Così parlò Zarathustra/Parte seconda/Dei poeti
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Dei poeti.
«Dacchè giunsi a conoscere meglio il corpo — disse Zarathustra ad uno dei suoi discepoli — lo spirito è sovente per me spirito solo per similitudine; ed anche tutto l’«imperituro» non è che una metafora».
Già un’altra volta mi hai detto ciò — rispose il discepolo — e allora soggiungevi: «Ma i poeti dicono troppe bugie.». Perchè hai detto questo?».
«Perchè? — rispose Zarathustra. — Tu mi domandi il perchè? Io non sono di coloro, cui si possa chiedere il lor perchè.
Solo forse da ieri io assisto a ciò che avviene? Già da gran tempo io ho conquistata l’esperienza del perchè d’ogni mia opinione.
Non dovrei essere una botte di memoria se volessi portar sempre con me le mie ragioni?
Troppo mi pesa ancora il portar con me le mie opinioni; e più di un uccello se ne vola via.
E sovente trovo anche nel mio colombaio qualche uccello straniero, il quale trema se stendo la mano.
Ma che cosa ti disse Zarathustra allora? Che i poeti son menzogneri? — Ma anche Zarathustra è un poeta.
Credi tu forse, ch’egli allora abbia detto la verità? Perchè credi ciò?».
Il discepolo rispose: «Io credo in Zarathustra». Ma Zarathustra scosse il capo sorridendo.
«La fede non mi fa felice», disse, «e tanto meno la fede in me stesso.
Ma posto che qualcuno avesse detto con tutta serietà che i poeti sono menzogneri; ebbene, egli avrebbe avuto ragione: noi mentiamo troppo.
Poco anche è ciò che sappiamo: noi siamo cattivi discepoli: ecco perchè siamo costretti a mentire.
E chi di noi poeti non falsificò il proprio vino? Più d’una miscela venefica fu composta nelle nostre cantine, e molte cose vi seguirono di cui è bene tacere.
E appunto perchè poco sappiamo, amiamo i poveri di spirito: sopra tutto quando son giovani donne.
Noi siamo avidi pur delle cose che le vecchie donnicciuole vanno favoleggiando la sera. Chiamiamo ciò l’eterno feminino.
E come se esistesse una via segreta che conduca alla scienza, preclusa a coloro che imparano qualche cosa, noi abbiamo fede nel popolo e nella sua «saggezza».
Anche credono i poeti che colui il quale, messosi a giacere sull’erba o sui pendii solitari, intende l’orecchio, possa apprendere le cose come stanno fra il cielo e la terra.
E ad ogni nuova sensazione di tenerezza essi credono che la natura stessa, innamorata di loro, s’accosti segretamente al lor orecchio per narrar cose misteriose e ripetere frasi lusingatrici d’amore: di che si vantano e si esaltano dinanzi agli altri mortali!
Ah ci sono tante cose fra cielo e terra che i poeti soltanto seppero sognare!
E particolarmente oltre il cielo: giacchè tutti gli dèi non sono altro che imagini e fole di poeti!
In verità, noi sempre ci sentiamo attratti verso l’alto — cioè verso il regno delle nubi: a queste noi affidiamo le variopinte creature della nostra fantasia, e le chiamiamo i nostri dèi e i nostri superuomini.
Sono tanto leggère, che quelle sedi soltanto si convengono a loro. Oh come sono stanco di tutto l’incomprensibile che si vuole spacciar per vero! Come sono stanco dei poeti!».
Quando Zarathustra ebbe finito di parlare, il suo discepolo stette, dispettoso, in silenzio.
E anche Zarathustra taceva: il suo sguardo s’era fisso nella propria anima, come se guardasse lontano lontano. Al fine egli sospirò.
«Io sono dell’oggi e del passato», disse poi; «ma è in me qualche cosa che è del domani e del posdomani e di ciò che sarà un giorno.
Io mi saziai dei poeti, antichi e moderni; tutti mi appaiono ora superficiali come mari senza profondità.
Essi non seppero essere a bastanza profondi: perciò il loro sentimento non conobbe gli abissi.
Un po’ di voluttà frammista a un po’ di tedio: ecco ciò che di meglio seppero finora ottenere con le lor meditazioni.
Il loro arpeggio mi sembra un aleggiare o un guizzar di spettri: che cosa conobbero essi sin qui nell’intima dolcezza dei suoni?
Poi, costoro non mi sembrano troppo puliti: usano intorbidar la loro acqua perchè appaia profonda.
E molto volentieri si spacciano per riconciliatori: ma per me essi sono mezzani e mestatori, mezzi uomini e impuri!
Ahimè, io gettai le mie reti nei loro mari, sperando di pigliar buoni pesci; ma non ne trassi fuori mai altro che il frammento d’un qualche vecchio Dio.
Così il mare offriva all’affamato un sasso. E forse essi pure provengono dal mare.
Certamente, anche tra loro si trovan perle; ma appunto per ciò assomigliano anche più alle dure ostriche. E invece dell’anima trovai spesso in loro del limo salso.
Dal mare anche appresero la vanità; non è forse il mare il pavone per eccellenza?
Persino dinanzi al più brutto dei bufali esso dimena la sua coda, e non sembra saziarsi mai dello scintillio del suo ventaglio fregiato di merletti, fatto di argento e di seta.
E il bufalo lo guarda in aria di sfida sentendosi simile, nell’anima, alla sabbia, più simile ancora al folto bosco, ma simile sopra tutto alla palude.
Che importa a lui della bellezza del mare e di tutti gli ornamenti del pavone! Questa similitudine è dedicata ai poeti.
In verità lo stesso loro spirito è il più vano dei pavoni e un mare di futili cose.
Lo spirito del poeta cerca spettatori: sian pure dei bufali!
Ma d’un tale spirito io sono sazio e sento non lontano il giorno che esso pure sarà sazio di sè medesimo.
Molti poeti già vidi mutare, e ripiegar gli sguardi in sè stessi.
Previdi la venuta dei penitenti dello spirito: i quali sorsero dalle loro file».
Così parlò Zarathustra.