Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta. |
240 | la festa del cristo |
di canti estemporanei. L’arrosto di pecora, la giuncata, il vino, li avevano resi allegri.
Solo prete Filìa era triste. Un tarlo lo rodeva, peggio di quello del vecchio santo giallognolo nella penombra. Una volta si alzò e guardò dalla piccola finestra.
La luna correva fra le nuvole rischiarando un pozzo ad archi, in una strada medioevale; una donna nera passava rasente il muro con un tizzone rosso in mano per allontanare i cani che alla notte possono essere diavoli o anime erranti.
Il vecchio prete nudo scarno come Cristo deposto, tornò a letto e pensa e pensa, volta e rivolta cominciò ad assopirsi. Vedeva un campo umido ove una torma di puledri rossi si sferzava a calci: le greggie fuggivano spaurite, lo stendardo si rompeva in mano a compare Zua. Voci rauche d’uomini e strilli di donne riempirono di echi l’improvvisa quiete della notte. Egli si svegliò tremando, balzò giù in cucina infilandosi la sottana al rovescio.
I due figli della sua comare rissavano e s’eran già azzuffati, e uno teneva il coltello con la lama in giù dentro il pugno sanguinante che Istevene gli tirava indietro violentemente. Gli altri ospiti cercavano di dividerli, strappandoli uno dall’altro; ma i due rissanti parevano un corpo solo, intrecciati, folli di vino e d’ira, e la madre li tirava per la sopraggiacca di cuoio, gridando disperata:
— Che cosa! Che cosa! Non s’era mai intesa una cosa simile! Figli miei, voi che era-