Ben Hur/Libro Primo/Capitolo XIII
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Traduzione dall'inglese di Herbert Alexander St John Mildmay, Gastone Cavalieri (1900)
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CAPITOLO XIII.
Quella sera prima, del tramonto, alcune donne lavavano della biancheria, sull’ultimo gradino della scalinata che conduceva allo stagno di Siloam. Ognuna di esse era inginocchiata davanti ad un gran vaso di terra. Una ragazzina ai piedi della scala, forniva loro, dell’acqua, e riempiva l’anfore mentre cantava. La canzone era allegra, e, senza dubbio, allietava il loro lavoro. Di tanto in tanto esse si alzavano sulla punta dei piedi e guardavano su per l’altura di Ophel, ed attorno alla cima di quel che ora è il monte dell’Offesa, allora debolmente rischiarato dal sole morente. Mentre esse affaticavano le mani, strofinando e torcendo la biancheria nei bacini, due altre donne vennero a loro, ognuna con un’anfora vuota sulle spalle.
— «La pace sia con voi» — disse una delle nuove venute.
Le lavandaie tralasciarono il lavoro e si alzarono, asciugandosi le mani, e scambiando il saluto.
— «E’ quasi notte. — E’ ora di tralasciare». —
— «Non v’è fine al lavoro,» — fu la risposta. —
— «Ma v’è un’ora per riposare, e....» —
— «Per sentire ciò che vi può esser di nuovo — suggerì un’altra.
— «Che novità avete?» —
— «Come? non avete sentito nulla?» —
— «No». —
— «Dicono che sia nato Cristo,» — disse l’altra principiando a raccontare.
Era curioso il vedere i visi delle lavandaie illuminarsi per l’interesse; le anfore, in un attimo, furono tramutate in sedili per le proprietarie che sedettero in giro e si fecero attente. — «Cristo?» interruppero le ascoltratrici curiose.
— «Così dicono». —
— «Chi lo dice?» —
— «Tutti; è una voce comune». —
— «V’è almeno chi lo creda?» —
— «Ieri tre uomini attraversarono Cedron sulla via di Sheckem» — rispose l’oratrice cercando di dissipare l’incertezza. — «Ognuno di essi guidava un cammello d’un bianco candido e più grande di alcun altro mai visto in Gerusalemme». —
Gli occhi e le bocche delle donne si spalancarono.
Per provare com’erano grandi e ricchi gli uomini la narratrice continuò: — «Essi sedevano sotto a tende di seta, le fibbie delle loro selle erano d’oro, come la frangia delle loro briglie; i campanelli erano d’argento, e sembravano produrre col loro suono una vera armonia. Nessuno li conosceva. Uno di essi parlò e rivolse a tutti quelli che si trovavano sulla strada, anche alle donne ed ai fanciulli, questa domanda: — «dov’è colui ch’è nato Re degli Ebrei?» — Nessuno rispose, nessuno capì quello che volevano dire; così essi passarono oltre dicendo questa frase: — «Noi abbiamo visto la sua stella a levante, e siamo venuti ad adorarlo.» — Lasciarono la questione da decidere al Romano ch’era alla porta; e questi, certo sapiente non più dei semplici viandanti, la lasciò chiarire ad Erode.» —
— «Dove sono essi adesso?» —
— «Al Khan. Centinaia di persone sono già state a vederli e ve ne vanno ancora a centinaia.» —
— «Chi sono?» —
— «Nessuno lo sa. Si dice che siano Persiani, uomini sapienti i quali parlano colle stelle. — Profeti forse come Elia e Geremia.» —
— «Che cosa vogliono dire, dicendo Re degli Ebrei?» —
— «Intendono Cristo, e dicono ch’egli sia appena nato.» —
Una delle donne sorrise e riprese il suo lavoro dicendo:
— «Bene, dopo che l’avrò visto ci crederò.» —
Un’altra seguì il suo esempio: — «Bene, quando io lo vedrò far risuscitare un morto ci crederò.» —
Una terza disse calmamente: — «Egli è stato annunciato da molto tempo. Mi basterà vedergli risanare un lebbroso.» —
Esse si fermarono a discorrere finchè calò la notte, e, favorite dall’aria frizzante, si diressero verso casa.
