Brani di vita/Libro primo/Il primo amore
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IL PRIMO AMORE
Per cominciare proprio dal principio, Le dirò, Signora, che alla precoce amatività di Dante, del Leopardi e di tanti altri, io ci credo benissimo. Certo nella puerizia o sul limitare dell’adolescenza non si ama compiutamente come più tardi: sarebbe impossibile; ma intanto è vero che in molti maschi questo istinto di selezione, per quanto indeciso e senza intensità carnale, si manifesta prestissimo. È annebbiato, è incosciente, è immateriale, ma però è amore. Fosforescenza che non è ancor luce, tepore che non è ancor caldo, tutto quel che Ella vuole, ma amore bello e buono. Dopo, quando l’esperienza è venuta, quando si lasciarono tanti brandelli di cuore ai rovi della strada percorsa, come le pecore ci lasciano la lana, allora si pensa, si ricorda, si torna indietro col pensiero a far l’analisi del passato, e si arriva a capire che quelle pallide fosforescenze erano l’alba della amatività, che quei tepori precorrevano le vampe del primo amore. Si arriva a capire che la nostra storia intima, la storia degli affetti, comincia di là.
Dicono che il primo amore non si dimentica mai. Non voglio sapere quel che Ella pensi di questo assioma; no, non lo voglio sapere: ma per me lo accetto e ci credo. Io, per esempio, per la prima volta ho amato un ritrattino in fotografia, ed ora che tanto tempo è passato, solo a chiudere gli occhi, lo rivedo preciso come se lo avessi davanti: proprio come dopo aver fissato il sole per un momento, a chiuder gli occhi ne riveggo il disco che persiste nella retina. Che strano effetto, non è vero? che strano effetto fanno questi ricordi quando ci tornano avanti colla vivacità di una cosa vera, col colorito e la temperatura della realtà! Ha mai girato in montagna? Si sale lentamente, ammirando una scena magnifica. Il cielo è del più bell’azzurro di cobalto, i monti del più bel verde di smeraldo, e così, procedendo tra queste vive sensazioni di colore, si oltrepassa il punto centrale della scena. Allora bisogna voltarsi indietro per veder tutto cambiato. I monti sotto i quali si passò non hanno più lo stesso aspetto e lo stesso colore, la pianura sfuma giù tra l’azzurro e il violetto, il cielo all’orizzonte è color di rosa, insomma quel che era verde diventa turchino, quel ch’era grigio diventa roseo, quel ch’era luce diventa ombra. Così si cambia la sensazione visiva degli oggetti secondo l’ora e il punto di vista; e così, guardando con la memoria, le cose passate prendono colori e forme diverse da quelle che vedemmo una volta. È per questo che ricordando qualche avvenimento della vita, ci picchiamo la fronte brontolando: — Bestia ch’io fui! — È per questo che, pensando ora a quel ritrattino, mi ricordo che ne ero innamorato. Allora non lo sapevo.
Ero in collegio, tra i dieci e gli undici anni, e lasciavo vegetare tranquillamente la mia animalità, soffrendo il freddo nell’inverno e il caldo nell’estate come ogni fedel cristiano. Mangiavo con appetito formidabile i brodetti spartani e le polpette ripiene di mistero; saltavo come un capriolo, ridevo come un matto e studiavo poco. Credo anzi che non studiassi affatto, poichè la dottrinella del Bellarmino, che era la nostra fatica quotidiana, non me la ricordo più. Dico tutto questo perchè Ella si persuada ch’io non ero un fanciullo portento, ma un povero bimbo come gli altri, amico de’ trastulli, nemico del Bellarmino e martire dei geloni. Vivevo solo fisicamente ed ignoravo il resto. Ignoravo il male, quindi ero innocente, poichè la innocenza, tanto vantata, non è altro che la santa ignoranza.
Il mio collegio era un antico convento di camaldolesi, un labirinto di corridoi oscuri, di cellette basse, di scale inesplorate, di anditi misteriosi che conducevano a porte murate. Pareva una fabbrica architettata da Anna Radcliffe per qualche personaggio dell’Hoffmann. Il chiostro maggiore, di un disegno pomposo e vicino al barocco, circondava un giardino incolto, pieno di umidità, di muschi cresciuti sui viali, di solanacee pelose, di lauri lucidi, quasi metallici, sotto cui prolificavano le botte, i millepiedi e gli scorpioni. Le pareti erano tigrate da grandi macchie scure, vellutate dalla peluria del salnitro e un odore di chiuso, di muffa, di terra bagnata, vaporava da ogni angolo, tra le commessure verdastre dei mattoni. In questo carcere malinconico, tra i lunghi silenzi, la semi oscurità, le funzioni religiose, sotto il cipiglio freddo de’ superiori e la ferula degli abatacci mal creati, tutto ci si poteva chiedere fuorchè uno sbocciare anticipato del cuore, un germinare precoce degli affetti e dei sentimenti. In Siberia non fioriscono le rose: si figuri le palme!
