Così parlò Zarathustra/Parte seconda/Di grande fole
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Di grandi fole.
V’ha un’isola nel mare — poco discosto dalle isole beate di Zarathustra — ove sorge un vulcano che manda sempre fumo; gli uomini, e più ancora le vecchie donnicciuole del popolo, favoleggiano ch’essa sia posta come un masso roccioso dinanzi alle porte degli inferi: e che a traverso il vulcano uno stretto sentiero guidi a quelle porte.
Nel tempo che Zarathustra soggiornava nelle isole beate, accadde che un bastimento gettasse l’àncora dinanzi a quell’ isola, e che l’equipaggio scendesse in terra per dar la caccia ai conigli. Verso l’ora del meriggio, mentre il capitano e la sua gente si trovavano riuniti, videro improvvisamente un uomo fendere l’aria e venire alla lor volta, e udirono distintamente una voce che diceva: «È l’ora, non c’è tempo da perdere!». Ma quando quella figura umana, passò vicino a loro volando simile a un’ombra, nella direzione del vulcano, — essi raffigurarono, costernati, Zarathustra; poi che già tutti, fuor che il capitano, avevano avuto occasione di vederlo, ed essi l’amavano come il popolo sa amare: con uguali vicende di tenerezza e di rispetto.
«Guardate — disse il vecchio timoniere — ecco Zarathustra che scende all’inferno!».
Ora mentre i marinai sbarcavano nell’isola, erasi sparsa voce che Zarathustra fosse scomparso; interrogati i suoi amici, questi narrarono com’egli durante la notte fosse partito su un bastimento senza dire dove andava.
Ciò produsse grande inquietudine; ma dopo tre giorni venne ad accrescerla il racconto dei marinai: e allora il popolo disse a una voce che il diavolo avea portato con sè Zarathustra. I suoi discepoli ridevano, a dir vero, di tali chiacchiere; anzi uno di loro disse: «Crederei piuttosto che Zarathustra avesse portato con sè il diavolo». Ma in fondo all’anima tutti erano oltre ogni dire inquieti e ansiosi: sì che non può dirsi quale fu la lor gioia quando, dopo cinque giorni, Zarathustra ricomparve tra loro.
Ed eccovi ora il discorso che Zarathustra fece intorno al cane infernale:
«La terra — egli disse — ha un’epidermide e quest’epidermide è soggetta a malattie. Una di tali malattie, ad esempio, si chiama «l’uomo».
E un’altra «il cane infernale», sul conto del quale gli uomini hanno detto molte bugie e molte ne hanno credute.
Per scoprire questo segreto io varcai il mare. E vidi anche la verità dai piedi al collo.
Chi sia veramente il cane infernale mi è ormai noto; e chiara mi a pure la verità intorno a tutti i demoni ribelli cacciati nell’inferno, dei quali non le vecchie donnicciuole soltanto han paura.
«Esci, cane infernale, dal tuo baratro!», così io gridai, «e svelami quale è la tua profondità! Donde viene ciò che tu vai eruttando sin quassù?
Tu bevi in gran copia l’acqua del mare: ciò si riconosce alla tua eloquenza salata! Ma, per essere un cane infernale, tu prendi il tuo nutrimento troppo a fior d’onda.
Per me sei al più un ventriloquo della terra; ogni volta che ho sentito parlare i demoni ribelli cacciati dal Paradiso li ho trovati simili a te — salati, bugiardi e insulsi.
Voi sapete ruggire e offuscare l’aria con la cenere! Voi siete i più gonfi millantatori ch’io conosca: voi apprendeste anche troppo bene l’arte di far bollire il fango.
Vicino a voi sempre devono essere e il fango e molte cose torbide, cavernose, compresse, che agognano di farsi libere.
«Libertà», ecco ciò che più volentieri voi gridate in coro: ma io ho perduta la fede nei «grandi fatti» quando sono accompagnati dai grandi ruggiti e dal fumo.