A sera avanzata, sul principio della prima veglia, ebbe luogo nel palazzo del monte Sion un’assemblea di forse cinquanta persone, le quali non si riunivano mai se non per ordine d’Erode, e solo quando egli chiedeva di conoscere qualcheduno dei misteri più profondi della legge e della storia ebraica. Era insomma un’assemblea composta dei maestri dei collegi sacri, dei principali sacerdoti e dei dottori più conosciuti per fama nella città, dei capi dei differenti partiti, dei commentatori delle differenti credenze, principi dei Sadduce, oratori farisei, calmi e posati filosofi del Socialismo degli Esseni.
La camera dove si teneva l’adunanza apparteneva ad una delle corti interne del palazzo. Essa era abbastanza vasta e di stile romano. Il terreno era pavimentato in marmo; le pareti, senza finestre, erano dipinte a quadri color giallo zafferano; un divano ricoperto di cuscini gialli, formato in guisa da formare la lettera U, coll’insenatura rivolta alla porta, occupava il centro della camera. Nell’arco del divano, o per meglio dire nella curva della lettera, si trovava un’immenso tripode d’oro, curiosamente intarsiato d’oro e d’argento. Appeso a metà del soffitto, con sette braccia, ognuna delle quali portava una lampada accesa, v’era un gran lampadario trattenuto da una corda. Tanto il divano come la lampada erano di stile ebraico puro. La comitiva dai costumi uniformi, eccettuato nei colori, si accomodò sul divano secondo l’uso Orientale. Era composta in gran parte di uomini d’età avanzata; i loro visi erano coperti da folte barbe; avevano nasi larghi e grandi occhi neri, ombreggiati da folte ciglia; il loro portamento era grave, dignitoso, quasi patriarcale. In breve questa era l’adunanza del Sinedrio.
Quegli che sedeva davanti al tripode, nel posto che si può chiamare il centro del divano, avendo tanto a destra che a sinistra i suoi colleghi, evidentemente era il presidente dell’adunanza, e avrebbe subito attirata l’attenzione dello spettatore. Egli era di una complessione gigantesca, ma ridotto ad una magrezza spaventosa; dalla veste bianca, che gli scendeva dalle spalle formando profonde pieghe, non si scorgevano indizi di carne: non si vedeva null’altro che un orribile ed angoloso scheletro. Le sue mani, mezzo nascoste dalle maniche di seta rigata in bianco e rosso, erano appoggiate sulle ginocchia.
Mentre parlava alzava di quando in quando, tremando, il pollice della mano destra e sembrava incapace d’altri movimenti. La sua testa era calva e lucida; pochi capelli, d’un bianco argenteo, gli circondavano la nuca; le sue tempia erano profondamente incavate; profonde rughe gli solcavano la fronte sporgente; gli occhi avevano lo sguardo velato e smarrito; il naso era affilato; la parte inferiore del volto era coperta da una barba fluente e bianca come quella d’Aronne. Tale era Hillele il Babilone! Alla stirpe dei profeti, da lungo tempo estinti in Israele, succedettero molti dottori fra i quali egli primeggiava per saggezza, e assomigliava ad un profeta in tutto, meno che nella sua ispirazione divina. All’età di centosei anni, egli era ancora il Rabbino maggiore del Grande Collegio.
Sulla tavola davanti a lui era disteso un rotolo di pergamena, vergata in caratteri ebraici, e ritto, dietro a lui, stava un paggio riccamente vestito.
