Canto XV

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Canto XIV Canto XVI

 
Il fosco carro suo la notte avea
dal mezzo del cammin poco disgiunto
quando il chiuso dolor che ’l sen premea
il Britannico re desta in un punto.
Scuotegli il cor la tema, e gli parea,
quale il passato dì, che fusse giunto
il fero Seguran con nuova possa
per gli argini spianar dell’altra fossa.

Del letto in cui giacea ratto discende
che gli sembra vicin vedere il giorno;
l’antica spoglia poi, ch’appresso pende,
d’un feroce leon si cinge intorno.
Ponsi il cappello in testa, ed in man prende
il gemmato suo scettro e d’oro adorno,
però che armato il collo e le due braccia
del ferro avea, che mai non spoglia o slaccia.

Come del padiglion trae fuor la testa
il sospetto del dì subito sgombra,
che ’l Vulture cadente il manifesta
che del meridiano il calle ingombra.
Volge la vista poi dubbiosa e mesta
a’ molti fuochi che vincevan l’ombra
di quei d’Avarco, e rimanea dolente
di veder sì vicina e sì gran gente.

Indi tosto a chiamar manda Gaveno,
che di tutti all’albergo era il più presso,
che ratto appar di meraviglia pieno,
come del pio signore ascolta il messo,
senza il suo manto avere e sciolto il seno,
che di nuovo accidente il campo oppresso,
miser, temea più d’altro, e con ragione,
poi che di tal miseria era cagione;

e gli dice: “Alto re, qual nuova cura
del riposo miglior così vi priva?
Or non sapete ben che poco dura
di quel la vita che del sonno è schiva,
né mai si ritrovò l’alma natura
mantener senza lui persona viva?
E sendo il ben di tanti posto in voi,
non devreste sprezzar gli ordini suoi”.

“Non son”, disse il buon re, “caro nipote
atti a giungersi in un l’arme e ’l riposo,
che l’un dell’altro ogni migliore scuote,
e sospinge il compagno in loco odioso:
e tanto più se le celesti rote
hanno il benigno lume altrui nascoso,
come al presente a me, che sempre omai
ho carco il sen di dolorosi guai.

Ma d’altro è la stagion che di tai detti;
però gite all’intorno, e quetamente
Tristan chiamate e gli altri duci eletti,
che lassando gli alberghi immantenente
vengan senz’arme taciti e soletti,
non rompendo il ristoro all’altra gente,
al loco ove la guardie assise stanno,
ch’ivi attendendo lor mi troverranno”.

Partesi allor Gaveno, e ’l re sovrano
con poca compagnia s’addrizza a piede
ove il re Lago sta poco lontano,
ma quasi aggiunto alla pretoria sede.
Nell’albergo entra, e ben ch’accorto e piano
le secche arene con la pianta fiede,
tosto svegliato l’Orcado domanda:
“Chi sei tu ch’entri quinci, e chi ti manda?

Or rispondimi tosto, e ferma il passo,
che non viene ov’io son chi ’l nome tace:
se non che resterai di vita casso
dal mio brando fedel che presso giace”:
risponde Arturo allora: “Io son quel lasso
britanno re ch’alla fortuna spiace
già son più giorni, e ’n così acerba sorte
che senza suo disnor brama la morte”.

Quando conosce il re, su ’l duro letto
appoggiato l’un braccio alza la fronte
dicendo: “O sacro Arturo in terra eletto
per imprese onorate, altere e conte,
chi vi scorge in tal loco e sì soletto
quando son più la dormir le luci pronte?
Voi siete d’adamante, il qual non ponno
domar fame, lassezza, sete o sonno.

E quale alta cagion qui vi conduce
allor che riposar devreste alquanto,
per tornar poi nella novella luce
più forte a vendicar de’ nostri il pianto?
Non potevate almen qualch’altro duce
mandar d’intorno, e voi quetare intanto?
Ché ’l tutto oprar da sé non si conviene,
ma vie più il comandar, chi scettro tiene”.

“Ben gli risponde Arturo è certo e vero,
onorato mio padre, il vostro dire:
ma nel tempo, qual or, contrario e fero
fuor dell’uso comune è forza gire,
né solo esercitar di re l’impero,
ma piegarse umilmente ed ubbidire
al minimo guerrier, per fare strada
a chi poi dietro a lui più lieto vada”.

