Chi l'ha detto?/Parte prima/62

Parte prima - § 62. Regole del trattare e conversare

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§ 62.

Regole del trattare e conversare




Miracolo di cortesia e di modestia doveva essere quella Bearice Portinari, di cui Dante diceva:

1390.   Tanto gentile e tanto onesta pare
     La donna mia, quand’ella altrui saluta,
     Ch’ogne lingua deven tremando muta.
     E li occhi no l’ardiscon di guardare.

principio del più mirabile fra i sonetti di Dante (Vita Nuova, § XXVI, son. XV), che lo scrisse quando appena potea contare cinque lustri d’età. Sopra ogni altra cosa doveva essere armoniosa la voce di lei, e gentile il suo dire, se il poeta medesimo in un altro sonetto (Vita Nuova, § XXI) scriveva:

1391.   Ogni dolcezza, ogni pensiero umile
     Nasce nel core a chi parlar la sente;
     Ond’è beato chi prima la vide.

Quanto è lontana questa gentilezza e amabilità naturale dal convenzionalismo mondano, da quella falsa e artificiosa urbanità sì facile a degenerare in svenevolezza, che un altro poeta prese a beffare nei versi:

1392.   Stretto per l’andito
     Sfila il bon ton;
     Si stroppia, e brontola
     Pardon, pardon.

(Giusti, Il ballo, str. 13).

Il Giusti medesimo in altra poesia così amaramente ragiona intorno alle ipocrisie sociali del conversare, rimpiangendo la franchezza dell’età giovanile, quando studenti con studenti si trattano alla buona col tu, anche senza essersi mai veduti prima. [p. 472 modifica]

1393.              Quel tu alla quacquera
               Di primo acchito!
               Virtù di vergine
               Labbro, in quegli anni,
               Che poi, stuprandosi
               Co’ disinganni,
               Mentisce armato
               D’un lei gelato!

(Le memorie di Pisa, str. 6).

Ma così vuole oggi la moda, e non si potrebbe fare altrimenti senza incorrere nella taccia di sgarbato o peggio, e, per esempio, farsi dire sul viso quel che disse, per sua mala fortuna, un frate a Barnabò Visconti:

1394.   Qui de terra est, de terra loquitur.1

Narra Ser Giovanni Fiorentino nella Giorn. VI, nov. 2° del Pecorone, che il capitolo generale dell’ordine dei Frati Minori tenutosi in Milano al tempo di Bernabò Visconti, mandò a raccomandarsi a lui perocchè avevano bisogno di molte cose. E messer Bernabò promise di dar loro risposta per un suo messo, il quale infatti fu da lui mandato e venuto nel capitolo disse: «Il signor messer Bernabò vi manda rispondendo che provvederà bene a’ bisogni vostri, e massimamente a quello delle femine, il quale e’ sa che sarà il maggior bisogno che voi abbiate; però che voi ne sete molto vaghi, e quelle che voi avete, non basterebbono. Allora i frati guardavano l’un l’altro, e non dicevano niente, se non quel frate, che fu cagione della morte d’Ambrogio (allude ad altra novelletta), il quale disse: Qui de terra est, de terra loquitur, e nessuno fu più che dicesse niente, e tutti si partirono senza fare altra risposta al cavaliere». Messer Bernabò cui è riferita la risposta, fece prendere il frate, «e senza dirgli nessuni altra cosa, fece scaldare un ferro, e feglielo mettere per l’uno orecchio, e riuscire per l’altro, acciò ch’e’ non udisse mai più. [p. 473 modifica] Il frate visse a stento alquanti dì, e morissi quasi disperato». Di tale fatto che pare storico, si trova la fonte negli Annales Mediolanenses, pubblicati dal Muratori, dove l’anonimo cronista trascrisse tutte le accuse mosse da Gian Galeazzo allo zio nel processo intentatogli dopo che l’ebbe fatto prigioniero (Rerum Italicarum Scriptores, to. XVI. col. 795. C. — Cfr. anche: V. Vitale, Bernabò Visconti nella novella e nella cronaca contemporanea, nell’Archivio Storico Lombardo, 1901, pag. 267).

È anche regola di moderna creanza che nel parlare non ti sfugga alcun suono incomposto:

1395.   Lacerator di ben costrutti orecchi.

come è detto nel principio del poemetto pariniano:

          Oh se te in sì gentil atto mirasse
               Il duro capitan, quando tra l’arme,
               Sgangherando la bocca, un grido innalza
               Lacerator di ben costrutti orecchi.
               Onde a le squadre vari moti impone....

(Parini, Il Mattino, v. 106-110).

Sull’andare e sul camminare abbiamo due frasi diventate comunissime, tolte a due grandi poeti, delle quali l’una si usa quando si vedono due o più persone andarsene, non a fianco amabilmente conversando, come è regola di buona compagnia, ma l’un dietro l’altro o come oggi si dice, con frase modernissima tolta alle reminiscenze dei romanzi di Fenimore Cooper e di altri scrittori americani, in fila indiana.

1396.    Taciti, soli, e sanza compagnia
     N’andavam, l’un dinanzi e l’altro dopo,
     Come frati minor vanno per via.

l’altra denota t’andare dignitoso e maestoso specialmente di donna bella:

1397.   Vera incessu patuit dea.2

(Virgilio, Eneide, lib. I. v. 405).
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Si sa che in questo luogo dell’Eneide è Enea che riconosce Venere perchè andava, non come camminano i mortali, movendo un pie’ dopo l’altro, ma come andavano gli Dei, cioè senza toccar terra, quasi volando. Non altrimenti disse il Petrarca:

1398.   Non era l’andar suo cosa mortale
Ma d’angelica forma.

(Sonetti in vita di M. Laura, num. XLI secondo
il Marsand, com.: Erano i capei d’oro a l’aura
sparsi; son. LXIX, secondo il Mestica).

Offenderei i miei lettori, se ricordassi loro, fosse pure per ischerzo, che tra le buone regole della società c’è anche quella di non fare (sia detto con riverenza di chi legge) come quello sconcio diavolo, che

1399.   Avea del c... fatto trombetta.

e neppur di

1400.   Ruttar plebeiamente il giorno intero.

(Parini, Il Mattino, v. 185).

Il malcreato che dimenticasse questi o altri simili precetti della più elementare educazione, meriterebbe di essere trattato, come disse Dante medesimo:

1401.   ....Cortesia fu lui esser villano.

o come, presso l’Ariosto, dice Sacripante a Rodomonte:

1402.   Gli è teco cortesia l’esser villano.

(Orlando furioso, c. XXVII, ott. 77).



  1. 1394.   Chi nasce bassamente, parla bassamente.
  2. 1397.   Al camminare apparve veramente dea.