivi riseppe altre particolarità, e scrisse al commendatore Bobadilla per gratularglisi del suo arrivo nell’isola, e indurlo a non prendere partiti importanti prima di avere studiato i luoghi. Ei gli faceva comprendere che, desiderando di andare in Castiglia, rimetterebbe tra poco nelle sue mani le redini del governo, e gli darebbe tutte le notizie di cui potrebbe aver bisogno. Il commendatore non rispose a questa lettera; attennesi al silenzio dell’odio o del dispregio per un emolo abbattuto: invece diresse cortesie all’antico ribelle Roldano, e gli mandò una patente che lo confermava nella sua carica di gran-giudice. Alcuni de’ principali complici della ribellione, contra i quali la cedola del 21 marzo 1499 prescriveva di usar rigore, ricevettero anch’essi impieghi col mezzo de’ brevetti che i Sovrani avevano firmato in bianco.
Alcun tempo dopo, Bonao vide arrivare un alcalde, mandato dal nuovo governatore, a pubblicare l’ampliazione de’ suoi poteri, e a comandare agli abitanti obbedienza. Udita questa notificazione dell’alcalde, l’Ammiraglio protestò dinanzi a lui, che i suoi titoli di Vice-re e di governatore perpetuo non potevano essere annullati dalle facoltà date a Bobadilla; che la nomina del commissario regio era solo valevole per l’amministrazione della giustizia; e intimò agli astanti di continuare a prestargli obbedienza in tutto il rimanente, come prima.
Tuttavia, quantunque si fosse impadronito alla maniera dei corsari della casa del Vice-re, il commendatore non era interamente assicurato. L’Ammiraglio aveva seco ufficiali affezionati; esercitava un grande ascendente sui cacichi; suo fratello l’Adelantado si trovava nel Xaragua comandante di una schiera fedele. La voce correva a San Domingo essere imminente un moto generale nell’isola. Siccome in virtù de’ suoi trattati colla Castiglia, Cristoforo Colombo era Vice-re e governatore perpetuo delle Indie, così nessun ordine poteva distruggere i suoi privilegi; ed aveva diritto di tutelarli ricorrendo, se fosse bisogno, anche alle armi. Temendo, dunque, il nuovo governatore che l’Ammiraglio non respingesse colla spada il mandato firmato dall’ingratitudine di Ferdinando e dall’errore di Isabella, giudicò prudente di usare le vie della persuasione e della dolcezza per recarlo a cedere.
Era nota la pietà di Colombo e come amava l’Ordine di San Francesco: il governatore avvisò che il migliore intermediario in questo all’are sarebbe stato un francescano. Perciò il 7 di settembre pregò il padre Juan di Frasiera5, ch’era stato incaricato degl’Indiani ricondotti ad Hispaniola per ordine della Regina, di andare a Bonao all’Ammiraglio, e di mostrargli la lettera di credenza data dai Sovrani al nuovo governatore. Il Francescano non potè rifiutarsi a quella trista commissione: raccontò al Vice-re ciò ch’era avvenuto a Siviglia, e ciò ch’era testè accaduto a San Domingo. Per convincerlo della realtà di que’ fatti, pose sotto i suoi occhi la lettera di credenza, il cui terribile laconismo troncava ogni incertezza e dispensava da ogni spiegazione.
Eccola nel suo sinistro tenore:
«Don Cristoforo Colombo, nostro ammiraglio del Mare Oceano: noi abbiamo ordinato al commendatore Francesco di Bobadilla, latore della presente, di dirvi da nostra parte certe cose di cui egli è incaricato; e vi preghiamo di prestargli fede e credenza e di operare conseguentemente.»
La lettera firmata dal Re e dalla Regina, portava il contrassegno del segretario Michele Perez di Almazan6. Non vi era più da dubitare. I Sovrani rompevano le convenzioni fatte con lui, violavano la loro parola, e disponevano di privilegi e di cariche ch’erano diventati sua proprietà: lo percuotevano prima di informarsi, prima di permettergli giustificazione veruna; e ciò contro ogni decoro, ogni ragione, ogni equità, senza neppur l’ombra di un torto da parte sua. Colombo fu oppresso dalla tristezza, e arrossò di vergogna, pei Re. Ma se soffocavan essi la riconoscenza, dimenticavano le loro promesse e falsavano la loro parola, l’Ammiraglio rispettava i suoi giuramenti: risolvette di non rompere l’obbedienza e di dare cristianamente l’esempio della sommissione all’autorità. comechè ingiusta: solamente il suo cuore gemeva in segreto: che quell’Isabella, sempre sì grande, sì generosa e sì pura, si fosse lasciata sorprendere dai nemici della sua gloria: pativa per lei più che per sè.