Mentre così dicea, già fuor del letto
era uscito il buon vecchio, e si cingea
di drappo porporin gli omeri e ’l petto,
che non molto oltr’al busto gli pendea;
poscia in abito acconcia, ch’alto e stretto
per l’arme sostener pronta tenea,
grossa pelle vestia di cerva annosa,
ove senza impiagar l’incarco posa.

La splendente corazza e l’elmo fino
che non cedendo a gli anni ancora adopra,
però che sempre in loco a lui vicino
veder gli vuole, a lui pendevan sopra
tra la lancia e lo scudo, che Merlino
gli fé già fabbricar con divin’opra;
ma per voler del re gli lassa allora,
perch’altro uso chiedea la notturn’ora;

e gli dice: “Moviam, che ’l tempo sprona
a gire ove le guardie hanno la sede
per ricercar s’al sonno s’abbandona
di loro alcun ch’alla lassezza cede;
e ’n cammin chiamaremo ogni persona
di maggior sangue, e ch’al consiglio assiede,
per ragionar di noi quel ch’al dì fia,
e del campo di là cercare spia”.

Gli consente il re Lago, e cinge solo
il brando, e picciola asta ha presa in mano;
poi perché pur raffredda il fosco polo,
d’aspro lupo s’avvolge il vello estrano.
Indi per Maligante il primo volo
drizzano insieme, ch’era prossimano;
giunti all’albergo suo, l’Orcado chiama:
“O di Gorre guerrier d’altera fama,

volete voi passar nell’ozio l’ore
che spender si devrieno in miglior uso?”
Tosto il buon cavalier sente il romore,
e fuor del padiglion corre confuso;
come scorge ambedue, con umil core
dice: “O sacrati re, troppo m’accuso
ch’or mi troviate pigro e neghittoso,
come lepretta vil nel nido ascoso.

Ma quale alta cagione a noi vi spinge?
Forse altero pensier di nuova impresa?
O pur che Seguran le schiere accinge
per muover verso noi notturna offesa?”
Risponde Arturo a lui: “L’alma ne stringe
nuovo timor che la fortuna, intesa
del tutto al nostro mal, non ci ritruovi,
senza ben provveder, con danni nuovi.

Così svegliando andiam quei cavalieri
in cui fondate aviam nostre speranze;
e Gaven va calcando altri sentieri
perché Tristano il suo venire avanze
là dove per guardar locò i guerrieri
lì fuor del vallo in più secrete stanze,
sotto gli occhi de’ quai dell’altre torme
ogni duce maggior securo dorme”.

Tosto ritorna allor dentro all’albergo
e sol prende il suo scudo Maligante;
e per non s’impedir, l’adatta al tergo,
ché di maglia coverto era davante;
e col suo brando sol seguìa da tergo
l’alta coppia real ch’andava innante.
Né molto così van, che ’n su le porte
delle tende ch’avea truovan Boorte,

che nell’aperto ciel sovra la pelle
stese ha le membra di salvatic’orso,
ove il triste vapor d’uimide stelle
o di rigido giel non cura il morso.
d’arme coperto ancor lucide e belle,
per aver più spedito ogni soccorso,
sopra lo scudo suo la fronte avea,
a cui posto vicin l’elmo lucea.

Lì da gli ornati legni in giro appese
mille aste si vedean di varia sorte,
di piede e di cavallo atte all’offese,
che dell’uno e dell’altro aveva scorte.
La lancia è in mezzo ch’a più altere imprese
sopra il più gran destrier porta Boorte:
la qual crolla oltr’a lui null’altra mano
fuor che di Lancilotto e di Tristano.

Molti suoi parimente intorno stanno
in militare usanza stesi a terra,
che ristorando il lor passato affanno
prendon fresco vigor per nuova guerra.
I tre famosi re vicin gli vanno,
né gli scioglie il gran sonno che gli atterra;
onde il re Lago alla vellosa sede
il franco cavalier sveglia col piede,

lieto dicendo a lui: “Come or dormite,
o rettor famosissimo di Gave,
mentre così vicino e ’ntorno udite
de i nemici accampati il romor grave?
Svegliate i sensi, e col gran re venite
ove a trattar d’alta meteria s’ave:
né v’incresca il lassar le molli piume,
dapoi che ’l nuovo sol raccende il lume”.

