Brani di vita/Libro primo/Un dilemma

Un dilemma

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UN DILEMMA


Le feste celebrate in Reggio pel centenario della bandiera tricolore rinverdirono i ricordi del 1797, anno di grandi avvenimenti per l’Italia. Basti il dire che soltanto nell’inverno, ci furono la costituzione della Repubblica Cispadana, la resa di Mantova e il trattato di Tolentino.

L’intenzione di invadere lo Stato Pontificio era già da parecchio tempo nel general Bonaparte e la Corte Romana che lo sapeva si preparò alle difese. Ma Alvinzi veniva in soccorso di Mantova ed il generale dovette accorrere e vincerlo in quella maravigliosa campagna che terminò con la resa della fortezza. Il Papa aveva fatto accampare il suo esercito raccogliticcio presso Faenza, minacciando Bologna; ma l’esercito era quale, per tradizione, sono gli eserciti papalini, e il general Colli che lo comandava era degno dei soldati. Bastarono poche fucilate al passo del Senio perchè l’oste pontificia fug[p. 252 modifica]gisse con unanime entusiasmo, lasciando libera la via al nemico, il quale procedette tranquillo sino all’Umbria.

Il Colli, scappato vergognosamente anche lui, se si crede al Leopardi, finì col mettere lo spavento nei vecchi pusillanimi che consigliavano Pio VI, dichiarando che non c’era più nulla da fare; e tutto si preparò per una fuga a Terracina, colla evidente intenzione di passare poi nel Napoletano.

Ma il vincitore mandò parole di pace e i poveri spaventati si decisero a pagare lo scotto dei vecchi errori e delle millanterie. Veramente lo scotto, come al solito, lo pagò il paese che dovette metter fuori i milioni necessari, ma intanto il Papa e i Cardinali si rassicurarono e firmarono la pace di Tolentino (19 febbraio).

L’articolo VII del trattato dice: “Il Papa rinuncia egualmente a perpetuità, cede e trasferisce alla Repubblica Francese tutti i suoi diritti sui territori conosciuti sotto il nome di Legazioni di Bologna, di Ferrara e della Romagna”. E l’art. XXV aggiunge: “Tutti gli articoli, clausole e condizioni del presente trattato, senza eccezioni, sono obbligatorie in perpetuo tanto per S. S. Papa Pio VI, quanto per i suoi successori”.

Certo, e tutti lo sanno, altri successivi trattati, specialmente quel di Vienna, mutarono le cose e restituirono al pontefice le Legazioni e le Romagne; ma non è men vero che il Papa in un pubblico trattato, rivestito della sua ratificazione, sia pure per paura di peggio, aveva emesso piena ed esplicita rinunzia [p. 253 modifica]non solo, ma aveva trasferito in altri la sovranità di diritto e riconosciuto quella di fatto, obbligando ancora i successori. Egli dunque si credeva in diritto di farlo.

Lasciamo stare che Pio VII fece molto di più e rinunciò al potere temporale in Fontainebleau, ma si ricredette ben presto e, benchè infallibile, si ritrattò. Qui è da notare soltanto che, almeno per le Romagne, cent’anni sono, il pontefice emise totale e pubblica rinunzia. Nè vale il dire che gli fosse imposta colla violenza, poichè la via per la fuga era aperta e preparata e il nemico tuttora lontano da Roma.

Ora tutti ricordano le proteste pontificie per la perdita delle stesse Romagne nel 1859 e più avanti; proteste che non si limitavano alla disapprovazione o alla condanna di un atto riputato violento, ma che si basavano sopra la necessità della conservazione integrale del poter temporale. Il cardinale Antonelli dichiarava essere “l’integrità del dominio temporale della Santa Sede essenzialmente connessa col libero esercizio del supremo pontificato”; e Papa Pio IX, esser dovere del suo gravissimo ufficio ed obbligo di solenne giuramento “fortemente difendere i diritti e i possessi della Chiesa Romana e costantemente sostenere il principato di questa Apostolica Sede e trasmetterlo intero ai nostri successori come patrimonio di S. Pietro". Si sostenne insomma la tesi della inalienabilità. Il Papa che cedesse sarebbe spergiuro. Non si può. Non possumus.

Ora si domanda: chi era in errore? Il Papa di allora o il Papa di adesso? Sbagliava Pio VII o Papa Pio IX? [p. 254 modifica]

Eppure erano ambidue infallibili, a meno che non voglia dirsi che non pronunciavano intorno alla fede ed ai costumi; dal che verrebbe che alle affermazioni intorno al poter temporale si possa negar fede e tutti sanno come il Concilio Vaticano stava per farne un dogma.

Un Papa dunque riteneva il dominio temporale come una proprietà libera ed alienabile e ne disponeva obbligando anche i successori: l’altro riteneva invece di aver l’usufrutto soltanto, di godere un fidecommesso e di non poter disporre in modo alcuno della proprietà, che, per obbligo di coscienza, doveva esser trasmessa intatta ai successori. La contraddizione tra questi due infallibili è come quella che passa tra il bianco e il nero, tra il sì ed il no. Chi ha torto?

Gli eventi ed i popoli hanno sciolto per conto loro la quistione in modo che la domanda sembra più che inutile, ridicola. Pure, dopo un secolo dal trattato di Tolentino, la curiosità, diremo, storica, può tentarci a chieder di nuovo: chi fallì dei due infallibili?

Si può cavillare quanto si vuole, sfoderare distinzioni, testi, argomentazioni sottili e ingiurie grosse, ma tra due che sulla stessa questione dicono uno sì ed uno no, sembrerebbe che uno dovesse aver torto.

C’è però un altro caso: quello che avessero torto tutti e due.