Affine di non offuscare la superbia del nuovo governatore, Colombo andò a San Domingo, a cavallo, senza scorta, quasi senza servi7, non avendosi a centurone che il suo cordone di san Francesco, e ad arme che il suo breviario. Così, fra la preghiera, la poesia dei Salmi e la contemplazione della natura equinoziale, il discepolo della croce, pienamente rassegnato alla volontà divina, andò umilmente incontro al suo nemico. Appena fu Bobadilla avvertito del suo giungere, fece prendere e incatenare il fratello dell’Ammiraglio don Diego, e lo mando ad una delle caravalle, coi ferri ai piedi, senza addurgliene alcun motivo, senza pigliare neppur la pena di osservare con lui le menome forme di giustizia.
Poco appresso, giunto il Vice-re per salutare il nuovo governatore, questi, rifiutando vederlo, comandò incontanente di serrarlo nella fortezza coi ferri ai piedi. Non oppose Colombo alcuna resistenza, e seguì nella prigione i satelliti.
Ma quando si venne al punto di attaccar le catene a quei piedi che avevano condotto la Castiglia al conquisto del Nuovo Mondo, tutti i cuori si commossero d’indegnazione. Nessuno degli ufficiali e delle guardie del governatore sentì in sè la forza di adempiere quell’ordine esecrabile. Il dolore compresso soffocava tutte le voci: si rivoltavano segretamete contra la loro degradante obbedienza. La serenità della calma dell’eroe imponeva un doloroso rispetto. Le catene, quantunque portate dinanzi a lui, giacevano sulle pietre della prigione, e non era alcuno degli astanti che osasse sollevarle. Davanti a tale opera, i medesimi carcerieri indietreggiavano come all’idea di un sacrilegio. L’ordine del governatore non poteva dunque eseguirsi, quando venne ad offrirsi lietamente per un tale misfatto, non un seida di Bobadilla, un Indiano stupido od odioso, ma un uomo della casa dell’Ammiraglio, il suo proprio cuoco. Questo infame s’inflisse allegramente una tale vergogna, e con impudente prestezza, ribadì le catene del suo padrone. Las Casas lo conosceva: si chiamava Espinosa8.
Come suo fratello don Diego, neppur l’Ammiraglio conobbe il motivo di quel duro e feroce procedere. Non fu conceduto ad alcuno di vederlo né di parlargli. Solamente Bobadilla gli fece dire di scrivere a suo fratello l’Adelantado, che si guardasse bene dal far eseguire la condanna di morte sui rinchiusi nella prigione di Xaragua e di prescrivergli tornare senza la sua gente a San Domingo. Uniformandosi Colombo alle intenzioni di Bobadilla, esortò don Bartolomeo a sottomottersi docilmente agli ordini dati in nome dei Be, pregandolo a non inquietarsi per la sua prigionia, e assicurandolo che tornerebbero in Castiglia, ove sarebbero ristorati dal male che loro veniva fatto. Come fu sempre pieno di deferenza ai desiderii di suo fratello, l’Adelantado si spogliò incontanente del suo comando, e prese la via di San Domingo. Appena giunto, fu carcerato e messo in catene in un’altra caravella, dimodochè i tre fratelli si trovavano isolati, privi di notizia gli uni degli altri, tenuti in segreto e nella privazione d’ogni cosa.
L’Ammiraglio non aveva che la veste leggera che portava nel calore del giorno al momento della sua carcerazione: chè Bobadilla si era impadronito di tutti i suoi indumenti, perfino del suo soprabito, sayo, veste lunga che somigliava pel colore e la forma alla tunica de’ Francescani9. Sulle pietre della sua segreta, co’ suoi dolori reumatici, e quelli della gotta, egli dovette patire crudelmente di freddo nella notte, poich’era quasi ignudo, desnudo en cuerpo. I vili alimenti ond’era cibato si componevano di ciò che gli altri ributtavano. Perchè un vecchio marinaio abituato alle privazioni si lamentasse della sua razione di carcerato, bisognava che fosse ben nauseante.
