Come vi piace/Atto quarto

Atto quarto

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William Shakespeare - Come vi piace (1599-1600)
Traduzione dall'inglese di Carlo Rusconi (1859)
Atto quarto
Atto terzo Atto quinto
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ATTO QUARTO


SCENA I.

La stessa.

Entrano Rosalinda, Celia e Giacomo.

Giac. Te ne prego, bel giovine, stringiamo maggior conoscenza.

Ros. Si dice che voi siate un uomo malinconico.

Giac. È vero, tale sono, e più mi piace di essere così, che di ridere.

Ros. Coloro che cadono nell’uno o nell’altro eccesso, sono persone detestabili, e si espongono più che un ebbro agli scherni di tutti.

Giac. Non ho la malinconia d’uno scolare che procede da una emulazione puerile, nè quella di un bizzarro musico, o di un vanitoso cortigiano; nè quella di un soldato pieno di boria, o di un fraudolento uomo di toga; nè quella tampoco di una fanciulla piena di frivolezze, o di un innamorato che ha in sè tutte le altre; ma ho una malinconia mia propria: formata di molti ingredienti, estratta da molti oggetti: una malinconia nata da molteplici osservazioni fatte nei miei viaggi, e dalle mie continue meditazioni che mi stendono sull’animo un velo che non potrebbe squarciarsi.

Ros. Voi un viaggiatore? Veramente avete gran motivo d’esser tristo: temo che abbiate vendute le vostre terre per aver il piacere di veder quelle degli altri; allora aver veduto molto e non posseder nulla, è aver gli occhi ricchi e le mani povere.

Giac. Sì, ho acquistata molta esperienza. (entra Orlando)

Ros. E il frutto della vostra esperienza è la malinconia: più mi piacerebbe un pazzo che mi rallegrasse, che un’esperienza che mi rendesse tristo: e poi dover viaggiare per acquistarla!

Orl. Buon giorno, cara Rosalinda.

Giac. Iddio sia con voi, che parlate così bene. (esce)

Ros. Addio, signor viaggiatore: pensate a balbettare e vestir con bizzarria: sprezzate tutte le belle produzioni del vostro paese natale: odiate la vostra esistenza, e garrite il creatore per avervi dato quell’aspetto che avete, altrimenti dubiterò che siate mai [p. 390 modifica]andate entro una gondola. — Voi venite adesso, Orlando? Dove foste tutto questo tempo? Voi innamorato? Allorchè vorrete darmelo ad intendere un’altra volta, userete migliori mezzi.

Orl. Mia bella Rosalinda, giungo un’ora dopo di quello che avevo promesso.

Ros. In amore mancare d’un’ora! Un uomo divida un minuto in mille parti, e trattandosi d’amore non fallisca alla sua parola, che d’una parte della millesima parte d’un minuto, e sosterrò che Cupido l’ha ferito soltanto in una spalla, ma non nel cuore.

Orl. Perdono, cara Rosalinda.

Ros. No, non v’è perdono: poichè siete sì lento, non mi venite più innanzi; mi piacerebbe del pari l’esser vagheggiata da una lumaca.

Orl. Da una lumaca?

Ros. Sì, perchè se vien lenta, è che trascina sul dosso la sua casa, dote migliore, a parer mio, che voi non possiate assegnarne ad una donna. Ma veniamo al fatto: sono io la vostra Rosalinda?

Orl. Godo nel dirvi di sì, perchè vorrei parlarvi di lei.

Ros. Ebbene, compiendo le di lei parti, io vi dichiaro che non posso amarvi.

Orl. E allora io morirò.

Ros. In sei mila anni che il mondo esiste, niuno è mai morto d’amore. Troilo, modello degli amanti, ebbe la testa rotta da una clava greca, dopo aver fatto quanto poteva per soccombere di passione. Leandro, senza l’avventura di quella calda notte di estate, sarebbe ancora vissuto molti anni, ed anche piacevolmente, dove pure Ero si fosse fatta monaca; perocchè sappiate, amabile giovine, che Leandro non voleva che bagnarsi nell’Ellesponto, ma un braccio gli si indolenzì, e annegò: di qui gli sciocchi di questo secolo han detto che fu per Ero. Menzogna, menzogna: è ben vero che gli uomini son morti in tutti i tempi, e che i vermi li hanno in tutti i tempi divorati, ma essi non son morti d’amore.

Orl. Non vorrei che la mia vera Rosalinda pensasse così, perchè giuro che un solo dei suoi sguardi severi mi farebbe soccombere.

Ros. Giuro che un di lei sguardo non farebbe soccombere neppure una mosca: ma, su via, vuo’ essere ora la vostra Rosalinda, la vostra Rosalinda più compiacente: dimandatemi quel che vorrete, e ve l’accorderò.