Una discussione aveva avuto luogo, ed ora ch’era finita, ciascuno stava in attitudine di riposo. Il venerando Hillele, senza muoversi, chiamò il paggio:
— «Vien qui.» —
Il giovane s’avanzò rispettosamente.
— «Va e di’ al Re che siamo pronti a dargli una risposta.» —
Il ragazzo ubbidì.
Poco dopo entrarono due ufficiali, e si fermarono ritti uno a ciascun lato della porta. Li seguiva lentamente un personaggio strano: un vecchio avvolto in un abito di porpora, orlato di scarlatto, stretto alla vita da una fascia d’oro, sottile e pieghevole come pelle; le fibbie delle sue scarpe luccicavano di pietre preziose, una stretta corona di filigrana splendeva da una tarbooshe della più soffice felpa cremisi, che, avvolgendogli la testa, gli scendeva sulle spalle e sulla nuca, lasciando scoperti la gola ed il collo. Un pugnale pendeva al suo fianco. Camminava con passo titubante appoggiandosi con tutto il suo peso ad un bastone. Raggiunto il divano si fermò ed alzò gli occhi da terra: accorgendosi solo allora della compagnia, vivamente eccitato dalla presenza d’essa, si alzò volgendo lo sguardo altero, tetro, sospettoso e minaccioso, come di persona spaventata ed in cerca d’un nemico.
Tale era Erode il Grande, una persona avvilita dalle orribili malattie, una coscienza macchiata di delitti, una mente intelligentissima, un’anima gemella a quella di Cesare: aveva sessantatre anni, ma custodiva con gelosa vigilanza il suo trono, spadroneggiando con potenza assoluta e inesorabile crudeltà.
Vi fu un’agitazione generale nell’assemblea; i più vecchi si inchinavano riverenti, i più nobili si alzavano, o s’inginocchiavano colle braccia sul petto.
Dopo aver osservato intorno a sé, Erode s’avanzò sino al tripode dirimpetto al venerabile Hillele che incontrò il suo freddo sguardo abbassando la testa ed alzando le mani.
— «La risposta» — disse il Re, con aria altera, rivolgendosi a Hillele, e, piantandoglisi davanti col suo bastone, ripetè: — «La risposta!» —
Gli occhi del patriarca, splendevano dolcemente: egli rispose alzando la testa e fissando l’inquisitore, mentre i suoi colleghi gli prestavano una speciale attenzione:
— «La pace del Signore, d’Abramo, d’Isacco e di Giacobbe sia teco, o Re!» —
Dal tono della voce sembrava che invocasse qualcheduno, poi, avendo cambiato tono, continuò:
— «Tu ci hai chiesto dove si suppone sia per nascere Cristo.» —
Il Re fece un segno d’approvazione, sebbene i suoi occhi malvagi restassero fìssi sul saggio: — «Questa è la domanda» — disse.
— «Allora, o Re, io parlo per me e pei miei fratelli qui presenti, e dico: — «in Betlemme, nella Giudea.» —
Hillele diede un’occhiata alla pergamena sul tripode, e facendo cenno col suo dito tremulo, continuò. — «In Betlemme nella Giudea, com’è scritto dal profeta: «E tu, Betlemme nella terra di Giudea, non sei affatto l’ultima fra le terre di Giuda perchè da te uscirà un governatore che saprà dominar il mio popolo Israele.» —
Il viso d’Erode si rannuvolò, e mentre pensava i suoi occhi si posarono sulla pergamena. I presenti non respiravano nemmeno, ed erano silenziosi come lui. Finalmente egli si volse e lasciò la camera.
— «Fratelli» — Hillele disse — «abbiamo terminato.» —
La compagnia si alzò e partì in gruppi.
— «Simeone» — chiamò Hillele.
Un uomo, sulla cinquantina, ma ancora nel fior della vitalità, gli rispose e si diresse verso di lui che soggiunse:
— «Prendi la sacra pergamena, figlio mio, ed arrotolala accuratamente:» —
L’ordine fu eseguito.