Tuttavia il reverendo signor Rettore, nei mesi di estate, allargava la manica con noi piccini. Il sabato sera ci faceva venire tutti nella sua cameretta, ci trattava a gelati e ci raccontava innocenti storielle di fate. I gelati ci parevano buoni e le storie bellissime, tanto più che il festino coincideva spesso con le ore di studio. In quel tempo io accettava con riconoscenza le untuose blandizie del reverendo Rettore; ma quando coi primi peli mi spuntò la malizia, pensai che quelle smorfie dolciastre avessero un perchè, e sospettai si cercasse l’affezione dei piccini per dominarli poi da grandi. Povero Rettore, come sbagliò i suoi conti!
Ella deve sapere che il reverendo si dilettava di fisica e, mi dicono, con buona riuscita. La sua cameretta era quindi ingombra di macchine d’ogni sorta, mostruosità rigide, problemi d’acciaio e di ottone, enigmi che c’inspiravano una venerazione paurosa. Gli stereoscopi, tuttavia, e le lanterne magiche c’inspiravano migliori sentimenti; preferivamo il caleidoscopio alla pila. Ritta in un angolo buio, con un gran mantello nero addosso, stava sempre la macchina fotografica come uno spettro immobile che ci sorvegliasse. Il Rettore infatti s’ingegnava con quella macchina, che allora, da noi, era una novità, e spesso ci regalava le prove mal riuscite.
Sul camino erano ammucchiate le prove fotografiche con altre fotografie venute di fuori, e noi passavamo spesso in rivista quei fogli e quei cartoncini col permesso del Rettore. Una sera mi capitò in mano un ritratto, in formato piccino, e dietro c’era stampato Venezia e l’indirizzo del fotografo. Non era della fabbrica del reverendo, e rappresentava una giovinetta in piedi, appoggiata ad una colonnina, coi capelli chiari che dovevano essere biondi e con quel sorriso interrotto dalla paura di muoversi che imbruttisce gli uomini, ma spesso giova alle donne. Naturalmente allora non sapevo chi fosse, ma in seguito, dopo molto cercare, lo seppi.
Il ritrattino mi piaceva assai e, quando s’andava dal Rettore, lo cercavo subito per tornare a vederlo. In principio non potrei dire altro che mi piaceva, ma a poco a poco mi abituai a fare quasi astrazione dal ritratto ed a pensare all’originale. Quel sorriso, un po’ stentato ma pur sempre grazioso, mi pareva diretto proprio a me; e se qualche mio compagno guardava anch’egli al ritratto, provavo subito un certo senso di dispetto, una stizza che chiudevo dentro solo per sforzo di riflessione. Ho capito poi che quel brutto sentimento era gelosia, perchè me lo sono sentito nel cuore altre volte purtroppo; ed ho capito che dovevo essere già innamorato, perchè, com’Ella sa, la gelosia vien dopo all’amore. Infatti, se Ella se ne ricorda.... ma lasciamo andare.
Ero proprio innamorato, benchè allora non sapessi che nome dare a questi miei nuovi sentimenti, e pensavo tutta la settimana al benedetto sabato in cui avrei visto, come direbbe il Metastasio, il caro oggetto. Cominciavo a lavorare di fantasia, a fabbricare castelli in aria, ultimi atti di commedie alla Scribe, allorchè m’avvidi che tra me ed il caro oggetto era prossima la separazione. I gelati e i racconti di fate stavano per finire, ed io ci pensavo con una amaritudine che ricordo benissimo, perchè anche questa l’ho provata altre volte. Non c’era che una via di salute, il ratto. L’ultima sera m’avvicinai al camino con un batticuore terribile, e senza guardarmi attorno, con la risoluzione cieca di chi giuoca tutto il suo sopra una carta, presi il ritratto e me lo cacciai in tasca. Fu proprio un ratto, perchè, come Ella vede, lo rubai.
Lo rubai. È una brutta parola ma è la verità, e sono persuaso che se il Rettore m’avesse guardato in faccia con attenzione, se ne sarebbe accorto. Certo mi pareva di avere il delitto scritto in fronte, e quel maledetto batticuore non voleva cessare: anzi mi assordava e mi pareva che tutti lo dovessero sentire. Stentai a finire il gelato, e solo quando uscimmo di camera mi parve di respirar libero. Tenevo la mano ostinatamente in tasca e, di quando in quando, accarezzavo il cartoncino colle dita come si accarezza una persona viva. Nel tempo dello studio, con mille precauzioni, riuscii a rinvolgere il caro oggetto in un bel foglio di carta, e me lo misi sul petto, sulla carne nuda. La notte, con la testa sotto le lenzuola, lo baciai come un santo e mi addormentai tenendolo colle mani sul cuore. Chi potesse sapere i bei sogni di quella notte! Ma non me li ricordo più.
