Così mi pare/Chiose/La crisi del matrimonio
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La crisi del matrimonio
Un volume recente di Alfred Naquet: Verso la libera unione, comparso quasi contemporaneamente al lavoro di George Mèredith sul matrimonio a termine e alla relazione della commissione nominata in Francia per studiare un progetto di revisione del codice matrimoniale — commissione della quale facevano parte Marcel Prévost, Hervieu, Victor Margueritte induce a una serie di riflessioni non tutte gaie sul fenomeno d’irrequietezza che attraversa da un po’ di tempo l’istituto matrimoniale.
Esiste una crisi del matrimonio? credo sia difficile dubitarne. In poco più di un quarto di secolo dacchè è stato riammesso in Francia il divorzio, l’idea della precarietà del vincolo matrimoniale è venuta generalizzandosi con una rapidità vertiginosa.
Chi non l’accetta, ammette però di discuterla, facendo così una prima concessione già lesiva dell’antico concetto intransigente dell’indissolubilità. Quando Naquet — lo stesso che oggi, con magnifico esempio di logica, accettando tutte le conseguenze della sua premessa, cammina verso la libera unione — nel 1876, presentava al parlamento francese il suo progetto di riforma matrimoniale, chiuso tutto in questo solo articolo di legge: «Il matrimonio si scioglie colla morte o col divorzio» — suscitava anche oltre la Camera un tumulto d’impressioni che nelle anime timorate o timide andavano fino allo sgomento. L’attentato alla istituzione millenaria, che soltanto la raffica della Rivoluzione aveva osato investire e travolgere, sembrava un attentato allo stesso ordinamento sociale che del matrimonio indissolubile aveva fatto il suo cardine. Pareva rinnovarsi l’audacia di Saint-Just nella proclamazione del suo unico articolo semplificatore: «Coloro che si amano sono sposi». Oggi, non solo nè dell’una proclamazione nè dell’altra nessuno stupirebbe più, ma molto cammino abbiamo fatto dal Naquet della prima maniera e il cammino percorso ci riporta... a Saint-Just.
L’istituzione matrimoniale si avvia verso la libera unione; ci si avvia seguendo logicamente la parabola che il principio del divorzio ha tracciato e della quale sono state tappe la battaglia dei fratelli Margueritte per ottenere il divorzio su domanda d uno solo dei coniugi; la proposta revisione del codice matrimoniale; la proposta del matrimonio a termine con contratto rinnovabile a scadenze brevi lanciata da George Mereditli in Inghilterra, sostenuta e diffusa da Ellen Key in Isvezia, raccolta e discussa in Francia, penetrata adesso in Italia. Se non si fa macchina indietro, la corsa vertiginosa alla ricerca d una più perfetta forma matrimoniale metterà capo inevitabilmente alla libera unione.
Io constato: non discuto e non deploro. Sarebbe un po’ puerile il farlo, e sarebbe anche perfettamente inutile. Molto più che anche in questa come in tutte le altre cose umane è difficile fare un taglio netto tra la ragione ed il torto. Filosoficamente parlando, si potrebbe sostenere che l’istituzione matrimoniale considerata anche nella sua forza ideale, l’indissolubilità, non è una cosa perfetta poiché non riesce a dare là felicità.
Soltanto, il rimedio escogitato finora per correggerla è anche — generalizzato — peggiore del male. Il che non toglie che codesto male non imponga in certi casi eccezionali l’applicazione dell’unico rimedio possibile a titolo d’intervento supremo.
Abbiamo dunque il matrimonio indissolubile come norma, colla valvola di sicurezza del divorzio ammesso soltanto in casi eccezionalissimi.
A questa conclusione è venuto anche Marcel Prévost dopo un lunghissimo studio della questione, e il suo collega Hervieu sembra di accordo con lui. La conclusione è consolante perchè, accettata, garantirebbe almeno la famiglia rispondendo così allo scopo unico del matrimonio considerato come istituzione sociale. Non garantirebbe forse sempre la felicità dei coniugi, ma quale disposizione o riforma di codice potrebbe proporsi un risultato così arduo?