Alla percossa e ’l dir tutto turbato
l’onorato guerrier dal sonno sorge
ed al brando fedel, ch’avea dal lato,
in atto di ferir la destra porge;
poscia in dolce vergogna rivoltato,
tosto che ’l re co i due compagni scorge,
del subito furor, quanto più puote
scusando l’error suo, la colpa scuote,

e dice: “Ei mi parea che Segurano
assalisse improvisti i nostri fossi,
sì ch’ogn’altro soccorso era lontano,
ond’io soletto alla difesa fossi.
Però non sia miracol se la mano,
spaventato al chiamar, nell’arme mossi,
che, come sempre desto, così in sogno
col medesmo pensier l’istesso agogno.

Ma per quel che mi sembra, non si mostra
del giorno anco vicin segno apparire,
quantunque io so che la pigrizia nostra
mal si possa scusar, non che coprire,
sendo già in piè l’alta persona vostra
per far gli altri peggior del nido uscire:
tal che non più ne supera d’onore
che poi di vigilanza e di valore”.

“Ah - risponde il re Lago - io v’assicuro
che qualor vi vedrà sotto a tal tetto
stellato in oro e di cristallo puro,
nudo in tal guisa e ’n così dolce letto,
che vi perdonerà l’eccelso Arturo,
né di cor femminil v’arà sospetto”.
Et ei dolce ascoltando, appella i suoi,
già desti all’arrivar de i grandi eroi.

Arma la testa poi di duro acciaro,
ma di quel più leggier ch’a piede adopre;
poi dell’irsuto vello, ch’è il più caro
vestimento ch’ei porte, si ricuopre
d’un orso alpestre, già stimato al paro
d’ogni fero leone in core e in opre,
che già i Norici monti assai lunghi anni
tenne in aspra temenza e ’n gravi danni:

e che molti guerrier d’alto ardimento
che ’l volsero assalir condusse a morte;
per la fama del qual, chiaro talento
di volerlo provar venne a Boorte,
né di seco luttare ebbe spavento,
fin che si ritrovò di lui più forte:
ch’oltra ogni altrui credenza il pose a terra,
poi, ferendolo al cor, finìo la guerra.

Né vestì mai da poi più ricco arnese
da quel giorno ch’ei l’ebbe; il qual cingea
con lacci aurati, onde gli fu cortese
il buono Efeo che ’l Norico reggea;
poi per fare alle genti più palese
quanto il servigio in grado si prendea
di melle aste gli fece oltra quei dono,
che durissime e lunghe ivi entro sono.

Or di sì altera spoglia ricoperto
prende lo scudo solo oltre alla spada.
Già son venuti dove al campo aperto
il riparo novel taglia la strada:
l’accorto Bandegam dell’arte esperto
truovan ch’al fosco cielo intento bada
a dar fine al lavor cui Maligante
avea dato principio il giorno avante;

e col popolo agreste, ch’è infinito,
di legni e di terren ricinto ha intorno,
ove i carri pria fur, tutto quel lito,
e di picciole torri in cerchio adorno,
in cui stia degli arcier lo stuol partito
per securo ferir l’avverso corno,
che nel fosso scendendo, dalle spalle
senta di mille strali offeso il calle.

Quando vede il gran re che in sì poch’ore
tal sia fatto de’ suoi saldo sostegno,
volto al buon Maligante:”Il sommo onore
- dice - accende più d’un nel vostro regno.
Ben di voi sa seguir l’alto valore
il pio vostro german, né mica indegno
d’esservi tale: e l’opre sue leggiadre
del nome degno il fan ch’aveva il padre”.

In tai parole, intorno a Bandegamo
con amoroso cor le braccia stende;
ed egli allora: “Ogni fatica chiamo
ben locata - signor - che ’n voi si spende,
poi che ’l prezzo maggior ch’al mondo bramo,
la vostra alta mercede, a noi si rende,
ornandone voi qui di tante lode,
onde un’alma gentil più d’altro gode”.

Poscia i fossi varcando, ha ritrovato
il famoso Tristan che in cerchio gira,
se le guardie ben son nel dritto lato
e secondo il dever s’ascolta e mira;
e ch’accusando l’un l’altro ha lodato
e sopra i peccator versata l’ira:
che quanti può veder che ’l sonno cuopra
ch’ei non si destin mai col brando adopra.