Orl. Ebbene, Rosalinda, amatemi. [p. 391 modifica]

Ros. Sorella, (a Cel.) siate il sacerdote e maritatemi. Datemi la vostra mano, Orlando. Che ne dite, sorella?

Orl. Maritatela, vi prego. (a Cel.)

Cel. Non so dir le parole.

Ros. Dovete cominciar così: volete voi, Orlando.....

Cel. Proviamo: volete voi Orlando prender questa Rosalinda per vostra sposa?

Orl. Sì.

Ros. Sì, ma quando?

Orl. Subito.

Ros. Allora dovete dire: ti prendo, Rosalinda, per sposa.

Orl. Rosalinda, ti prendo per sposa.

Ros. Potrei chiedervi le vostre credenziali: ma andiam oltre. Io vi prendo, Orlando, per mio marito. Ditemi ora, per quanto tempo vorrete possederla allorchè sarà vostra?

Orl Per un’eternità.

Ros. No, no. Orlando, gli uomini sono in aprile quando amoreggiano, e in dicembre quando si ammogliano: le fanciulle sono in maggio allorchè son vergini, ma la stagione muta quando divengono spose. Sarò più gelosa di voi, che un piccione non lo è della sua colomba: più garrula di un papagallo all’appressarsi della pioggia: avrò più fisime di una scimmia; piangerò per nulla quando sarete disposto all’allegria, e riderò come una jena allorchè starete per addormirvi.

Orl. Ma la mia Rosalinda farà ella così?

Ros. Sulla mia vita, lo stesso.

Orl. Ella però è savia, sennata...

Ros. Certo, altrimenti, non farebbe quello ch’io vi dico: più una donna ha spirito, più ha capricci: chiudete la porta allo spirito di una donna, ed esso si aprirà la via per la finestra; mettetelo sotto chiave, e passerà pel buco della serratura; turate la serratura, e allora s’involerà col fumo pel camminetto.

Orl. Un uomo che avesse una moglie con tale spirito, potrebbe dirle: spirito dove vai?

Ros. No, potreste riservar tale interrogazione al momento in cui vedeste lo spirito di vostra moglie andar nel letto del vostro vicino.

Orl. E quale spirito allora potrebbe avere lo spirito di giustificarsi di tal’opera?

Ros. Quello della moglie che direbbe che andava in quel letto a cercar voi: ella non mancherà mai di risposte fino a che non manchi di lingua. Una donna che non sa provare che i suoi falli [p. 392 modifica]derivan sempre da suo marito, non allevi i suoi figli perchè gli educherebbe da sciocchi.

Orl. Debbo lasciarvi per due ore, Rosalinda.

Ros. Oimè! caro amante, come farò a restar due ore senza di te?

Orl. Bisogna che io vada al pranzo del duca, vi raggiungerò fra due ore.

Ros. Sì, andate, sapevo bene come sarebbero finite tante belle proteste: i miei amici me ne avevano prevenuta, e parlavano il vero. Voi mi avete vinta colla vostra lingua adulatrice, e poi mi abbandonate. Vieni morta! Ritornerete fra due ore, mi dite?

Orl. Sì, vezzosa Rosalinda.

Ros. Sull’onor mio e sopra quant’altri giuramenti possono farsi, se mancate alla promessa, o se venite un minuto più tardi, vi avrò in conto dello spergiuro più empio, dell’amante più indegno che si possa trovare in tutta la schiera degl’infedeli: pensate dunque a bene evitare i miei rimproveri, e a mantener la vostra promessa.

Orl. Lo farò così scrupolosamente, come se voi foste veramente la mia Rosalinda: addio.

Ros. Il tempo che pone in luce i delitti dell’amore, vi giudicherà. Addio. (Orl. esce)

Cel. Voi siete stata così folle, da squarciare il velo che cuopre il nostro sesso, mostrando le vostre nudità.

Ros. Oh cugina, cugina! se tu sapessi quanto io sono addentro nell’abisso dell’amore, così non diresti.

Cel. Di’ piuttosto che la tua loquela non ha ritegni.

Ros. No, ne sia giudice quel furfantello nato di Venere e composto di fiele e di pazzia. Quel piccolo cieco che inganna tutti gli occhi, perchè ha perduto i suoi, sentenzi. Io ti dirò, cara Aliena, che non posso più vivere senza Orlando: vado a cercare un’ombra e a sospirare sino al suo ritorno.

Cel. Ed io vado a dormire. (escono)

SCENA II.

Un’altra parte della Foresta.

