Chiaroscuro/La festa del Cristo
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LA FESTA DEL CRISTO.
Fin verso mezzogiorno il tempo era stato bello. Le campane suonavano a distesa e la gente usciva nella strada e s’affacciava ai muricciuoli per veder sfilare la cavalcata dei pellegrini che andavano alla festa del Cristo di Galtellì.
Non se n’eran mai visti tanti di festaresos: lo stesso vecchio parroco Filìa precedeva la pittoresca processione che doveva percorrere strade e strade, valli e valli prima di arrivare alla mèta. Il vecchio prete nero, così nero e scarno che una volta uno scultore di passaggio l’aveva pregato di posare per il Cristo deposto, montava un cavallo nero con una stella bianca in fronte. Seguivano, tutti in fila uno dopo l’altro per lo stretto sentiero alle falde del monte verdastro, i vecchi che sembravano gli antichi Iberi, con lunghi riccioli e lunghissimi baffi, col cappuccio sul capo e la barba buttata in là dal vento fresco, e le donne con le bende gialle tirate sugli occhi, sedute a cavalcioni in sella o in groppa ai cavalli alle spalle degli uomini giovani vestiti di velluto oliva e di pelle gialla. Questi avevano quasi tutti il viso pallido, gli occhi neri un po’ obliqui e lunghi baffi sottili a punta ricadenti sul mento.
Le campane suonavano accompagnandoli: la gente correva sul ciglione per veder da lontano, la cavalcata sparire lentamente dietro lo stendardo rosso e oro che s’agitava sullo sfondo verde del sentiero come una farfalla sull’erba.
Ma un ritardatario richiamò l’attenzione dei curiosi. Arrivò di galoppo su un bel puledro rosso: veniva dai campi rocciosi al di là del paese. In un attimo, senza rispondere alle domande e ai gridi della gente che si tira in là per non esser calpestata dal puledro quasi indomito, anche lui fa parte della cavalcata e ne sembra il capo, tanto è alto e forte, con la barba rossiccia come la criniera del suo cavallo.
Il vecchio che andava subito dopo prete Filìa si volse un po’ sulla sella, poi si sporse in avanti.
— Compare Filìa, c’è anche Istevene, il figlio di serva vostra.
Il vecchio prete, col rosario nero intrecciato alle lunghe dita storte, non si volse neppure.
— Sarà tornato adesso dall’ovile.
— Ha un puledro rosso bello come l’oro.
— L’avrà comprato col denaro degli agnelli, — disse il vecchio prete senza voltarsi.
Ma il suo viso si fece scuro, come il monte sotto l’ombra di una nuvola che era venuta su di volo come un uccellaccio.
D’improvviso il tempo cambiò. Prete Filìa sentiva i pellegrini, che eran partiti pregando, bisbigliare e le donne sospirare; ma continuava a guardare davanti a sè, nel vuoto dell’orizzonte riempito dal caos delle nuvole, e gli sembrava che il rumore del vento, quello del torrente e del passo dei cavalli fosse coperto dallo scalpitìo del puledro di Istevene. Mormorò:
— Cristo, Dio, aiuta i peccatori.
A un tratto un grido di terrore si alzò dalla fila delle donne. Allora si volse e vide che il puledro aveva trascinato Istevene giù per la china dirupata sotto il sentiero. Rosso, infuriato, il giovane stringeva con le sue ginocchia poderose il fiero animale, e imprecando e colpendogli col pugno la testa voltata sul collo, lo costringeva a tornar su.
Gli uomini gridarono:
— Dove l’hai comprato questo gioiello, Istevene Sole? Pare il diavolo. È come te!
La fila fu ricomposta, si riprese il cammino, ma le donne erano inquiete e i cavalli fremevano eccitati dall’esempio del loro compagno straniero che voleva sorpassarli e tirava calci alle rocce. Le rocce sprizzavan scintille.
— La giustizia ti domi, — gridava Istevene al puledro. — E ti ho pagato quaranta scudi belli come quaranta fratelli!