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La felicità — dice il saggio — è dentro di te.
La sentenza eterna è applicabile anche al matrimonio. Non una maggiore o minor larghezza del vincolo e non una più o meno libertaria disposizione di legge possono garantirne la riuscita rispetto alla felicità, ma soltanto le disposizioni reciproche dei due sposi.
Intanto, non bisogna chiedere al matrimonio più di quello che esso può dare: una somma di gioie, per esempio, superiore al carico dei doveri; una ghirlanda tutta di rose; una ebbrezza tutta di idillio. La delusione sarebbe enorme e grave di conseguenze. Il matrimonio è più dovere che piacere, più sacrificio che sorriso, più responsabilità che sogno. E bisogna dirlo ai giovani che vi si avventurano, bisogna dirlo sopratutto alla donna che quasi sempre contempla la visione del mistero dolce come il realizzarsi di un gran sogno fantastico attraversato soltanto da luci d’oro di tenerezza, da fulgori di adorazione.
Io confesso, per esempio, che provo sempre un gran senso di pena per quegli sposi che vanno all’altare con animo e disposizioni d’amanti, spintivi soltanto da una vampata di passione, da un delirio d’amore, accompagnati dall’illusione che la febbre che li solleva debba durare tutta la vita e accompagnarli attraverso tutto il cammino. Quelli, a breve scadenza, saranno due infelicissimi.
Traduco il mio pensiero con una frase che può sembrare paradossale e non è: L’amore è il peggiore nemico della felicità nel matrimonio. Intendiamoci: non parlo qui del sentimento, ma dell’esaltazione del sentimento; non della fiamma, ma della febbre; non della tenerezza, ma della passione.
In questo senso, l’amore passa, e se non rimane a sostituirlo un sentimento meno ardente, ma più profondo fatto d amicizia e di stima, di tenerezza e di devozione, la convivenza diventa sacrificio e martirio.
L’amore passa, non perchè trovi la sua tomba nel matrimonio, come sosteneva Alfred de Musset, ma perchè è di sua natura caduco; passa nel matrimonio, impallidisce e si spegne fuori del matrimonio, nel turbine della passione, nella trepidazione della irregolarità.
L’uomo è incapace di passioni non caduche e per una strana anomalia, a ogni svolto della via del sentimento, pronunzia le parole irrevocabili: per sempre! coll’illusione perfetta della sincerità. Vero è che codesta illusione, comune a tutti gli amanti e senza la quale l’amore non sarebbe amore, costituisce il fascino e la poesia del sentimento, l’essenza della febbre, il sapore dell’ebbrezza; ma senza di lei, quante catastrofi sarebbero evitate e quante delusioni e quanto schianto!
Perchè tutti i dolori e i drammi e le tragedie d’amore sono generate da questo fatto ineluttabile: il declinare della potenza passionale, lo spegnersi della fiamma, il cadere dell’esaltazione, complicato colla circostanza dolorosissima che l’ora della fine non suona quasi mai contemporaneamente per entrambi i cuori. Avvenisse così, l’amore troverebbe il suo naturale scioglimento: purtroppo, invece, la parabola è compiuta nell’uno prima che nell’altro sia esaurita la fiamma, e allora l’accordo si muta in dissidio, il dissidio in dolore, talvolta in catastrofe, se il cuore negletto non sa rassegnarsi alla fatalità inevitabile e cerca nella ribellione, nello sfogo dell’ira implacabile un tristissimo compenso alla impossibilità di far rivivere l’amore morto. Eppure, nessuna tragedia è più ingiustificata di quella suggerita da una vendetta d’amore perchè nessuno è responsabile della fine di un sentimento. Fatalmente, ineluttabilmente, come è nato, l’amore muore; senza una colpa in chi lo sente morire e nulla può fare per mantenerlo in vita, senza una ragione al suo morire, non vi sono ragioni perchè la fiamma s’accenda, non ve ne sono perchè si spenga: ma certo che tanto più forti sono gli elementi fondamentali della passione — la curiosità, il desiderio, la febbre del possesso, la sete della conquista, l’esaltazione della vertigine — e tanto più rapidamente essi consumano la propria energia, si raffreddano, si scompongono.