Quando sorge il gran re che ’l pio Tristano
che tanto s’affannò l’andato giorno
avea senza posar gli occhi e la mano
al duro faticar fatto ritorno,
comincia: “O cavalier di sovrumano
senno, amore e valore e forza adorno,
ovunque io fermi il passo, ovunque io vada
vi ritruovo d’onor calcar la strada.

Quai parole potrei, quali opre usare
per lodare e pagar tai merti a pieno?
Che converrebbe in voi tutti spiegare
i tesori e gli onor ch’ha Giove in seno;
e poi ch’altro per uom non si può fare,
accettate il buon cor di desio pieno
di non esservi ingrato, e porvi in parte
ch’a voi fossero eguali Apollo e Marte”.

Gli risponde Tristan: “Null’altro voglio,
sagratissimo re, ch’esservi caro
e servirvi ad ogni or non men ch’io soglio,
di cui più che di viver sono avaro;
ma del mio non poter troppo mi doglio
trarvi in un punto dell’assedio amaro,
e che ’l giusto bramare al fin non vegna
di portare sovra ogni uom la vostra insegna.

Or io, per ragionar di quel che preme
più nell’ora presente, loderei,
per più aperto mostrar che non si teme
nè vogliam soggiacere a i casi rei,
ch’io solo andassi, o con un altro insieme,
in poca compagnia d’alcun de’ miei,
assalire i nemici alla fosc’ombra,
or che ’l sonno tra ’l vin gli lega e ’ngombra;

e di lor penserei sì larga palma
ben tosto riportar, che quasi fora
de i ricevuti danni egual la salma,
ch’or di peso maggior fra noi dimora:
ché di gente infinita saria l’alma
dalle indomite membra uscita fuora,
e le schiere svegliate in fuga messe
pria che d’arme il romor sonato avesse”.

Il britannico re con lieto volto
risponde: “E chi potria sì chiara impresa
se non con alto dire onorar molto
come d’invitto cor, qual è discesa?
Ma in noturni perigli udire involto
ogni sostegno mio troppo mi pesa,
perch’ogni altro soccorso avrei per vano
se mi furasse il fato il mio Tristano.

Però per quello amor che mi mostrate,
e che col raro oprare apetro veggio,
che l’ardente vostr’animo tempriate,
ove l’uopo è minore, in grazia chieggio:
e che tal alma al rischio riserviate
ove il nostro morir si mostri, o peggio;
né si creda alla notte e gli error suoi
quello invitto guerrier che sète voi”.

Segue il saggio parlar con dolce amore
il sacro re dell’Orcadi, e gli dice:
“Veramente il fidar sì gran valore
all’orror tenebroso si disdice:
quando ne mostra il dì luce maggiore
e più ralluma il sol questa pendice
e che ’l mezzo cammin fra noi ricopre,
spiegar sol di Tristan si devon l’opre.

Vero è che a gran ragion fatto saria,
per le cagion ch’ei disse, e per avere
de i consigli nemici alcuna spia
del modo e del cammin ch’hanno a tenere,
se di espugnarne ancor cercheran via
o di così l’assedio mantenere
ristringendo di noi le forze e ’l corso,
fin ch’egli aggiano altronde altro soccorso.

Ma deve in tale affare essere eletto
chi non fosse fra noi di sì gran danno,
di piè snello e leggier, di forte petto
da soffrir senza pena il molto affanno,
di core alto e sicuro: che ’l sospetto
e ’l timor di morir sovente fanno
cose apparire altrui mostrose e fere
men che oscuri fantasmi o sogni vere”.

Al ragionar del vecchio, Maligante,
che di quanto ei disegna era fornito,
il passo sciolto aveva, il corpo aitante,
fermo e saggio il pensiero, il core ardito,
esperto del cammin, che ’ndietro e innante
mille volte ha calcato il proprio lito,
dice: “A quanto raccoglio, io son quell’io
ch’a tale opra compir sarà il men rio:

che quando pur di me fortuna avversa
il già mai ritornar contenda a voi
sopra me solo il danno si riversa,
che molti altri ci sono eguali a noi;
e la schiera ch’io meno fia conversa
in seguir Bandegamo e gli altri suoi,
e congiunta con lui concorde fia
di Cicestra la gente e di Rossìa.