— «Offrimi il tuo braccio; monterò in lettiga.» —
L’uomo robusto s’inchinò; il vecchio accettò l’aiuto offertogli, e si diresse con fatica alla porta.
Così se ne andarono il famoso Rabbino e Simeone, suo figlio, il quale doveva essere il suo successore in saggezza e sapienza.
I re magi si trovavano ancora svegli a sera avanzata sotto un’arcata del Khan. Le pietre che servivano loro da giacigli erano alte in modo ch’essi potevano guardare, attraverso l’arco della finestra, l’immensità del cielo. Mentre ammiravano le stelle scintillanti, pensavano alla prossima Rivelazione.
Cosa accadrebbe? Si trovavano alfine in Gerusalemme; alla porta avevano chiesto di Colui che cercavano; avevano annunziata la sua nascita; ora non restava loro che di trovarlo. Colla speranza di riuscire s’affidarono allo Spirito, ed in attesa d’udire la voce di Dio od un segno dal cielo, non potevano prender sonno.
Mentre si trovavano così agitati e commossi, un uomo s’avanzò:
— «Svegliatevi» — disse loro, — «vi porto un messaggio che non può essere protratto.» —
I tre si alzarono.
— «Per parte di chi?» — domandò l’Egiziano.
— «Di Erode, il Re.» —
Ognuno si sentì correre un fremito nelle ossa.
— «Siete forse il custode del Khan?» — chiese Balthasar.
— «Sì.» —
— «Cosa desidera il Re?» —
— «Il messaggero aspetta; egli vi risponderà.» —
— «Allora ditegli d’attenderci.» —
— «Voi avevate detto il giusto, buoni fratelli!» — soggiunse il Greco dopo che il custode se ne fu andato.
— «La domanda che fu diretta ai viandanti ed alle guardie alla porta, ci ha resi oggetto di curiosità. Io sono impaziente; facciamo presto.» —
Si alzarono; calzarono i loro sandali, si misero i mantelli e s’avviarono.
— «Vi saluto; la pace sia con voi, e scusatemi; il mio padrone, il Re, mi ha mandato ad invitarvi al palazzo, dove egli desidera parlarvi segretamente.» —
Così il messaggero adempì il suo dovere.
Essi si guardarono a vicenda, alla luce d’una lampada appesa nell’entrata, e s’accorsero che lo Spirito era con loro.
L’Egiziano si diresse verso il custode, e disse piano, in modo da non essere udito dagli altri: — «Voi sapete in che posto si trova la nostra roba nella corte, e dove riposano i nostri cammelli. Preparate, durante la nostra assenza, tutto l’occorrente per la nostra partenza se essa sarà necessaria.» —
— «Potete andarvene sicuri; fidate in me,» — rispose il custode.
— «La volontà del Re è la nostra» — disse Bathasar al messaggero. — «Noi vi seguiremo.» —
Le strade della città santa erano strette come lo sono ora, ma non così neglette e sudicie; perchè Erode non soddisfatto dalla sola bellezza, voleva pulizia e comodità.
Guidati dalla luce pallida delle stelle essi ascesero lentamente la collina. Giunsero, finalmente, ad una porta innalzata nel mezzo della strada. Alla luce dei fuochi che ardevano in due gran bracieri, intravvidero la struttura dell’edificio, e le guardie che s’appoggiavano ai lati della porta.
Entrarono nell’edificio senza che la sentinella li fermasse; attraversarono passaggi, porte e cortili, alcuni in piena oscurità; salirono molte scale, passarono per innumerevoli corridoi e per infinite camere, e furono condotti ad una torre d’una immensa altezza. Ad un tratto la guida si fermò, ed additando una porta aperta, disse loro:
— «Entrate. Il Re è là.» —
L’aria della camera era impregnata dal profumo del legno di sandalo, e tutto all’intorno era ordinato e disposto riccamente.