Mentre pativa così cattivi trattamenti10, senza pur sapere di quali colpe lo si accusava, Bobadilla cominciava il processo delle ribellioni scoppiate nell’isola. Ma invece di carcerare, secondo gli ordini della Regina, coloro che si erano ribellati contra l’Ammiraglio e i suoi fratelli, rovesciato il senso delle sue istruzioni, chiamò tutti i ribelli, i faziosi, i colpevoli, i prigionieri che aveva fatto mettere in libertà, a venire a deporre contra l’Ammiraglio, l’Adelantado, perfino contra il pacifico don Diego Colombo. La riunione di questi uomini senza fede dissipò l’interesse involontario suscitato dalla carcerazione dell’Ammiraglio. Tutti coloro che la sua chiaroveggenza aveva sturbato nelle loro rapine, nella loro vita licenziosa, nella loro tirannia contro gli Indiani, cominciarono a metter fuori le proprie lamentanze. V’ebbero tra essi emulazione di odio, e gara di diffamazione. Il direttore dello spedale, Diego Ortiz, si segnalò per la sua impudenza. Nella sua sollecitudine pei malati, Colombo vigilava sulla qualità de’ viveri e delle medicine, sull’uso del materiale e delle provvigioni; e rivedeva i conti; perciò Diego Ortiz, non contento de’ cartelli ingiuriosi che faceva attaccare sui muri di San Domingo, compose un libello contro l’Ammiraglio, leggendo poi in pubblico le insultanti lucubrazioni del suo odio11.
L’originalità della sua mordente satira, forse l’audacia delle sue calunnie e sopratutto le disposizioni del suo uditorio, gli acquistarono fama. Come d’ordinario avviene, il successo suscitò emoli. In breve i gridatori gareggiarono ad aguzzare le loro penne. Questa fu gran gioia pel nuovo governatore, il quale giunse così, per la sola forza delle cose, a diffondere contra l’Ammiraglio ogni incredibile calunnia. Nella sua purezza Colombo non imaginava che neppur nell’inferno12 se ne potessero inventare di simili. Con un po’ meno di preoccupazione e di abitudine alla menzogna, questi accusatori avrebbero riconosciuto, che, a forza di esagerazione, oltrepassavano lo scopo. Ma l’occhio, sturbato dal furore, non calcola le distanze e s’inganna sulle proporzioni. I partigiani del governo di Bobadilla non avrebbero avuto che un trionfo incompiuto, se non ne avessero potuto rendere testimoni i Colombi: essi manifestavano la loro gioia sulle mura della fortezza, al di sopra della prigione dell’Ammiraglio; e andavano a sonare il corno intorno alle caravelle in cui erano incatenati i suoi due fratelli13.
Intanto il processo contra i Colombi andava innanzi. Tutti si intrattenevano dei loro misfatti, ch’essi soli ignoravano ancora. Veramente non sapevano il motivo della loro prigionia. Non era stato ad essi significato alcun atto. Il nuovo governatore aveva vietato, sotto pena di morte, di comunicare con essi.
Tuttavia, quando credette di aver raccolto contra questi colpevoli le prove d’ogni generazione di delitti, eccettuata, però, la menoma colpa contro la castità, Bobadilla risolvette di mandare i tre prigionieri al vescovo ordinatore della marina, o al suo amico Gonzalo Gomez Cervantes a Cadice. Per sicurare la stretta esecuzione de’ suoi ordini, scelse un giovane ufficiale Alonzo di Vallejo, giunto con lui dalla Spagna, nipote di Gonzalo Gomez di Cervantes e protetto da Fonseca, nella cui casa era stato allevato14.