E s’io non porto a quei danno e disnore
ed a voi qui di lor novelle certe,
sia tenuto oscurato il nostro onore
e le parole mie menzogne aperte.
Il vero è ben che ’n solitario orrore
e per vie perigliose avvolte e ’ncerte
non porria lungo far né chiaro il volo,
come faria mestier chi fusse solo.

Però, s’a voi parrà, qualch’altro meco
di quei che più vorran vegna all’impresa,
che sia invece di scorta all’andar cieco
e nell’arme adoprar salda difesa;
poi il ragionare e ’l consigliarsi seco,
o nel ritrarre il piede o in fare offesa,
mentre ch’aiuta l’un, l’altro conforta,
la vittoria o lo scampo spesso apporta”.

Mentre con liete voci Arturo appruova
e l’offerta onorata in grado prende,
giunta è già con Gaven la schiera nuova
di molti cavalier che questo intende,
e ciascun de’ miglior si mette in pruova
d’esser esso il compagno, e in esso spende
larghe preghiere al re con caro affetto
in così degna impresa essere eletto.

Fu Boorte il primier, poscia Gaveno,
il buon Nestor di Gave e Lionello,
il cavalier Norgallo, il pio Baveno,
Eretto, Gargantino e Florio, quello
che del tosco Arno suo già nato in seno
del gotico furor fatto rubello
per così lungo mar co’ suoi venuto
del britannico stuolo era in aiuto.

Né men vuol Gossemante, il core ardito,
come Lucano il Brutto ed Agrevallo;
Ivano ed Abondan di voglia unito
il medesmo domanda, e Persevallo.
Così quindici son che sovra il lito
ove le guardie stan di fuori al vallo
cercan con ogni sforzo e in ogni via
d’esser di Maligante compagnia.

Quando il saggio Tristan la lite vede,
della quale ei medesmo era inventore,
di dar ordine al tutto al suo re chiede,
ed egli il consentìo con lieto core;
ond’ei: “Poi che l’andar non mi si cede
ov’io sperai trovar supremo onore,
contento sto, che indegno è il cavaliero
che non vuole ubbidir d’avere impero.

Io vi consiglierei che Maligante
con sei di quei guerrier che voglion gire,
con venti poi ciascun, gissero avante
l’empie schiere nemiche ad assalire:
pochi andasser primieri, e che ’l restante
in parte ascoso ove potesse udire
ben del tutto avisato e stretto stesse,
a rispinger da’ suoi chi gli premesse;

ed io con cinque insegne poi de’ miei
non di molto lontan sarei da’ fossi,
e l’inchinate schiere sosterrei
di quei dal loco lor per forza mossi:
poi la fortuna chiara seguirei,
se da lei favorito in parte fossi:
né saria da sprezzar, perché sovente
vincitrice vid’io la minor gente.

Or perché troppi son quei cavalieri
cui del novello onore ha punti sprone,
e dell’oste e di voi sostegni interi,
di tutti insieme andar non è ragione;
ma però che di sdegno a petti alteri
porria l’elezzion donar cagione,
da poi ch’esser non può se non perfetta
di fortuna all’arbitrio si rimetta”.

Fu da ciascun com’ottimo il consiglio,
ma più dal re Britannico , lodato
ch’a lui rispose con allegro ciglio:
“Non fia ’l vostro disegno indarno nato,
sol che mi promettiate al gran periglio,
dal generoso cor troppo invitato,
di non scorrer un passo più lontano
di quel che detto aviam, caro Tristano”.

Così con poca luce che mostrasse
fur de i nomi di quei descritte carte;
ch’entro al fondo d’un elmo ascose e basse
come a guardia fedel diedero a Marte;
ad una ad una poi mischiando trasse
il buon re Lago, e le leggeva parte:
e la prima a venir dell’altre tante
fu con favor comun di Maligante.

Fu di Norgalle appresso il cavaliero,
indi Florio il toscano e poscia Eretto
con Gossemante, il core ardito e fero,
indi vien Lionello il giovinetto.
A far de i sette il bel numero intero
fu da fortuna Persevallo eletto.
Ora ha d’essi ciascun sì lieto il core
come quei che restar premea dolore.