Un tappeto era disteso nel bel mezzo del pavimento, e, sopra al tappeto, era collocato un trono. I visitatori ebbero solo il tempo di ricevere una confusa idea del luogo, di un’insieme di ottomane e di letti intarsiati e dorati, di ventagli, di vasi, di strumenti musicali, di candele d’oro brillanti di luce intensa; di mura dipinte nello stile della voluttuosa scuola Greca, un solo sguardo alle quali avrebbe fatto nascondere con sacro orrore la testa ad un Fariseo. Erode ch’era seduto sul trono per riceverli, vestito come alla conferenza coi dottori e coi sacerdoti, richiamò tutta la loro attenzione.
Essi s’avanzarono e s’inginocchiarono, senza essere invitati, sull’orlo del tappeto. Il Re toccò un campanello.
Un servitore entrò e posò tre sgabelli davanti al trono.
— «Sedetevi» — disse il monarca, benignamente.
— «Dalla porta del Nord» — egli continuò quando essi si furono accomodati — «ho avuto in questo pomeriggio l’avviso dell’arrivo di tre stranieri, curiosamente vestiti come se fossero provenienti da lontani paesi. Siete voi?» —
L’Egiziano, dopo di aver rivolto un’occhiata al Greco ed all’Indiano, rispose facendo una profonda riverenza:
— «Di certo se noi non fossimo quegli stranieri, il potente Erode, la cui fama corre pel mondo intero, non ci avrebbe fatti chiamare.» —
Erode approvò con un cenno della mano.
— «Chi siete, donde venite?» — domandò, ed aggiunse in tono espressivo: — «Lasciate che ognuno parli di se stesso.» —
Essi si spiegarono, alludendo brevemente alle città, ai loro paesi nativi ed alla strada percorsa sino a Gerusalemme. Non soddisfatto, Erode aggiunse:
— «Cosa domandaste all’ufficiale che si trovava alla porta?» —
— «Gli domandammo dov’è colui ch’è nato Re degli Ebrei.» —
— «Comprendo ora perchè il popolo era così curioso. Voi mi meravigliate. C’è un’altro Re degli Ebrei?» —
L’Egiziano non impallidì:
— «Ce n’è uno appena nato.» —
Il viso scuro del monarca assunse un’espressione di dolore come s’egli si rammentasse d’un episodio straziante.
— «Non a me, non a me» — esclamò.
Forse gli passavano davanti le immagini accusatrici dei figli uccisi; riavendosi dall’emozione chiese con voce ferma: — «Dov’è il nuovo Re?» —
— «Questo, o Re, è ciò che desideriamo sapere.» —
— «Voi mi dite di un miracolo — un enigma di molto superiore a quello di Salomone» — disse poi: — «Come vedete, sono in quel periodo di vita in cui la curiosità è sfrenata come lo è nell’infanzia, allorchè lo scherzare con essa è crudeltà. Proseguite, ed io vi rispetterò come i Re si rispettano l’un l’altro. Ditemi tutto ciò che sapete del nuovo Re, ed io mi unirò a voi nel cercarlo; e quando l’avremo trovato, farò ciò che vorrete; lo porterò a Gerusalemme e l’alleverò nella reggia; adoprerò la mia grazia con Cesare per la sua promozione e la sua gloria. La gelosia non albergherà fra noi, ve lo giuro. Ma prima ditemi come, separati sì ampiamente da mari e deserti, sieti arrivati ad udire parlare di lui.» —
— «Ve lo diremo sinceramente, o Re.» —
— «Parlate.» — disse Erode.
Balthasar si alzò in piedi, e disse dolcemente:
— «V’è un Dio Onnipotente.» —
Erode si scosse in modo impercettibile.