Il vecchio prete guardava avanti a sè e pregava.
— Cristo, Dio, aiuta i peccatori....
Verso il tramonto il tempo si fece orribile. Era ai primi di maggio, ma sembrò si ritornasse nel cuore dell’inverno.
Soffiava il vento di tramontana e tutti i monti intorno dalla cima di Siddò alle tre punte di Gonare, da Monte Arbo all’alpe di Ollollai, parvero sciogliersi in nuvole color di pietra. Se il sole riusciva un momento a brillare simile a una brage in mezzo alla cenere, i peri selvatici fioriti lungo il sentiero tremavano come di gioia: poi tutto tornava livido e minaccioso. Sulle chine verdi lontane si vedevano come nuvole bianche correre e sciogliersi: erano greggie che fuggivan spaurite. Per ripararsi dal temporale i pellegrini si fermarono a Orotelli: furono ospitati qua e là e una comare di battesimo del parroco Filìa, una ricca paesana che aveva due figli maschi valentuomini, corse per invitare a casa sua il vecchio prete, Istevene, altri del seguito, e volle ospitare anche lo stendardo che sgocciolava acqua rossa simile a sangue.
La pioggia scrosciava sul paese, il vento ululava; ma in casa della comare del prete si stava bene. A questi fu assegnata la stessa camera nuziale della vedova, e lo stendardo fu appoggiato come una grande ala umida contro le spalle di un San Costantino di legno tarlato.
Fuori nel cortile, fra lo scrosciar della pioggia, il puledro rosso scalpitava talmente che lo stesso Istevene cominciò a impressionarsi.
Seduto con gli altri uomini intorno al focolare, mentre le donne curve sul pajuolo nero rimescolavano i maccheroni, egli stava immobile, col cappotto sulle ginocchia, e raccontava di aver comprato il puledro da un vecchio avaro che era morto giusto in quei giorni.
— Finora la bestia è stata tranquilla. Adesso si vede che lo spirito del vecchio avaro non è stato accolto nè in cielo nè in terra e s’è rifugiato nel corpo dell’animale....
E cominciarono a raccontar storie d’avari.
— Quand’ero piccolo — disse un uomo anziano — badavo a un vecchio così. Moriva e mi pregò di mettergli sul letto un cofano che aveva nascosto sotto il pavimento. Scavai e glielo diedi. — Alessio — mi disse — va fuori un momento e chiudi a chiave. — Obbedii e guardai dal buco della serratura. Egli aveva aperto il cofano ne tirava fuori le monete e le ingoiava. Voi ridete? Eppure questa storia è vera come è vero questo fuoco.
— L’avarizia è brutta, come son brutti i peccati mortali. Che il Cristo verso cui andiamo ci liberi da essi.
Anche il vecchio prete, steso stecchito sul letto a baldacchino, sentiva il rombo dei tuoni e lo scalpitìo del puledro che pareva spezzasse le pietre, e con la mano dura sotto la guancia pregava.
— Cristo, Dio, aiuta i peccatori.
Più tardi il tempo si calmò: egli però non poteva dormire, e anche tappandosi un’orecchia col lenzuolo, sentiva lo scalpitìo del puledro, il tarlo del santo e le voci degli uomini che giù in cucina avevano cominciato una gara di canti estemporanei. L’arrosto di pecora, la giuncata, il vino, li avevano resi allegri.
Solo prete Filìa era triste. Un tarlo lo rodeva, peggio di quello del vecchio santo giallognolo nella penombra. Una volta si alzò e guardò dalla piccola finestra.
La luna correva fra le nuvole rischiarando un pozzo ad archi, in una strada medioevale; una donna nera passava rasente il muro con un tizzone rosso in mano per allontanare i cani che alla notte possono essere diavoli o anime erranti.