Ogni uom de i venti suoi lo stuolo adduce
con quell’arme più oscure che si truove.
Ogni piuma, ogni arnese che riluce,
dando in guardia al vicin, da sé rimuove.
Il giovin Lionel, che n’era duce,
ha seco tutti arcier di antiche pruove;
il cavalier Norgallo che ’l seguia
ha di fortissime aste compagnia;

il medesmo ave Eretto, e poi gli altri hanno
con gli scudi leggier pungenti spade,
per poter più schifare e portar danno
senza gran faticar per lunghe strade.
già dal campo partiti ascosi vanno
ove son più intricate le contrade;
ma Lionel con l’arco e Maligante
con lo scudo e col brando ivano avante.

Già il franco Lionel da presso scorge
un che ascoso intendea, di quei d’Avarco;
fa fermar Maligante, e innanzi porge,
sì come presti avea, lo strale e l’arco.
Scocca verso il meschin, che non s’accorge,
e che pensa secur tenere il varco:
sopra ambedue le ciglia in fronte il prese,
tal che senza romor morto si stese.

Or par loro a i disegni aperto il passo,
che d’indi oltra seguir non sia disdetto.
Va con l’orecchio a terra or alto or basso,
né di sentire alcun prendon sospetto;
sì ch’ove era colui di vita casso
lassan l’altro drappel venir ristretto,
cui dicon ch’ivi ascoso e cheto attenda
fin che in alto gridar chiamarse intenda;

e lassan ch’a Fenice e Trasimede,
i miglior due guerrieri e di più ardire,
tutti quegli altri, ove il bisogno chiede,
come a lor duci debbano ubbidire:
e i sette poscia in un muovono il piede
ove speran trovar cieca dormire
di quei di Seguran la maggior parte,
trall’arenose rive intorno sparte.

Quai sette lupi van, che dalla fame
per più di molestati escon del bosco,
ch’ove più belle mandre odor gli chiame
drizzano il fero corso all’aer fosco,
le quai ritrovin miserelle e grame
ove il cane è indormito e ’l pastor losco:
sì che molte hanno uccise della greggia
pria che senta il mastino o ’l guardian veggia.

Tai giugnendo costor su ’l lato manco
ove al fiume lontan più surge il colle,
il fer gotico stuol ferono al fianco
e fan del sangue suo l’arena molle:
che la sera assetato, afflitto e stanco
di vivande e di vin sì ben satolle
avea lieto in tra sé l’avide voglie
che dal sonno al romor non si discioglie.

Il primiero a ferir fu Lionello,
che pon lo strale al gepido Ascalese
dietro alla fronte, e penetra il cervello,
sì che dolce sognando a Pluto scese:
il qual, se ben sott’altro paralello
nato era lunge al gotico paese,
pur sotto il feroc’Ilba si conduce
ch’a l’uno e l’altro popolo era duce.

Il cavalier Norgallo appresso viene,
e con l’asta pungente uccide Aroco
del sangue goto, il qual sopra l’arene
il notturno rigor temprava al foco.
Trapassò ’l tutto ove alle spalle avviene
il fin della corazza, che sì poco
al gran colpo mortal gli porge aita
che col suo contrastar perde la vita.

Il buon Florio toscan tosto che ’ntende
che questo era lo stuol ch’egli odia tanto
e che ’l bel nido suo rapisce e ’ncende
e ’l tien sepolto in miserabil pianto,
più spietato che mai sovr’esso stende
il fortissimo brando, e truova Alanto
che di Teodorico era nipote,
e ch’hanno in sommo onor le genti gote;

e dietro al destro orecchio entra la punta
ove surge durissimo quell’osso
il qual d’ogni furor la forza spunta
da qual colpo maggior vegna percosso.
Ma come in lui vibrando è sovragiunta,
no ’l potendo del loco avere smosso,
va nel cavo vicino, ed oltra vola
ove il collo è inserrato con la gola.

Ivi il lassa tremante su la terra,
e qual fero leon fra gli altri spinge
il crudel ferro, e lì medesmo atterra
Tepulto il fero, che dormir si finge
perché de’ suoi vicin la cruda guerra
d’infinito timor l’alma gli stringe,
né d’indi rifuggir vede la via
che non sia dal nemico oppresso pria;

così tacito sta, ma non gli vale,
che ’l feroce toscan sopra la testa
che bassa tien gli dà colpo mortale,
tal che degli altri tre compagno resta.
E Maligante intanto gli altri assale
che de i morti primier sono alla testa,
e fa che ’l crudo Arpin che ascoso dorme
nel tartareo terreno stampi l’orme.