Perchè si farebbe una colpa all’uomo di leggi che esorbitano dalla volontà umana?
— Che miseria! — dice Paul Bourget — per sei mesi di passione occorrono due anni di convalescenza, due anni per allentare il vincolo senza dare troppo bruscamente lo strappo, due anni per riuscire a lasciarsi, per riavere la liberazione.
Certo l’asserzione dello psicologo dell’amore non fa legge come non fa legge la boutade del povero Gandolin:
— L’amore è una malattia che dura tre anni.
Nessuno può stabilire un tempo alla parabola, una energia alla fiamma. La legge che sta ineluttabile è questa: ogni amore passa.
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In rarissimi casi, quando entrambi gli amanti sono creature equilibrate e sane, e quando l’esaltazione breve o lunga vissuta insieme non sia stata intorbidata da elementi irritanti o dissolventi e non sia sbocciata come un fiore malsano sopra lo stagno del peccato, la passione può, spegnendosi, lasciare il posto a una tenerezza anche profonda fatta di memorie e di gratitudine, di riconoscenza e di melanconia, di commozione e di devozione, di sincero affetto reciproco e di reciproca amicizia.
L’amore entra allora nella fase coniugale, assume quel carattere di affettuoso accordo e di devozione assoluta e fedele che dovrebbe essere l’ideale dell’amore matrimoniale. Ma perchè troppo difficile è approdare al porto di codesta regione serena dopo aver attraversata la zona delle tempeste, ecco perchè è da augurare che un matrimonio non si inizi mai sotto la raffica della passione. La sazietà verrebbe presto nell’uomo quasi sempre già esperto di tutte le sensazioni e di tutte le febbri, e presto cadrebbe infranto, per la giovane sposa, il meraviglioso suo sogno di vergine amante. In queste condizioni, sarebbe assai difficile trovare da una parte la rassegnazione eroica e dall’altra la buona volontà necessarie per mettersi insieme alla ricerca d’una plaga più serena dove riposare i poveri cuori diversamente ma ugualmente affranti. Più facile sarebbe che il dissidio avesse ad acuirsi fino ad una di quelle rovine lente e silenziose che sono la tragedia incruenta ma terribile dei matrimoni moderni.
Potessi tradurre in un consiglio le convinzioni mie sopra una delle cause maggiori della infelicità di tante unioni, direi ai giovani, alle fanciulle sopratutto: Sposatevi con amore, non soltanto per amore. Proponetevi d’essere per il compagno, per la compagna vostra, più l’amico che non l’amante, il migliore amico, il più devoto, il più affettuoso, il più fedele, il più indulgente, l’unico. Proponetevi di fare la sua felicità: farete quella d’entrambi.
Su queste basi, non è possibile che il matrimonio non riesca bene. Poi, vengono i figli e il vincolo contratto con probità reciproca si rinsalda d un anello d’oro; poi, c’è quella che chiamerei la grazia qualcosa che è insieme forza e disposizione di bene, accrescimento di tutte le facoltà buone, affinità spirituale imponderabile ma forte ed efficace come una costante benedizione.
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Tutte queste condizioni di felicità, nessuna disposizione di legge sul matrimonio potrà mai darle: gli uomini potranno rivoluzionare e disfare i codici agitandosi irrequieti alla ricerca d’una formula che sia la ricetta d’oro del contratto matrimoniale; non riusciranno che ad invilire il sacramento, riducendolo a una serie d’esperienze più o meno fortunate con delle povere vittime innocenti e sicure: i figli.
Gli sposi, se vorranno la felicità, dovranno cercarla dentro di sè, non negli articoli di un codice.