— «Egli ci disse di venire in qua, assicurandoci che avremmo trovato il Redentore del mondo; che l’avremmo veduto ed adorato, di prestar fede ch’Egli era venuto; e, come segnale, ognuno di noi doveva vedere una stella. Il suo Spirito rimase con noi, o Re, il suo Spirito è con noi anche adesso!» —
Una commozione irresistibile, opprimente, s’impossessò dei tre. Il Greco a stento represse un grido. L’occhio di Erode si fissò rapidamente dall’uno all’altro; egli era più sospettoso e scontento di prima.
— «Credo che voi mi canzoniate» — egli disse — «ma, se non è, continuate. Che cosa produrrà la venuta del nuovo Re?» —
— «La salvezza degli uomini.» —
— «Da che cosa?» —
— «Dalla loro malvagità.» —
— «Come?» —
— «Per mezzo delle azioni divine — l’Amore, la Fede, e le opere Buone.» —
— «Allora» — Erode si fermò, e nel suo sguardo nessun uomo avrebbe potuto leggere quale sentimento spirasse — «voi siete gli araldi di Cristo. E’ questo tutto?» —
Balthasar s’inchinò lentamente:
— «Noi siamo i vostri servi, o Re.» —
Il monarca toccò un campanello, e l’inserviente apparve.
— «Portate i regali» — gli disse.
L’inserviente uscì, ma ritornò poco dopo, ed inginocchiandosi innanzi agli ospiti, diede a ciascheduno un manto azzurro e rosso scarlatto, e una cintura d’oro. Essi espressero la loro gratitudine con inchini all’orientale.
— «Ancora una parola» — disse Erode allorchè la cerimonia finì. — «All’ufficiale della porta, e poc’anzi innanzi a me, voi parlaste d’aver veduto uno stella nell’Oriente.» —
— «Sì» — disse Balthasar — «la sua stella, la stella del neonato.»
— «Quando vi apparve?» —
— «Quando fummo comandati di venire qua.» —
Erode si alzò, significando che l’udienza era finita. Scendendo dal trono verso di loro, disse con grande amabilità:
— «Se, come credo, o uomini illustri, voi siete gli araldi di Cristo appena nato, sappiate che ho consultato coloro che sono i più sapienti riguardo alle cose ebraiche, ed essi dissero concordi che dovrebbe essere nato nella Betlemme di Giudea, lo vi dico: — «Andate oltre, andate e cercate diligentemente il giovane bimbo; e quando l’avrete trovato, avvisatemi, affinchè io possa venire ad adorarlo. Che il vostro tragitto non venga disturbato da alcun ostacolo. Pace sia con voi!» — E avvoltosi nel suo manto lasciò la stanza.
La guida li diresse verso la strada, e poscia al Khan, alla porta del quale il Greco disse:
— «Andiamo a Betlemme, o fratelli, come ci consigliò il Re.» —
— «Sì» — gridò l’Indiano — «lo Spirito ci protegge.» —
— «Così sia» — disse Balthasar, con egual ardore. — «I cammelli sono pronti.» —
Essi diedero dei regali al castaldo, montarono in sella, richiesero le indicazioni per andare alla Porta di Joppa, e partirono. Al loro arrivo le grandi porte erano socchiuse ed essi entrarono in aperta campagna, prendendo la via ultimamente fatta da Giuseppe e Maria. Mentre si avanzavano sulla pianura di Rephaim, apparve una luce dapprima debole e lontana. I loro cuori battevano forte. La luce si faceva rapidamente più intensa; essi chiusero gli occhi allo splendore ardente; quando si azzardarono a guardare nuovamente, ecco che la stella, bella come nessun’altra nel cielo, si abbassò, e, lentamente, si avvicinò a loro. Essi giunsero le loro mani, e gridarono, godendo di una gioia immensa:
— «Iddio è con noi! Iddio è con noi!» — e così ripeterono per tutta la via, finchè la stella, innalzatasi sulla valle, al di là del Mar Elias, ristette ancora al di sopra d’una casa, sulla cima della collina, vicino alla città.