Sinistre apprensioni assediavano lo spirito dell’Ammiraglio. Quel dispregio d’ogni forma di giustizia, quel segreto rigoroso, quel trattamento disumano erano terribili augurii: non osava prevedere ove si arresterebbe l’attentato cominciato contra di lui: e quando il silenzio della sua oscura prigione fu tutto ad un tratto rotto da romor d’armi e di passi, temette che si venisse ad assassinarlo od a condurlo al patibolo. Riconoscendo capo a’ soldati un favorito del vescovo Fonseca, il giovane Vallejo, da lui già veduto a Siviglia, l’Ammiraglio credette sonata l’ultima sua ora, e gli disse tristamente «Vallejo, ove mi conduci tu?» L’ufficiale rispose: «Io conduco vostra signoria a bordo della Gorda, che sta poco a partire.» Dubitando ancora l’Ammiraglio, e temendo, che, per un avanzo di umanità, l’ufficiale lo ingannasse, insistette in questi termini: «Vallejo, è egli proprio vero ciò che tu mi dici?» Vallejo, che, non ostante i suoi protettori, era un vero gentiluomo, replicò: «per la vita di vostra signoria, giuro che la conduco alla caravella per imbarcarsi15.» L’accento di sincerità del marinaro assicurò l’Ammiraglio: si sentì sollevato da un peso enorme, perocchè in quel momento le sue palpebre s’inumidirono di mestizia. Egli temeva di essere ucciso senza giudizio, com’era stato carcerato senza processo, e di lasciare dopo di sè i suoi figli sepolti sotto l’obbrobrio con cui i suoi avversari avrebbero oppressa la sua memoria.
Colombo fu messo a bordo della Gorda, in cui si trovavano i suoi due fratelli.
Tutti e tre erano carichi di catene.
Essendo stati fidati alle cure di Alonzo Vallejo, comandante, e di Andrea Martin, padrone della caravella, i voluminosi processi fatti contra di loro, si levarono le ancore al cominciar d’ottobre.
Quantunque Alonzo di Vallejo, per essere nipote di Gonzalo Gomez di Cervantes, e protetto del vescovo ordinatore Giovanni di Fonseca, possedesse l’intera fiducia del commendatore, pur egli era uom d’onore, al dire di Las Casas, che lo conosceva intimamente e lo diceva suo amico: aveva il carattere di un vero idalgo. Vallejo soffriva internamente di vedere incatenato il maestro di tutti i navigatori, il vincitore del mar tenebroso, la cui dolce e serena dignità in mezzo a tanti affronti smentiva le odiose imputazioni sollevate contro la sua gloria. Il padrone della Gorda, il vecchio marinaio Andrea Martin, aveva in suo cuore le stesse simpatie del giovane capitano. Perciò, appena furono fuori del porto, presentatisi rispettosamente all’Ammiraglio, lo pregarono di permettere che lo sciogliessero da’ suoi ceppi16. Colombo, il quale non arrossiva per se, ma unicamente pei Re, del maltrattamento onde si era creduto vituperarlo, reso più grande dall’ingiustizia, dalla persecuzione, rifiutò quell’alleviamento a’ suoi mali: non volle, neppure a quella distanza, nella libertà dell’Oceano, e sotto la malleveria del capitano, contravvenire agli ordini dati dal rappresentante de’ Sovrani. Nonostante l’impaccio, i disagi e i patimenti che i ceppi arrecavano alle sue membra dolorate, volle conservarle, non riconoscendo altro che nei Sovrani, in nome dei quali era stato incatenato, la potestà di sciogliernelo.
Il discepolo del Vangelo non fece udire alcun lamento, non uscì in alcun’amara parola: non fece alcuna protesta contra la violenza commessa verso di lui, e la indegnità del modo con cui era trattato: tacque, volendo dar l’esempio di una cristiana sommissione all’autorità legittima anche allorquando s’inganna od abusa del suo potere. Ma se Colombo non indirizzò alcuna supplica ai Sovrani sull’iniquità di cui pativa, il suo cuore si sollevò almeno scrivendo alla virtuosa amica della Regina, dona Juana della Torre, che aveva nodrito del suo latte il figlio di Isabella, l’infante don Juan.
Per evitare ogni abbaglio storico è forse bene lo spiegare in qual maniera dona Juana della Torre era realmente la nutrice del Principe reale di Castiglia, l’infante don Juan, in tempi, ne’ quai questo titolo di nutrice, Ama, così eminente e così ambito dalle grandi dame, toccava di pieno diritto alla più nobile e più qualificata.
Dovendo l’educazione cominciare alla culla, perchè d’ordinario le prime impressioni influiscono sul rimanente della vita, er’ammesso in Ispagna che la donna più vicina alla Regina per antichità di lignaggio, splendore di grado, e lustro della virtù era quella che meritava di dare i primi alimenti e le prime cure all’erede del trono.