Il vecchio prete nudo scarno come Cristo deposto, tornò a letto e pensa e pensa, volta e rivolta cominciò ad assopirsi. Vedeva un campo umido ove una torma di puledri rossi si sferzava a calci: le greggie fuggivano spaurite, lo stendardo si rompeva in mano a compare Zua. Voci rauche d’uomini e strilli di donne riempirono di echi l’improvvisa quiete della notte. Egli si svegliò tremando, balzò giù in cucina infilandosi la sottana al rovescio.
I due figli della sua comare rissavano e s’eran già azzuffati, e uno teneva il coltello con la lama in giù dentro il pugno sanguinante che Istevene gli tirava indietro violentemente. Gli altri ospiti cercavano di dividerli, strappandoli uno dall’altro; ma i due rissanti parevano un corpo solo, intrecciati, folli di vino e d’ira, e la madre li tirava per la sopraggiacca di cuoio, gridando disperata:
— Che cosa! Che cosa! Non s’era mai intesa una cosa simile! Figli miei, voi che eravate portati ad esempio per il vostro accordo, voi che vi volevate bene come bambini!
Anche prete Filìa cominciò a tirarli per la sopraggiacca, ma i suoi piedi nudi furono calpestati ed egli si ritrasse piangendo di dolore. Ma con la bocca tremante non riusciva che a dire:
— Cristo, Dio, aiutaci!
Uno dei fratelli, quello del coltello, s’era tagliate quasi di netto le dita. L’altro, appena furon divisi, se ne andò barcollando, dicendo che per la vergogna e il dolore sarebbe la mattina dopo scappato in America.
Gli ospiti lasciarono prima dell’alba la casa funestata dalla loro presenza. Avevano tutti un peso sul cuore, e il tempo rifattosi triste e gelido aumentava la loro tristezza. Non s’era mai conosciuto un tempo così, in maggio: la stessa erba tremava di freddo, i rialzi di terreno coperti di puleggio davan l’idea di cadaveri violacei in decomposizione stesi lungo la strada, nel crepuscolo livido; i peri bianchi di fiori parevan coperti di neve e le pecore sgocciolavano acqua come fossero cadute nel torrente.
Il lieto pellegrinaggio andava, andava attraverso i salti e le tancas, e pareva cambiato in mortorio. Ma ecco a un tratto un uomo a cavallo, con una fisarmonica verde sull’arcione, sbucò da un sentiero fra due muriccie e s’unì ai cavalcanti. Un grido di gioia un po’ beffardo lo accolse. Era il fratello fuggito. Il freddo della notte gli aveva fatto passare la sbornia, e invece di aspettare il treno per scappare in America egli era andato nella sua tanca, aveva attortigliato e legato con un giunco come per le corse la coda al suo puledro morello, ed era corso alla cantoniera per farsi prestare la fisarmonica.
— Vengo per far penitenza, — disse ai pellegrini, un po’ sul serio, un po’ per ricambiare la loro beffa benevola.
— Ecco fatto il paio con Istevene, — mormorò compare Zua, sporgendosi verso compare Filìa.
Ma il vecchio prete andava, andava, fissando sul cielo argenteo le piramidi azzurre di Gonare.
Il sole spuntò pallido simile alla luna e i prati colmi d’acqua scintillarono come il mare; il suono della fisarmonica, lungo, nostalgico, pareva davvero il lamento d’uno che partiva per non tornare mai più nella terra natìa.
Ma col sorgere del sole la gente era tornata allegra; i due puledri, il rosso e il morello, nitrivano eccitandosi a vicenda e animando anche i compagni sonnolenti. Le donne avevan paura di scivolar di groppa, ma ridevano sotto le bende gialle dorate dal sole. I vecchi dicevano a Istevene e al suonatore di fisarmonica:
— E state lontani! Al diavolo questi seccatori!
Ma Istevene s’era messo a guardare una bella ragazza pallida che cavalcava taciturna in groppa al cavallo baio di un suo zio — quello che aveva raccontato la storia dell’avaro.
