Brani di vita/Libro primo/Sul Moncenisio
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SUL MONCENISIO
Un toscano, cadendo di bicicletta (e speriamo che ciò non sia mai!) dirà di aver dato un pattone. Un lombardo, afflitto dalla stessa sciagura (ed anche questo non sia mai!), dirà d’aver fatto una toma. Ora, a dispetto di tutti i pregiudizi cruschevoli o manzoniani, parla meglio il lombardo, poichè tomare nel significato di cadere a capo fitto e a gambe levate, ci venne direttamente dal greco e l’usarono in quel senso nientemeno che Dante ed il Pucci, due autorità segnalate e, per di più, fiorentine.
Il signor Carvallo, nel giornale della Scuola politecnica di Parigi, studiò a filo di geometria e di algebra il moto della bicicletta e, con un lungo lavoro di x e di y, di seni e di coseni, sciolse l’ardua equazione della stabilità, tanto che chiunque, dopo il pattone o la toma, potrebbe dire con precisione matematica, per quale negligenza di calcolo o errore nell’applicazione delle formule, si trova disteso per le terre, confortato dall’ilarità del prossimo e della guarnigione. Anzi il paragrafo 80 del suo lavoro è appunto inteso a sciogliere l’equazione della caduta, ma non è possibile riferirne i termini, poichè l’autore stesso afferma che la scrittura dei calcoli sarebbe così lunga da oscurare il problema, distraendo l’attenzione con una selva troppo fitta di formule. Vedete di qui quanta scienza ci voglia per cadere lunghi e distesi nella polvere!
Poichè la scienza è una bella cosa! Dopo la toma fatta a rigore di matematica, verrà la medicina a dirvi in quanti giorni guarirete dalle scorticature, salvo complicazioni e, se non siete consolati e contenti, peggio per voi!
Per fortuna nostra, nè la matematica nè la medicina ebbero occasione di consolarci, quando nell’agosto passato, in lieta compagnia, salimmo il Moncenisio. Non si dice che tutti percorressero tutta l’ardua e lunga via, montati in sella. A pochi fu dato; ma tutti però salimmo ammirati della terribilità dell’alpe che s’impone agli occhi ed all’anima colla maestà del gigantesco. Quando dall’altezza vertiginosa si vede giù nella valle verde l’abbazia della Novalesa piccina come un punto ed in faccia il Rocciamelone ronchioso, ferrugigno e colla schiena sterminata ravvolta tra le nubi, si sente la piccolezza dell’uomo e l’enormità della natura. Si prova come un senso di rispetto, si parla basso come in chiesa e si capisce perchè i barbari, nel terrore della incompresa immensità, temessero l’ira degli Dei e li adorassero nella solitudine tremenda dell’alpe.
Ma, lungo l’erta formidabile, la natura anche sorride. Sui margini della via è una festa di fiori che aspettano il sole, velato dalla nebbia pesante. I fiorellini dei myosotis e le campanule delle genziane hanno l’azzurro delicato che il cielo ci nega e gli astri e i garofani selvatici colla gaiezza dei colori ci dicono che quassù non è poi tutto melanconia, e che presso le ire e i sospetti degli uomini fioriscono almeno gli amori delle piante.
Poichè quassù il sospetto è da per tutto. Siamo sul confine. La fotografia è interdetta, il cannocchiale è tenuto come arma insidiosa e il segnare pochi sgorbi sopra un foglio espone al rischio della galera. Quando, in un nevaio, sotto la croce della Nunda, sedemmo a colazione, apparve subito sopra di noi il berretto di un carabiniere. L’autorità ci sorvegliava.
Il lago del Moncenisio che ha così strani riflessi di acciaio brunito, specchiava nell’acqua immobile i severi profili della montagna e il silenzio era profondo, quando, ad un tratto, il tuono di una cannonata rimbombò dal basso e si ripercosse, brontolando lungamente, nell’eco dell’alpe. Una nuvoletta di fumo bianco apparve nella gola del colle e alcuni squilli di tromba ci giunsero chiari. Perchè?
Certo, questa è la via dell’invasione e di qui calarono in Italia, forse Annibale, e, senza dubbio, Pipino e Carlomagno. La strada stessa fu costruita per questo e l’abbozzò prima il Catinat e la finì poi Napoleone. Ma è strano, è doloroso che al principiare del secolo ventesimo, in piena pace, due nazioni della stessa razza, si sorveglino qui con tanta gelosia, poichè dall’altra parte del monte i forti non sono meno numerosi e le guardie meno fitte.
Un senso mal celato di diffidenza è negli occhi dei soldati al di qua e al di là dal confine e la continuità del sospetto li costringe a vegliare lunghi inverni sotto un sepolcro di neve, nelle casematte dei forti. E quando il vento urla nelle gole scatenando la tormenta, prendono le armi e sfidando la burrasca e forse la morte, escono a perlustrare, si mettono in sentinella e spìano. Che cosa e perchè?
Almeno i myosotis e le genziane che dormono sotto la neve, se non sognano il sole, come canta lo stornello toscano, si desteranno a maggio nella pace e nell’amore. Gli uomini, no.
Il sospetto del confine li condurrà a nuovi pericoli, a nuove faticose scalate di rupi asprissime e le autorità, da presso e da lunge, chiederanno affannosamente ogni giorno col battito del telegrafo, se le sentinelle stanno all’erta e se sorvegliano bene. Che cosa e perchè?
Tutti noi che avevamo spinto fin lassù la bicicletta, ci sentivamo italiani nel cuore e nell’anima e la ruota simbolica del nostro segno recava nel suo mezzo i tre colori; ma tutti ci sentivamo quasi umiliati nella nostra dignità di uomini dalla sottile e pertinace diffidenza che vigila giorno e notte sull’erta del colle, come se il nemico meditasse una sorpresa. Il nemico! E siamo fratelli secondo il cuore e la carne!
Forse la nebbia, che durò chiusa sopra di noi per due lunghi giorni, dava al nostro pensiero il grigio delle sue tinte e fu con vera gioia che, nel freddo acuto dell’alba, risalimmo in macchina e, a rigor di matematica diritti in sella, imprendemmo la scesa dicendo: Animo: rivedremo il sole in Francia!
Al di là, i soldati francesi salivano il colle incitando le mule che trascinavano i carri delle munizioni. I calzoni rossi ci parvero una novità per un momento, ma purtroppo, la stessa nebbia che incombeva densa e sconsolata sulle rupi italiane, avviluppava le abetìe che sovrastano Lanslebourg e, per quel giorno, non vedemmo il sole!