Quando, pertanto, il martedì 30 giugno 1478 nacque a Siviglia l’infante don Juan, primo atto della Regina Cattolica fu di nominare ufficialmente nutrice la più nobile matrona delle Spagne, dona Maria di Guzman17, moglie dell’illustre Pedro de Ayala, e zia di don Juan di Guzman, erede dei Medina-Sidonia.
Dona Maria discendeva dell’antica stirpe dei Guzman, che, nel medio evo, ebbe la gloria di dare alla Chiesa, in San Domenico, la valorosa milizia de’ fratelli predicatori, e che a’ nostri giorni ha dotato la Francia di un tipo inimitabile delle grazie sovrane, nella persona di S. M. l’imperatrice Eugenia.
Come la nutrice dell’Infante, così la dama scielta ad essere madrina del rampollo reale doveva aver sortito i natali da uno de’ più cospicui casati di Castiglia.
Quando si fece il battesimo di don Juan, in cui i padrini furono Sua Santità il Papa, il Re di Francia, la Repubblica di Venezia, e il regno di Castiglia, individualmente rappresentati dal Nunzio Apostolico, dal conte di Beaumont, dal plenipotenziario di Venezia, e dal gran conestabile don Pedro Fernandez de Velasco, nella nobiltà dei due regni non fu trovata possibile che una matrina per sostener l’onore di tale cerimonia; e fu dona Leonora di Ribera y Mendoza, duchessa di Medina-Sidonia18, congiunta anch’essa pel sangue agli avi di S. E. madamigella Eugenia di Montijo, contessa di Tebe, presentemente imperatrice de’ Francesi.
Evidentemente nel suo alto grado, co’ suoi doveri principeschi, e le sue regie attinenze, la nutrice in titolo non poteva andar costretta al regolare disimpegno dei doveri della sua carica; sicchè non ne accettava che le prerogative e i privilegi: quando aveva soddisfatto all’esigenze dell’etichetta, e chiarita la sua deferenza all’autorità suprema, illustrando colla sua presenza le grandi solennità, dona Maria di Guzman tornava a primeggiare nella sua propria corte, nelle sue ville, ne’ suoi castelli. Bisognava, dunque, oltre la nutrice ufficiale ed onorifica, una nutrice officiosa, che adempiesse le funzioni positive del suo impiego. La tenerezza della Regina scelse a quest’uopo una donna, le cui qualità morali rispondevano alle condizioni fisiche necessarie per ufficio così importante e fu dona Juana della Torre, sorella del suo segretario Pedro de Torres e di Antonio de Torres, condotto dall’Ammiraglio alla Spagnuola nel suo secondo viaggio. L’amicizia di dona Juana della Torre era divenuta necessaria alla Regina: Isabella la ricolmò de’ suoi favori, e li profuse a’ suoi figli19.
L’elevazione di spirito, e la pietà di dona Juana, le avevano meritate le affettuose simpatie e la fiducia di Cristoforo Colombo: e si fu a lei che fece sapere primieramente lo strano rivolgimento avvenuto nella sua fortuna.
§ III.
Questa lettera, che vorremmo riprodurre nella sua interezza, esprime mirabilmente il carattere provvidenziale, e la missione sovrumana di Colombo.
Ciò che, a prima giunta, sorprende nel suo contesto è la impronta della spontaneità, il nessuno studio, e l’oblio di ogni ordine di esposizione: evvi chiaro che lasciò correre la penna come il cuore dettava. Nella precipitazione della sua espansione, nessun’asprezza scema la gagliardia delle sue lamentanze, e spesso qua e là, irrompe, senza sua saputa, il sublime. Aveva soggiaciuto ad oltraggi, per servigi a’ quali non era premio che fosse per bastare. Nella foga del suo stile rilevasi il trascinamento d’un cristiano ispirato, e il parlar franco d’un uomo di mare.