Istevene li seguiva da vicino, tirando il freno, ma il puledro rosso cercava sempre di passare avanti, e il cavallo baio scuoteva un’orecchia e affrettava il passo. D’improvviso s’alzò sulle zampe posteriori e la ragazza cadde all’indietro battendo le spalle al suolo: parve morta e il puledro le sfiorò le vesti con le sue zampe terribili.
Di nuovo furon gridi, e un precipitar dai cavalli, un chinarsi di donne spaventate. Sollevarono a sedere la fanciulla, le spruzzarono acqua sul viso, le tastarono le spalle e le gambe: ed ella si abbandonava di qua e di là, ad occhi chiusi, col viso azzurro sotto la benda gialla.
Istevene era rimasto in sella, ma le sue mani tremavano sull’arcione, e quando la ragazza rinvenne e fu rimessa sul cavallo divenne rosso per la gioia.
Anche prete Filìa aveva fatto voltare il cavallo in qua e guardava attento. Quando la cavalcata riprese il cammino, egli non si mosse, frenando il cavallo con forza. Attese Istevene, lo guardò negli occhi, gli disse:
— Tu, rimani indietro. Va in ora mala!
Istevene rimase indietro.
Ma, cosa strana, la fanciulla pallida che prima non aveva mai sollevato gli occhi su lui, adesso volgeva lievemente il capo sull’omero e lo guardava di nascosto coi suoi lunghi occhi dolci come il miele. Egli sentiva quasi la stessa smania del puledro, l’impeto di precipitarsi in avanti abbattendo ogni ostacolo per portarsi via la donna desiderata: ma un freno misterioso ratteneva anche lui, e le parole del vecchio prete lo ferivano come sproni:
— Tu, sta indietro. Va in ora mala.
Egli aveva sempre avuto paura del padrone di sua madre (coi libri sacri i preti possono scomunicar la gente), ma lo venerava anche, e vedendolo andare avanti, avanti, curvo sul cavallo nero, avanti avanti per lo stradone bianco che pareva salisse fino al cielo, provava uno struggimento infantile.
— Nonno,1 — diceva fra sè, — questa volta l’ho fatta bella.
Sostarono prima d’arrivare a Nuoro, per mangiare e per abbeverare i cavalli. Era quasi mezzogiorno e il sole pallido riscaldava la pianura dove i germogli della vite sembravano fiori rosei e giallini. Tutto era azzurro e verde, con un po’ d’oro e viola qua e là, — ranuncoli e puleggi, — e tutto il mondo pareva composto di prati colorati e di monti ceruli; — tanto che a prete Filìa steso sull’erba col gomito sulla sella venne un grave oblìo d’ogni cosa reale. Chiuse gli occhi e s’addormentò.
Lo svegliarono per ripartire, e vedendolo guardarsi attorno, compare Zua gli disse:
— Istevene è andato avanti.
Istevene infatti era già presso Nuoro, ma mentre il puledro lontano dai suoi compagni andava calmo torcendo solo un po’ la testa e rodendo il freno, egli sentiva la sua agitazione crescere e le parole del prete «va in ora mala» gli ronzavano nelle orecchie sempre più dentro come formiconi.
Apparvero le case, di qua e di là dallo stradone deserto: solo la figura di un altro cavalcante, un Fonnese coperto dal manto di orbace le cui falde nascondevano anche la bisaccia e i fianchi del cavallo, campeggiava sullo sfondo della strada. Il puledro si eccitò di nuovo e prima che Istevene distratto lo frenasse si slanciò di corsa, urtò il Fonnese, passò come un lampo fra il terrore della gente che s’affacciava alle porte e alle finestre. Istevene perdette la berretta; il cavallo del Fonnese la calpestò, una donna la raccolse e la sbattè per toglierle la polvere. Intanto la visione terribile era scomparsa e il Fonnese domandò calmo alla donna se sapeva chi vendeva olio da ardere.
Le teste si ritirarono e tutto ricadde nel silenzio di prima, finchè non s’udì il suono della fisarmonica e apparve il prete nero seguito da compare Zua col viso ombreggiato dallo stendardo il cui broccato asciugatosi al sole pareva cuoio.