Sì, Signora, sono fanciullaggini, lo so. Ma è appunto tra le fanciullaggini che si desta il cuore, e vorrei sapere se il suo, quando si destò, abbia fatto meglio del mio. Tutti a questo mondo cominciamo così, o press’a poco. Non c’è che l’agave che fiorisca in un minuto secondo, e tutti gli altri fiori sbocciano adagio adagio, mentre l’agave fiorisce ogni cento anni pur troppo. Così, con queste fanciullaggini ho cominciato ed ho seguitato per molto tempo, e, veda, mi dolgo di non essere più fanciullone a quel modo. Con che intensità d’affetto amavo quel mio ritrattino! Che baci gli davo quando non mi vedeva nessuno! Per le vie guardavo le donne in faccia per vedere se somigliavano alla mia innamorata, ed a scuola, con la testa tra le mani e le dita nei capelli, mi immergevo in contemplazioni paradisiache, la cui dolcezza ineffabile mi mancò quando il senso pretese la sua parte dall’amore. Quelle meditazioni serafiche, pure da ogni contatto di realtà, erano veramente l’ideale dell’ideale e mi procuravano gioie vive, fantasie inebrianti e castighi durissimi, perchè naturalmente chi ci soffriva più di tutti era il povero cardinal Bellarmino. Imaginavo cavalcate, colloqui, viaggi, avventure, e mettevo la mia innamorata in tutte queste fantasmagorie e quasi la vedevo con gli occhi allucinati, come si vede in sogno. A casa mia avevo compitato il Nicolò de’ Lapi e mi ricordavo il bacio di Lamberto a Laudomia sull’inginocchiatoio, e me lo figuravo dato da me alla mia innamorata che mi sorrideva come nel ritratto. Quel bacio era allora per me il limite estremo dell’amore! Oh, beate fanciullaggini! Mi contentavo di un bacio imaginario e non facevo versi! Come si cambia, Signora mia!
Intanto io viveva contento in questo amore rudimentale per un ritratto cui la fantasia dava corpo. Diventai rustico, solitario, stravagante. Il mio cambiamento di carattere fu notato, e mi accorsi che l’abataccio villanzone cui la mia educazione era affidata, mi sorvegliava e mi spiava. S’accrebbe quindi la mia salvatichezza, e questo stato di ostilità contro tutti mi piaceva, perchè sostenuto come una prova d’amore. I castighi mi piovvero addosso ed io li accettai come martirio invidiabile, come sacrifici meritorii. Mi irrigidii contro la persecuzione, vissi in uno stato di ribellione muta, passiva, ostinata. L’abataccio disperava già di domare questa cocciuta perversità, quando un giorno, povero me! perdetti il ritratto!
M’ero addormentato con la cara imagine sulle labbra, e la mattina, nel serra serra del vestirmi in fretta sotto gli occhi grifagni dell’abataccio, non potei che nasconderla sotto alle lenzuola. In chiesa, dove s’andava subito dopo alzati, ebbi il rimorso di aver abbandonato così, e per la prima volta, il benedetto ritrattino. Quella mattina me la ricordo come se fossero passate poche ore soltanto. Era freddo, ed io avevo un nodo d’angoscia nel cuore. Nascosi la faccia tra le mani, e lì, in ginocchio, piansi disperatamente e pregai Dio (lo pregavo allora!), pregai Dio con tutta l’anima di restituirmi il ritratto nascosto, di non permettere che altri lo trovasse. Se fosse vero che le preghiere fatte col cuore e con la fede sforzino le porte del cielo, Dio avrebbe fatto un miracolo per me, tanta fu l’intensità della mia orazione. Ma quando uscimmo di chiesa corsi al mio letto.... era rifatto! Lo disfeci.... Nulla!
Perdetti l’appetito e il sonno. Feci due larghi pesti sotto gli occhi e diventai più rustico, più chiuso di prima. Piangevo spesso ed avevo sempre come una fitta al cuore. Ebbi la febbre e scesi all’infermeria, dove le cure e le distrazioni mi calmarono un poco. Il tempo fece il resto, ma la piaga di quel primo amore lasciò una cicatrice che, a toccarla, si risente. Alle volte, come l’amputato, mi dolgo dove non dovrebbe poter essere più il dolore, e spesso poi, quelle prime sensazioni, quei primi calori della mia vita affettiva, mi ritornano alla memoria con una vivacità che mi fa paura. Il mio primo amore, poveretto, non fu sepolto bene e ritorna spesso qui a domandarmi la pace dei morti.
Dico ritorna qui, perchè, quel ritratto, Signora, era il Suo.