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[1805-809] Vizî 599


I poeti latini, a scusare le oscenità sparse nel maggior numero dello loro produzioni, si giustificano col dire che al poeta è permesso di dire cose meno che oneste, purché onesti siano i suoi costumi; o per dirla con le parole di uno di loro:

1805.   ...Castum esse decet pium poetam
     Ipsum: versiculos nihil necesse est.1

(Catullo, od. XVI, v. 5-6).

e la stessa sottigliezza ripeteva Marziale, che tutti li vinceva in lubricità:

1806.   Lasciva est nobis pagina, vita proba est.2

(Epigrammi, lib. I, epigr. 5, v. 8).

che Gius. Giov. Belli, il quale voleva farne l'epigrafe della sua stupenda raccolta di sonetti in dialetto romanesco, benissimo tradusse cosi:

1807.   Scastagnàmo ar parlà, ma aràmo dritto.3

I notissimi versi:

1808.   La finzion del vizio
A vizio ver declina;
A can, che lecca cenere,
Non gli fidar farina.

|sono la morale della notissima favola Il fanciullo e il gatto, di Luigi Fiacchi detto il Clasio, di Scarperia (1754-1825).

Non lasceremo il discorso dei vizî senza tener brevissima parola anche di due fra essi, dei più veniali:

1809.   Gola e vanità, due passioni che crescono con gli anni.

  1. 1805.   Conviene al poeta ch’egli stesso sia casto e pio, ma non occorre che tali siano i suoi versi.
  2. 1806.   Lascive sono le pagine ch’io scrissi, ma la vita è onesta.
  3. 1807.   Pecchiamo nel parlare, ma righiamo diritto.