La donna che aveva raccolto la berretta si sporse da una finestra e domandò:
— Era con voi un uomo con un puledro rosso?
— Sì, perchè?
— Perchè il cavallo gli aveva preso la mano ed è passato come una saetta. Chissà che disgrazie! Ecco la sua berretta.
La berretta cadde in grembo a una donna che si curvò per cacciarla dentro la bisaccia.
La cavalcata sfilò, ma la fisarmonica non suonò più. Prete Filìa s’era fatto livido in viso, e batteva sul fianco del cavallo la staffa entro cui luccicava la fibbia d’argento della sua scarpetta: appena fuor del paese sì mise la mano sugli occhi per guardar lontano, ma lungo lo stradone — che tagliava la valle dalle rocce rosee di musco dell’Orthobene, non vide che qualche contadino coi buoi aggiogati e qualche donna con l’anfora sul capo.
Di Istevene nessuna traccia: era sparito col suo cavallo del diavolo come Lusbè, il demonio cavalcante, allo spuntare del giorno.
Lo raggiunsero solo verso sera prima di arrivare alla mèta. Sedeva sul paracarri, curvo su sè stesso, a testa nuda, con le mani giunte strette fra le ginocchia: pareva pregasse, oppresso dal crepuscolo di nuvole grigie venate di sangue e dalla solitudine infinita del luogo fantastico. Colline bianche chiudevan la valle e la strada scendeva giù attorcigliata come una corda, fra macchie e pietre, verso un punto ove si sentiva un mormorio d’acqua.
La donna che aveva raccolto la berretta si curvò di nuovo per toglierla dalla bisaccia e la buttò ridendo a Istevene.
— Tè! pare ti abbian fatto l’incanto. E il cavallo?
Istevene prese a volo la berretta, se la cacciò bene sul capo, la ripiegò su e non rispose.
Il puledro non si vedeva; ma ben presto riapparve, come il cavallo di Lusbè al cader della notte, e Istevene riprese a cavalcare dietro gli altri: ma la fanciulla pallida che aveva pensato a lui tutto il giorno e non aveva mai aperto bocca, si accorse che egli non era più quello della mattina. Pareva non conoscesse più nè lei nè gli altri compagni; andava in fila con essi come uno straniero e guardava lontano con gli occhi tali e quali a quelli di prete Filìa.
Così arrivarono a Galtellì: la luna illuminava le rovine del castello, giù sull’orizzonte cinereo, e più in qua il monte a cono pareva una tomba enorme tra gli avanzi dell’antica città e le casupole dirute. L’odore dell’euforbia e dei giunchi inondava l’aria; tutto era silenzio e solitudine.
Ma l’arrivo dei pellegrini animò il luogo; la fisarmonica riempì d’echi melanconici la sera, e gli abitanti del paesetto corsero ad invitare gli stranieri.
Un ricco vecchione amico dell’Orotellese volle a casa sua anche Istevene ed altri. Era un vecchio di novant’anni, una figura dell’Antico Testamento. La sua casa era cirocondata di orti recinti da fichi d’India, con qualche palmizio e qualche carrubo, ed era piena di donne, di fanciulli e di bambini.
Il più piccolo di questi, giallino e coi capelli neri, stava appoggiato al ginocchio del vecchio patriarca e pareva il pallido rampollo germogliante ai piedi del tronco secolare.
La notte passò tranquilla e l’indomani mattina prete Filìa disse la messa cantata assieme con altri sacerdoti dei paesi, convenuti alla festa, e col parroco di cui era ospite, bel giovane grasso, celebre in tutto il circondario per le sue prediche, per le sue stregonerie e sopratutto per la sua abilità nello scacciare gli spiriti maligni dal corpo delle persone e delle bestie indemoniate.