Entrano Giacomo e Signori in abito da boscaiuoli.

Giac. Chi fu che uccise il cervo?

Sign. Fui io, signore.

Giac. Presentiamolo al duca, come ad un conquistatore Romano, e sarebbe bene di porgli sulla testa le corna dell’animale [p. 393 modifica]per ghirlanda della vittoria. Non sapreste alcuna canzone opportuna?

Sign. Sì, signore.

Giac. Cantatela: non importa su qual tuono, purchè facciate rumore.

Canzone.

Sign. Che cosa daremo a quegli che ha ucciso il cervo.

Sign. Gli faremo portar la sua pelle e le sue corna.

Sign. E lo condurremo quindi a casa cantando: non arrossite di portar le corna: esse erano di moda anche prima che nasceste. Il padre di vostro padre le portò, e l’avolo del vostro bisavolo ne fece il suo adornamento. Le corna non son dunque cosa da spregiarsi, se tanti degni personaggi le videro spuntare sulle loro teste. (escono)

SCENA III.

La Foresta.

Entrano Rosalinda e Celia.

Ros. Che ne dite ora? Non è passato il tempo fermato? Eppure Orlando non viene.

Cel. L’amore l’avrà fatto addormentare. Altri si avanza in vece sua. (entra Silvio)

Sil. Reco un messaggio a voi, bel giovine. La mia cara Febéa mi ha detto che vi portassi questa lettera di cui ignoro il contenuto, ma che giudicandone dal suo aspetto cruciato e dal suo umore vendicativo, dovrebb’essere certamente piena di collera. Perdonatemi, ve ne supplico, perchè io non sono che un innocente messaggero.

Ros. (dopo aver letto la lettera) La pazienza stessa fremerebbe a tal lettura, e contenderebbe per tale insulto. Ella mi dice che io non son bello, ch’io non son civile, che son superbo, e che non potrebbe amarmi, quand’anche gli uomini fossero così rari come le fenici. Certo non è il suo amore ch’io voglio. Perchè dunque mi scrive così? Su, pastore, consenti, che hai inventata tu questa lettera.

Sil. No, vi giuro che fu Febéa che la scrisse.

Ros. Via, m’ingannate. Vidi la di lei mano, quella sua turpe mano color di piombo, e dico che questa non può essere sua scrittura. [p. 394 modifica]

Sil. Errate, credetelo.

Ros. Stile tanto feroce adoprerebbe colei? Ella mi sfida come un turco sfiderebbe un cristiano! No, no, tanto sdegno non può infiammare la mente di una donna. Volete che vi legga questa lettera?

Sil. L’udrò volentieri, sebben troppi esempi abbia della crudeltà di Febéa.

Ros. Udite cosa dice: (legge) Saresti tu un Dio in abiti da pastore, tu che incenerito hai il cuore d’una fanciulla? Può una donna scrivere tali oltraggi?

Sil. Oltraggi, li dite?

Ros. Perchè spogliandoti della tua divinità fai tu guerra al cuore di una femmina? Udisti mai simili scherni? Fin qui gli occhi che m’han parlato d’amore non han mai potuto nuocermi. Ella vuol dire ch’io sono una belva. — Se gli spregi de’ tuoi begli occhi possono accendere tanto amore nel mio petto, oimè! quale sarebbe l’effetto loro se mi vibrassero un tenero sguardo? Anche quando tu mi garrivi, io t’amavo: qual commozione non sveglierebbero in me le tue preghiere? Quegli che ti porta questo scritto ignora quant’io ti adori. Giovati di lui per aprirmi la tua anima, se la tua giovinezza e la tua bontà vogliono accettar l’offerta d’un cuor fedele, o mandami per lui una ripulsa, ond’io non cerchi più che la morte.

Sil. Durezze queste le appellate?

Cel. Oimè, povero pastore!

Ros. Nol compiangete, egli non merita alcuna pietà. Vorrai tu amare una tal donna? Indegno sarebbe. Ma veggo che l’amore t’ha posto la benda, e che a nulla tornerebbe ogni consiglio. Tu va dunque da lei, e dille per me che se mi ama, le impongo di amarti: se non vuole amarti, io non l’amerò ove pure tu non mi preghi per lei di farlo. Se sei un vero amante, parti e non aggiunger parola. Ecco altre persone che giungono. (Silvio esce; entra Oliviero)

Ol. Buon giorno, giovani: sapreste in qual parte della foresta sia una capanna da pastore circondata d’olivi?

Cel. Ad occidente del luogo in cui siamo: al fondo della valle che vedete: seguite quel sentiero che corre vicino al ruscello, e giungerete al luogo che chiedete. Ma ora non vi troverete alcuno.