La disgrazia non commove Colombo al modo ordinario: ei non considera quest’avversità come un fatto puramente individuale, conseguenza di una nimicizia di persone o di fazioni: in ciò che prova, riconosce la guerra mossa dal mondo allo Spirito della fede. «Nuovo è in me, dice, lamentarmi del mondo, ma l’abitudine che il mondo ha di maltrattare è molto antica: esso mi ha mossi mille attacchi, ed io ho resistito a tutti sino a questo momento, in cui non hanno potuto giovarmi nè armi, nè consigli: sicchè mi ha trabalzato nel fondo con barbarie20: la speranza in Colui che ci ha tutti creati mi sostiene, il suo soccorso mi giunse sempre prontissimo. Non è molto, essendo ancor più abbassato, mi rialzo dicendomi — sorgi, uomo di poca fede, son io: non temere21. — » Egli ricorda alla virtuosa Juana com’è stato spinto a servir que’ principi con un’affezione intima, e a render loro servigi inuditi. « Dio, dice, mi fece il messaggero del nuovo cielo e della nuova terra, di cui parlava nell’Apocalisse per bocca di san Giovanni, dopo di averne parlato per quella di Isaia; e mi additò il luogo ove si dovevano trovare. Tutti si mostrarono increduli. Ma il Signore diede alla Regina, mia signora, lo spirito d’intelligenza, le concedette il coraggio necessario, e la rese erede del Nuovo Mondo, siccome quella ch’era la cara ed amata sua figlia22.»
ll rivolgimento della opinione, il dispregio, l’ingratitudine a suo danno non lo sturbano punto. Egli sa che le sue imprese sono di quelle « che non possono altro che guadagnare ogni giorno nella estimazione degli uomini. » Nondimeno, la cosa è giunta al punto che non vi ha codardo miserabile, il quale non creda aver titolo di vilipenderlo impunemente; ma, dice, i miei tristi casi giungeranno a notizia di tale, che avrà il potere di tutelarmi23. »
Questa autorità di cui l’araldo della croce invoca la protezione, qual è mai se non il Papa? Chi può opporsi alla violazione de’ suoi diritti, all’ingiustizia che lo percuote, se non il successore del principe degli Apostoli, l’autore della donazione fatta ai Re Cattolici? A lui solo apparteneva di evocare a sè quella causa, di proteggere colle sue folgori il rivelatore del globo, e d’impedire che il messaggero della Chiesa sotto que’ nuovi cieli, non succumbesse sotto il cumulo della iniquità, inretito dagli artificii della fellonia reale. I legami intimi che univano la missione di Colombo agli interessi apostolici della Santa Sede, gli facevano collocare naturalmente la sua speranza nel soccorso di questa. Nondimeno non insiste su questa eventualità; non si ferma ad alcun disegno; non compone alcun piano; nè si discolpa di nulla, poichè non sa di che cosa lo si aggravi. Egli non si fa anticipatamente a respingere accuse che non può prevedere non avendo fatto cosa che potesse meritar riprensione.
Solamente presume che gli verranno apposti vizi di forme, irregolarità amministrative, perché ha esercitato atti nuovi o fuori delle consuetudini della burocrazia. Risponde anticipatamente che non dev’essere giudicato «come un governatore mandato in una città o in una provincia amministrata regolarmente, ed ove le leggi esistenti possono essere eseguite letteralmente, senza pericolo per la cosa pubblica.» Egli esprime chiaro la sua posizione; — «essere giudicato qual capitano mandato. dalla Spagna a conquistare alle Indie una nazione numerosa e guerriera, i cui costumi e la cui religione sono in tutto opposti ai nostri: nelle Indie non vi hanno nè città ne trattati politici.»
Non gli sfugge una parola che faccia allusione alla Regina. Si direbbe che sa com’ella fu indotta in errore: si scusa, perfino, di ricordare un’antica calunnia de’ suoi nemici.
Quale ammirabil cristiano!
Fu deposto, oltraggiato, carico di catene; le porta in quel momento; la sua carne n’è illividita; e nonostante, questo violento mutamento di fortuna, l’audace spoliazione di cui è vittima, la segreta inimicizia del Re, l’involontaria complicità della Regina, il trionfo de’ suoi persecutori, non hanno fiaccata la sua costanza. L’eccesso di questo abbassamento non può far incurvare la sua fronte, ned umiliare la sua penna: dice alteramente, terminando la sua lettera: «Dio, nostro Signore, rimane colla sua potenza, colla sua scienza, qual era prima, e punisce sopratutto l’ingratitudine24.»
- ↑ Herrera, Storia generale dei viaggi nelle Indie occidentali. Decade I, lib. IV, cap. viii.