L’antica chiesa era gremita di fedeli; donne pallide col ventre gonfio per le febbri di malaria, uomini smilzi in corpetto di scarlatto, le gambe secche e dritte come quelle dei cervi. I nostri pellegrini si notavano quasi per diversità di razza, e le donne, pur pregando immobili col viso austero nell’aureola gialla delle bende inamidate, osservavano con malizia il feticismo delle Baroniesi per il loro grande Cristo che a dire il vero inspirava un certo terrore, così grande e pallido com’era nel chiarore dei ceri, sopra l’antico altare, sotto la tenda che lo nascondeva tutto l’anno, sollevata adesso per la sacra occasione. Alcune vecchie gemevano sommessamente, guardandolo, altre donne baciavano il suolo senza osare di sollevare gli occhi fino a Lui. E tutte pregavano battendosi il petto, mentre fuori nello spiazzo gli uomini meno religiosi si aggruppavano attorno ai venditori di vino e di torroni, e i fanciulli all’ombra delle tettoie di frasche ascoltavano un cantastorie girovago. Dall’estremità dello spiazzo si vedeva il monte bianco e verde incombere sul paese in rovina, e un palmizio protendersi da un muricciuolo come per ascoltare l’insolito brusìo del luogo tutto l’anno deserto.
Ma a un tratto, mentre i sacerdoti dentro chiesa riprendevano a cantare il Vangelo dopo il sermone, una donna salì correndo da una straducola erta, irruppe in mezzo agli uomini che bevevano il vino bianco versato da un rivenditore, e domandò ansando se c’era per caso il dottore di Orosei.
— Che c’è stato, Pattòi?
— Il cavallo di uno straniero ha dato un calcio al nipotino di Efiseddu Portolu. Il bambino sembra morto. Corrette....
Essi corsero, qua e là, in chiesa e per il paese: ma il dottore d’Orosei non c’era.
In un attimo la notizia si sparse tra la folla: quando prete Filìa, più che mai nero fra i suoi paramenti bianchi, si volse a benedire, vide le donee, prima così assorte, volgersi indietro e bisbigliare, e istintivamente guardò dove poco prima aveva veduto Istevene inginocchiato con la berretta sull’omero.
Istevene non c’era più.
Allora prete Filìa sentì un colpo al cuore e capì che una nuova disgrazia era accaduta. Le ginocchia gli si piegarono; parve cadere in avanti, ma tosto riprese l’equilibrio e intonò la preghiera con la voce tremula come il belato di un capretto.
Quando s’alzò vide che la chiesa era già vuota: anche il parroco, chiamato da un cenno silenzioso, era corso via per leggere il Vangelo sul corpo del bambino colpito dal puledro di Istevene: gli altri preti s’eran già spogliati e s’affrettavano a uscire.
Ma compare Zua vigilava sul suo vecchio amico come sul suo stendardo; lasciò questo appoggio fra i suoi compagni bianchi e azzurri, andò dal prete che si spogliava tremando e gli tirò al di sopra del capo il camice arrovesciato.
— Compare Filìa!
— Compare meu!
Compare Zua credette che compare Filìa sapesse già tutto, e aiutandolo ad abbottonare la sottana gli disse sottovoce:
— E adesso quel matto benchè abbia visto che il bambino è morto è corso sul suo cavallo del diavolo a chiamare il dottore di Orosei. Vedrete che qualche altro malanno accadrà....
Il prete cadde seduto su uno scanno dell’antico coro tarlato. Tutto scricchiolava attorno a lui, sopra di lui, sotto i suoi piedi, nell’antica sagrestia, in tutto il mondo.
— Il bambino è morto? Quale?
Compare Zua, curvo ad abbottonargli ancora la sottana come ad un bambino, riprese:
— Il nipotino di Efiseddu Portolu, quello che aveva ospitato Istevene senza conoscerlo. Il puledro gli ha dato un calcio alla testina....
Prete Filìa non disse più parola, ma appoggiò la testa al coro e mentre il viso gli diventava nero come il legno, la bocca si contorse a uno sbadiglio. Parve morire. Compare Zua gli versò il vino della messa entro la bocca violetta, ma il liquido scese in due rivoletti giù pei solchi profondi intorno al mento, cadde a terra come era caduto il sangue di Cristo.
