Canti della guerra latina/Cantico per l'ottava della vittoria

Cantico per l'ottava della vittoria

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La preghiera di Sernaglia


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CANTICO PER L’OTTAVA

DELLA VITTORIA

[III-XI NOVEMBRE MCMXVIII]




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CANTICO PER L’OTTAVA

DELLA VITTORIA


Balza su dal nero fango, lava il sangue e il sudore.
E vendica la potenza del canto sul clamore,
o Verità cinta di quercia.
Come la spada a due tagli leva il tuo canto puro
5che la nostra anima nuda fenda, mentre Bonturo
mal mondato nel trivio bercia.
 
Verità cinta di lauro, ben tu oggi mi scegli
come quando su lo strame d’Italia i tristi vegli
rumavan la menzogna stracchi
10e tu mi cantavi il canto solitario alla Terra
al Cielo al Mare agli Eroi, meco armata alla guerra
contro il sogghigno dei vigliacchi.
 
O domatrice di fuochi, foggiami tu quest’ode
e scagliala verso Roma; ché la mia mano prode
15mi trema e condurla non posso.
Patria! Patria! Questa sola parola mi trasporta.
E rimbombare odo dentro di me, come alla porta
del tempio, uno scudo percosso.
 

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Patria! Il terribile e dolce nome chiamare voglio.
20Sono ebro. Odo il tuono e il rombo. Chi mai sul Campidoglio
percote lo scudo raggiante?
Il giubilo è una rapina bella, un ratto felice.
E il cielo è tanto a noi chiaro, sol perché Beatrice
rivede sorridere Dante.
 
25Come chi chiama la luce pel suo nome divino,
come chi chiama la luce pel suo nome e al mattino
comanda che nasca dal mare,
o Patria, così ti chiama colui che trascolora
di dolcezza e di spavento. Non tu sembri un’aurora
30che abbia volontà di cantare?
 
Palpiti come un’ aurora colma di melodia,
come un’aurora chiomata d’astri ignoti, che sia
apparsa alla soglia del mondo.
Dalle calcagna possenti fino alle rosee dita
35non sei se non il preludio della novella vita,
una nell’alto e nel profondo.
 
E nel profondo e nell’alto sei tu stessa l’aurora
a cui ti facemmo sacra con l’aratro e la prora
quando la notte era su noi.
40La notte pallida s’apre come si squarcia un velo.
Sei tutta la luce; e nella luce cantano il cielo
il mare la terra e gli eroi.

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Sei un infinito canto. Muta sembri rimasta
da secoli per cantare quest’inno che sovrasta
45la speranza e supera il fato.
Sembri rimasta in silenzio da che la terza rima
ti rapì nel Paradiso dov’arde su la cima
dell’amore il verso stellato.
 
Tutto è voce numerosa, tutto è numero e modo
50in te nova. Sei la grande Carmenta. Ecco che t’odo
fra il Tevere e il Capitolino.
Ecco che t’odo fra l’Alpe Giulia e l’Alpe Apuana.
T’odo fra le Dolomiti rosse e la Puglia piana.
E l’Istria è un sol coro latino.
 
55E il leone di Parenzo rugge col miele in gola.
E la vittoria cilestra nel colossèo di Pola
si prodiga all’arcato abbraccio.
E le città di Dalmazia si scingono sul mare
cantando dai bei veroni veneti, bionde e chiare
60nell’ambra di Vettor Carpaccio.
 
E Zara è la prima, Zara nostra, rocca di fede,
ch’è scolpita nel mio petto com’è scolpita appiede
di Santa Maria Zobenigo,
tutta bella al davanzale della sua Riva Vecchia,
65ridorata come quando Venezia si rispecchia
nell’oro sciolta dal caligo.
 

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E la seconda non fulge sopra il riposto mare
dalla gran nave di sasso, tra battistero e altare,
ma per gli occhi del suo veggente,
70ma per gli occhi del suo cieco, pei fisi occhi riarsi
dall’ardore del futuro ch’egli vede levarsi
oggi dal sangue immortalmente.
 
O Sebenico beata, che hai gli occhi più profondi,
la cecità del profeta reduce dai tre mondi
75anch’egli ma senza corona!
O Spàlato imperiale, Spàlato piena d’arche
sante, ove cantano alterne le Marie e le Parche
sopra le tombe di Salona!
 
O Traù, mia dolce donna, tu che sei tra le donne
80dàlmate la più dorata! Sei nelle tue colonne
come il fuoco nell’alabastro.
La tua gioia è come l’oro fulva. Sotto l’artiglio
il tuo libro si riapre. Fiorisce come un giglio
il tuo cipresso nell’incastro.
 
85La sùbita primavera si crinisce di pioggia.
La rondine d’oriente torna nella tua loggia
ad annunciar la Santa Entrata.
Disseppellisci di sotto l’altare i tuoi stendardi
e li spieghi. Ardono al vento salso come tu ardi,
90o tu che sei la più dorata.

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E danzano la tua gioia lungh’essa la tua costa
le isole nutrici di api, da Zirona a Lagosta,
e coi cembali e col saltero.
O Solta ricca di miele che sa di rosmarino!
95O sasso della Donzella dove l’amor latino
rinnovellò la morte d’Ero!
 
E s’inghirlanda di mirto Lissa vittoriosa.
E la vittoria navale coglie il lauro e la rosa
nell’oleandro di Lacroma.
100E la Libertà dal vasto petto, l’unica Musa,
canta con dodici bocche nel tuo fonte, o Ragusa;
e tu bevi il carme di Roma.
 