- ↑ Cristoforo Colombo. — “Y publicó que á mi me habia de enviar en fierros, y á mis hermanos.” — Carta del Almirante al Ama del principe D. Juan.
- ↑ Herrera, Storia generale dei viaggi, ecc., nelle Indie occidentali. Decade I, lib. IV, cap. ix.
- ↑ Cristoforo Colombe. — “Y aquellas que mas me habian de aprovechar en mi disculpa, esas tenia mas ocultas.” — Carta del Almirante al Ama del principe D. Juan.
- ↑ “Per un Fra Giovanni della serra á 7 di settembre gli mando una regal lettera.” — Fernando Colombo, Vita dell’Ammiraglio, cap. lxxxv
- ↑ Coleccion diplomática. — Documentos, n° cxxx.
- ↑ Y luego partí asi como le dija muy solo. “Christophe Colomb, Carta del Almirante al Ama del principe D. Juan.
- ↑ Las Casas. Historia de las Indias, lib. I. cap. cviii, Ms.
- ↑ Cristoforo Colombo, Lettera ai Re Cattolici scritta dalla Giammaica il 7 luglio 1503. — Il Sayo specie di soprabito molto lungo, senza bottoni nè bottoniere, che discende sino alla metà della gamba è il vestito particolare dei paesani Spagnuoli. Questa parola, il Sayo, sembra una prova novella dell’umiltà dell’Ammiraglio, e del suo costume. Anche quando egli non vestiva l’abito francescano, cercava ciò che vi si accostava di più pel colore e la forma.
- ↑ Parole di Cristoforo Colombo. “Desnudo en cuerpo; con muy mal tratamiento.” — Cuarto y último viage de Colon.
- ↑ Fernando Colombo, Vita dell’Ammiraglio, cap. lxxxvi.
- ↑ Cristoforo Colombo. — “Que al infierno nunca se supo de las semejantes.” — Carta del Almirante al Ama del principe D. Juan.
- ↑ Fernando Colombo, Vita dell’Ammiraglio, cap lxxxvi.
- ↑ Herrera, Storia generale dei viaggi, ecc., nelle Indie occidentali. Docade I, lib. IV, cap. x.
- ↑ Las Casas, Historia de las Indias, lib. I, cap. clxxx. Ms.
- ↑ Quantunque poi in mare... volesse trarre i ferri all’Ammiraglio, a che egli non consentì mai... — Fernando Colombo, Vita dell’Ammiraglio, cap. lxxxvi.
- ↑ “La cual declaró luego Aya del principe, que llàman comunmente Ama (durando esto estilo antiguo) a doña Maria de Guzman“ — Ortiz de Zuñiga, Anales ecclesiasticos y seculares de la muy noble y muy leal ciudad de Sevilla, lib. XII, Año 1478, § II, p. 383.
- ↑ “Fueron padrinos, el Nuncio de el Pontefice, el embaxador de Venecia, el condestable don Pedro de Velasco, el conde de Veaumont, y madrina sola, la duquesa de Medina Sidonia, doña Leonor de Ribera y Mendoza.” — Andres Bernaldez, la Historia de los Reyes Católicos.
- ↑ Per ordinanza, datata da Granata il 31 agosto 1499 la Regina avevagli costituito una rendita annua di 60000 maravedis. Dopo la sua morte, diede in dote alla figlia di lui un milione e mezzo di maravedis, l’11 luglio 1503, trovandosi ad Alcala di Henarez.
- ↑ Proprio le parole di Cristoforo Colombo. — “ Con crueldad me tiene echado al fondo, » — Carta del Almirante al Ama del principe D. Juan.
- ↑ “O hombre de poca fede, levantate que yo soy, no hayas miedo. ” — Carta del Almirante al Ama del principe D. Juan.
- ↑ En todos hobo incredulidad, y á la Reina mi señora dió dello el espiritu de inteligencia y esfuerzo grande, y lo hizo de lodo heredera, como á cara y muy amada hija. »
- ↑ “Por virtud se contará cn el mundo á quien pude no consentillo.” — Carla del Almirante al Ama del principe D. Juan.
- ↑ “Dios Nuestro Señor está con sus fuerzas y saber, como solia y castiga en todo cabo, en especial la ingratitud de injurias. — Carta del Almirante al Ama del principe D. Juan.