Il vecchio non rinvenne.... La chiesa era vuota; la folla era corsa tutta sul luogo della disgrazia e riempiva gli orti, i cortili, la casa del patriarca ove le donne piangevano attorno ai focolari su cui ancora bollivan le pentole per gli ospiti maledetti.
Il bambino morto era deposto su un letto, coperto da un fazzoletto a frangia da cui uscivano i piedini calzati da scarpe con chiodi lucenti: il vecchione gli sedeva accanto, a occhi chiusi, con la bocca che pareva ruminasse: e ogni tanto stendeva la mano come per allontanare qualcuno, mentre il bel prete grasso, in piedi davanti al cassettone antico, leggeva il Vangelo, — poichè la voce era corsa che il puledro aveva in corpo lo spirito del padrone avaro, non accolto nè in cielo nè in terra.
Istevene intanto, curvo sulla sella, correva verso Orosei domandando a tutti dov’era il dottore: quando l’ebbe trovato tornò indietro deciso a passar dritto davanti al paese ed a scappare; ma allo svolto sotto il castello trovò l’Orotollese che l’aspettava per dirgli che prete Filìa stava male.
— Non vuol più uscire di chiesa e dice stramberie. Vieni.
Dopo che Istevene ebbe legato e quasi nascosto dietro un dirupo il suo puledro, andarono.
Prete Filìa stava ancora seduto sul coro, a occhi chiusi, ruminando come il nonno del bambino morto, ma quando Istevene impacciato si curvò e gli mise una mano sull’omero, balzò come toccato dal fuoco e parve diventar lungo, terribile e grandioso come il Cristo di là sopra l’altare. Mise le mani sul petto di Istevene e lo spinse indietro fissandolo con occhi minacciosi.
— Va! Confessa! — gridava. — In mezzo alla chiesa, davanti a Cristo!
Compare Zua li seguiva, accennando a Istevene di star zitto, e diceva sottovoce a entrambi:
— Compare Filì! Non gridate, non fate scandalo. Istevene, s’è messo in mente che tu abbia rubato il puledro e che Cristo ci punisca tutti perchè sei venuto alla festa a cavallo del peccato mortale....
— È così! Sì! Confessa in mezzo alla chiesa! — ripeteva prete Filìa, sempre spingendo Istevene che indietreggiava senza oppor resistenza.
Così lo ridusse fino all’uscio che compare Zua aveva chiuso a chiave.
— E finitela, compare Filìa! Cose del mondo....
— Confessa!
— E contentalo, Istevene! E confessa a lui, — consigliò compare Zua, calmo, quasi divertendosi alla scena.
— Sì, è vero! — confessò allora Istevene, un po’ ansando, accomodandosi la berretta contro l’uscio.— L’avevo da un mese, nascosto, e adesso ch’è morto il padrone l’ho tirato fuori. Ma oggi stesso lo restituirò ai parenti....
Ma siccome prete Filìa, diventato quasi maniaco, insisteva e gridava perchè Istevene confessasse davanti a tutti, compare Zua gli turò la bocca con la mano, lo trascinò indietro, lo fece di nuovo sedere sul coro.
— E tacete, — gli disse, curvo, guardandolo negli occhi. — Siamo tutti peccatori! Cose del mondo! E chi ha peccato con la serva, e chi ha preso il cavallo all’avaro, e chi questo e chi quello! E io? Ne ho una bisaccia, di peccati! E voi? E per questo c’è bisogno di venire a far scandali in una festa? In luogo straniero? Be’, zitto e fermo se no vi lego!
Così, un po’ ridendo un po’ sul serio, riuscì a calmarlo.
Istevene era già andato via, passando dietro il paese, per non esser più veduto dai compagni. Andò per riprendere il puledro e ripor tarlo ai parenti dell’avaro: ma cerca, cerca, l’animale non si trovò più. Qualcuno l’aveva rubato.
Note
- ↑ Padrino.