Ol. S’io non erro, dovrei riconoscervi a questa voce e alla descrizione che mi fu data di voi. Gli stessi abbigliamenti..... la stessa età..... il giovine biondo con un volto da donna, e una [p. 395 modifica]sorella più bruna di lui... Non sareste voi i proprietarii della capanna ch’io cerco?

Cel. Poichè lo dimandate vi diremo di sì.

Ol. Orlando mi ha commesso di salutarvi entrambe; e manda questo drappo insanguinato a questo giovine, ch’egli chiama la sua Rosalinda: siete voi?

Ros. Sì: che avvenne?

Ol. Quando Orlando vi ha lasciato promettendovi di ritornare fra un’ora, egli ha attraversato la foresta con idee ora liete, or sinistre, come sogliono aver gli amanti, e giunto al piede di una antica quercia ha veduto un infelice coperto di cenci che dormiva, mentre un serpente gli si era allacciato intorno al collo e stava per vibrare su di lui il suo dardo fatale. All’apparire di Orlando il serpe però s’è sciolto, ed è andato entro un boschetto, all’ombra del quale una lionessa colle mamme aride ed esauste giaceva spiando come un gatto il momento in cui l’uomo addormito si movesse: perocchè tale è il generoso istinto di quel re degli animali, che sdegna ogni preda che gli sembri morta. Alla sua vista, Orlando si è avvicinato a quell’uomo, ed ha riconosciuto in lui suo fratello, il suo fratello maggiore.

Cel. Oh! l’ho inteso parlare qualche volta di quel fratello, e lo dipingeva come la creatura più snaturata che vivesse fra gli uomini.

Ol. Ed aveva ben ragione, perchè io so quant’ei fosse snaturato.

Ros. Torniamo a Orlando. — L’ha egli lasciato in quel pericolo, in procinto d’essere divorato dalla fiera?

Ol. Due volte s’è arretrato, ed ha rivolto il dorso per fuggire, ma la tenerezza e la natura, più forti della vendetta e del suo giusto risentimento, lo hanno indotto a combattere colla lionessa che è caduta dinanzi a lui: fu al remore di quel terrible assalto ch’io mi svegliai dal mio sonno.

Cel. Siete voi suo fratello?

Ros. Foste voi ch’ei salvò?

Cel. Voi che tante volte intendeste a farlo morire?

Ol. Era io, ma ora sono mutato. Non arrossisco di confessarvi quello che fui, dappoichè il mio cuore cangiato mi fa trovar tanta dolcezza nell’esser quel che ora sono.

Ros. E questo drappo insanguinato?

Ol. Ora vi dirò. Dopo che le nostre lagrime di tenerezza furono sgorgate pei mutui racconti delle nostre avventure, e che detto gli ebbi quale accidente avea guidati i miei passi in questa [p. 396 modifica]foresta, ei mi condusse dai duca che mi fu benigno d’ogni soccorso, e mi raccomandò alle core della sua fraterna tenerezza. Mio fratello mi fece entrare poscia nella sua grotta, e là spogliandosi, vedemmo che la leonessa gli avea fatto una ferita sotto un braccio, che non areva mai cessato di mandar sangue. Una subita debolezza quindi lo comprese, e svenendo, chiamò Rosalinda. Io lo rianimai, gli fasciai la piaga, e dopo un po’ di tempo ei mi mandò qui sebbene straniero, per istruirvi di quest’avventura, per iscusarsi d’aver mancato al ritrovo, e perchè consegnassi questo drappo al pastorello, ch’ei suole per giuoco chiamar Rosalinda. (Rosalinda sviene)

Cel. Ganimede, mio caro Ganimede, che hai?

Ol. A molti manca il cuore alla vista del sangue.

Cel. Cugino... Ganimede!...

Ol. Egli ritorna in sè.

Ros. Vorrei esser nella mia capanna.

Cel. Vi condurremo in essa. Dategli voi pure il braccio.

Ol. Rassicuratevi, giovine. Ma siete voi veramente un uomo? Voi non ne avete il coraggio.

Ros. È vero, lo confesso. Dite a vostro fratello l’effetto che fece in me tal racconto. Oimè!

Ol. Non vi affliggete di più. Fatevi coraggio. Siate uomo.

Ros. Mi industrio per ciò: ma davvero avrei dovuto nascer donna.

Cel. Voi impallidite ancora; ve ne prego, entriamo nella capanna. Caro signore, venite con noi.

Ol. Volentieri, e andrò quindi da mio fratello per dirgli che voi, Rosalinda, gli perdonate.

Ros. Molte altre cose ancora gli direte: per ora, seguiteci soltanto. (escono)