E credimi pure, amico del chiasso infernale! I grandi fatti non sono già le nostre ore più romorose, bensì le più chete.
Il mondo gira non già intorno a colui che più alto grida, ma intorno a colui che crea nuovi valori; gira silenziosamente.
E confessalo pure. Ben poco resta del fatto quando si dissolve il tuo strepito e il tuo fumo. Che importa, se una città si trasformò in mummia e se una statua giace ora nel fango?!
Questo io dico ancora agli abbattitori di statue: È la più grande delle follie gettar sale nel mare e statue nel fango.
Nel fango del vostro disprezzo giaceva la statua: ma appunto è suo destino e sua legge che dal disprezzo essa generi nuova vita e nuove bellezze!
Essa risorge con aspetto ancor più divino: e vi sarà grata dell’averla abbattuta, o abbattitori.
Ma questo è il mio consiglio ai re e alle chiese e a tutti coloro cui intristirono il tempo e la virtù: lasciate pure che vi si abbatta! Potreste così ritornare a nuova vita — e ritornerà a voi la virtù!».
Così io parlai al cospetto del cane infernale: ed esso m’interruppe ringhiando e mi domandò: «Chiesa, che cosa è questo?».
«Chiesa! — io risposi — è una specie di Stato, anzi di tutti il più ingannevole e bugiardo. Ma sta zitto, cane ipocrita! Tu la conosci meglio di me!
Al par di te, lo Stato è un cane ipocrita; come te, egli parla volentieri con accompagnamento di fumo e di ruggito, — per far credere, come te, ch’egli parli proprio fuor dalle viscere delle cose.
Giacchè egli vuol essere ad ogni costo l’animale più importante su la terra; — e gli si crede anche che sia tale».
Come ebbi detto questo, il cane infernale cominciò a contorcersi furibondo per l’invidia.
«Come? — egli gridò — l’animale più importante? E lo credono tale?». E tanto fumo; tante orribili voci gli uscirono dalla strozza, che pensai dovesse rimaner soffocato dal dispetto e dall’ira.
Ma finalmente s’acquetò; e com’io lo vidi più calmo, gli dissi ridendo:
«Tu mostri dispetto, o cane infernale, dunque le mie ragioni soverchiano le tue!
E perchè la ragione resti a me, senti quello che ti dirò intorno a un altro cane infernale che parla proprio dal cuor della terra.
Il suo respiro è oro ed aurea pioggia; così vuole il suo cuore. Che importano a lui la cenere e il fumo e il fango ardente!
Il riso aleggia intorno a lui, come un’aureola variopinta: egli è avverso alle tue voci roche, al tuo vomito ed alle contrazioni delle tue viscere!
Ma l’oro e il riso egli lo toglie dal cuor della terra, giacchè tu devi sapere che il cuore della terra è d’oro».
Quando il cane infernale ebbe udito ciò, non volle oltre ascoltare; si mise la coda tra le gambe; guaì un timido bau bau; e fuggì nella sua tana».
Così narrò Zarathustra. Ma i suoi discepoli a fatica gli davano ascolto: tanto erano impazienti di parlargli dei marinai, dei conigli e dell’uomo volante.
«Non so che cosa pensarne», disse Zarathustra. «Sono io forse uno spettro?
Ma sarà stata la mia ombra. Voi avete udito di certo parlare del viaggiatore e della sua ombra?
Ma questo è sicuro: ch’io devo tenerla più in freno, altrimenti essa mi farà perdere il mio buon nome».
E di nuovo Zarathustra scosse il capo, stupito.
«Non so proprio che cosa pensarne!» ripetè.
«Perchè aveva gridato quel fantasma: È l’ora! Non c’è tempo da perdere?
Di che cosa è giunta l’ora? per che cosa non c’è da perder tempo?».
Così parlò Zarathustra.