Patria! Patria! Tutto è canto, tutto è canto infinito,
canto nato col mattino. Tocca il cuore ferito
105degli eroi nella terra nera.
Schiude fin le tristi labbra dei giovinetti muti
nelle ripe nelle malghe nelle velme, caduti
quando la grande alba non era.
 
Si levano gli insepolti, si levano i sepolti:
110al sommo del loro ossame portano i loro volti
trasfigurati, l’ebre gole.
Son tutti luce e canto, gaudio e canto gli uccisi
come se in tutti e in ciascuno san Francesco d'Assisi
spirasse il cantico del sole.

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115Nei valichi dello Stelvio, nei passi del Tonale,
nella roccia d’Ercavallo che l’ascia trionfale
tagliò come ceppo d’abeto,
nel lene argento del Garda, nel rame della Zugna,
nella Vallarsa ricinta d’arci che il sole espugna
120per baciar laggiù Rovereto;
 
e tra l’Astico e il Rio Freddo, di girone in girone,
negli inferni statuarii del Cengio e del Cimone,
che sono i fratelli del Grappa,
essi cantano con calde bocche, riavvampati
125da un sangue repente; e vanno, s’accrescono, soldati
della luce, di tappa in tappa.
 
Chi è con loro? Chi viene, riavvampato anch’esso
di gioventù sovrumana, come aveva promesso?
«Ch’io venga anche all’ultima guerra!
130Legatemi al mio cavallo. Ma ch’io veda la stella
d’Italia su la Verruca! Cinghiatemi alla sella.
Ma ch’io venga all’ultima guerra!»
 
Giovine, giovine come nell’estancia, a Maromba,
alla Barra, al Cerro, al Salto, come quando la tromba
135dal Vascello e dalla Corsina
sonò su Roma serva slargando col selvaggio
squillo gli archi di trionfo troppo angusti al passaggio
della nova gloria latina,
 

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giovine e con la criniera fulva come l’estate,
140sul gran stallone di neve dalle froge rosate,
che per ala ha il candido manto,
cavalca Egli nel delirio come in un nembo ardente,
fiso alla morte, e l’amore della sua morta gente
l’inalza alla vita del canto.
 
145O vita! O morte! Il mio canto vien di sotterra o spira
dal mio petto? Son io servo dell’inno senza lira
o son io signore del fato?
Tutte le vie della notte furon da me percorse
per amor del tuo mattino, Patria. Ma so io forse
150come questo giorno m’è nato?
 
Non ho perduto il mio giorno? non ho perduto i doni
della trasfiguratrice? Che val se m’incoroni?
O fine delle cose impure!
Son nel carcere dell’ossa, nei lacci delle vene,
155e non diffuso nei vènti, nelle acque, nelle arene,
in tutte le tue creature.
 
Con una meravigliosa gioia tesi le mani
a rapir la morte. E sempre diceva ella: «Domani.»
Sempre diceva ella: «Più alto!»
160La inseguii di là da ogni mèta al mio cor promessa.
Ed ella diceva sempre: «Più oltre!» Era ella stessa
il volo la schiuma l’assalto.
 

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O mio compagno sublime, perché t’ho io deluso?
e perché fu ingannata l’anima? Avevo chiuso
165te nell’arca e la mia speranza,
tra i cipressi di Aquileia. Silenziosamente
avevo teco bevuto l’acqua senza sorgente
e celebrato l’alleanza.
 
Risorto sei tu dall’arca, fra il croscio dei cipressi.
170L’arcangelo del mio nome, nel dì del Resurressi,
ha scoperchiato il sasso cavo.
E tu, Dioscuro, franco del cavallo e dell’asta,
sei ridisceso a lavare dal lutto la tua casta
forza nel lustrale Timavo.
 
175Ma dov’era il tuo fratello? la sua forza dov’era?
Non l’avevano raccolto dentro la tua bandiera
stessa i compagni di ardore.
Non il suo corpo abbronzato sul rottame fumante
dell’ala avevan disteso, né con le foglie sante
180coperto il nudato suo cuore;
 
né veduto di tra le foglie dell’alloro pugnace
ardere subitamente nel profondo torace
un fiore perfetto di fuoco.
Eroe, tu m’attendi invano sul tuo fiume lustrale.
185Ma, se la vita è mortale, se la morte è immortale,
in te vita e morte oggi invoco.
 

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Nella mia bocca ho il tuo soffio, tra i miei denti il tuo fiato.
Si fa mattutino canto lo spirito esalato.
L’agonia si fa melodia.
190Patria! Patria! Questa sola parola è tutto il cielo.
La notte pallida s’apre come si squarcia un velo.
Regna «colui che più s’indìa».
 
Come chi chiama la luce pel suo nome divino,
come chi chiama la luce pel suo nome e al mattino
195comanda che nasca dall’acque,
o Patria, così ti chiamo. Sono il tuo gridatore
e sono il tuo testimonio. Se m’odi, il mio amore
sa come questo giorno nacque.
 
Sto tra la vita e la morte, vate senza corona.
200Da oriente a ponente l’inno prima s’intona:
«La vita riculmina in gloria!»
Sto tra la morte e la vita, sopra il crollo del mondo.
Da ostro a settentrione scroscia l’inno secondo:
«La morte s’abissa in vittoria!»