Né indietro si riman l’altero Eretto,
che ’l ricchissimo Arnaldo spinge a morte,
che gli mise la spada in mezzo il petto,
onde l’alma al fuggir trovò le porte.
Era costui nuovo signore eletto
ove il Partenopeo con dura sorte
era d’ogni suo bene e d’uomin vòto
dal rabbioso furor dell’Ostrogoto.

Il nobil Gossemante, core ardito,
che l’impuro Circon trova riverso
con un colpo al destr’occhio sovra il lito
di sangue il lassa e d’atro vino asperso;
e ’l chiaro Persevallo avea ferito
dentro al cavo del cor, proprio a traverso,
Sagonto il biondo, di Seran figliuolo,
che d’appellarsi re sostenne solo;

e nel mezzo di servi e d’altri intorno
di serici tappeti il letto avea,
condotto ivi d’Avarco, e ’n guisa adorno
che non men delle fiamme rilucea.
Ma il chiaro cavalier per suo più scorno
il sostegno con lui seco traea,
poi Torante il suo amico a lui vicino
pose in fronte percosso a capo chino.

Ma de i danni il romor per tutto è scorso,
mentre i sette ponean le genti al fine,
e l’abbattuto stuol chiama soccorso
dalle genti ch’a loro eran vicine:
sì che già largo numero era corso
delle lor proprie schiere e peregrine;
ma mentre appellan quei, questi altri vanno,
i buon sette guerrier gran prove fanno.

L’altero Seguran, che d’altro lato
il suo seggio da quei tenea lontano,
Clodin con molta gente avea mandato
a ’ntender se ’l romor sia certo o vano;
ma poi che per più voci ha il ver trovato,
che dal barbaro popolo inumano
in sonno, in tema, in tenebre ravvolto
con duro lamentar cresciuto è molto,

lassando ivi per lui Brunoro il Nero,
con poca compagnia fra’ Goti arriva,
e ritruova assai gente su ’l sentiero
che del tutto era morta o mezza viva.
Guarda le piaghe, e ben di colpo fero
e di man che non sia di forza priva
sembrangli in vista, e la credenza prima
di Tristano e Boorte opra le stima.

Allor con più desio domanda intorno
ove sien giti quei che gli hanno ancisi,
e trova che ’n brevissimo soggiorno
han dell’anime sue questi divisi,
e che poco lontan lento ritorno
senza temenza fan d’esser conquisi:
onde irato l’Iberno alla vendetta
pur con pochi de’ suoi di gir s’affretta.

Né molto innanzi va che gli ritrova
come sette leon ristretti insieme
che doppo alto predar di gente nuova
senton venire stuol che ’ntorno preme:
ch’or si mettono in fuga, or fanno prova
di rivolgersi a quel che men gli teme,
e chi truovin da gli altri esser disgiunto
dall’artiglio o dal dente è morso o punto.

L’accorto Lionello ad ogni passo
scocca dell’arco suo novello strale:
questo in fronte ferisce e quel più basso,
chi riman morto e chi seguir non vale.
Il cavalier Norgallo avvinto o lasso
non mostra il suo valor, ma di mortale
colpo in chi più nel corso gli era presso
la pungente asta sua nasconde spesso.

Florio dovunque senta o grido o voce
che ’l gotico sermon parlando spiega
con la spada si addrizza aspro e feroce
e dal preso sentiero indietro il piega;
e tanto lieto è più quanto più nuoce
all’odiato drappello, e ’l ciel riprega
che la possanza egual doni alle voglie
perché del seme rio la terra spoglie.

Nè men fa il chiaro Eretto e Gossemante,
che ritirando il piè n’uccidon molti;
e se non fosse il saggio Maligante
da’ nemici alla fine erano avvolti,
perché perdono il tempo, e gli altri innante
corrono al vendicare insieme accolti.
Ma quegli alto gridando dice: “Omai
aggiam, cari signori, oprato assai;

or è il tempo di cedere a chi viene
e sicuri tornare a miglior seggio,
o del nostro fallir pagar le pene
ci apparechiamo al grave stuol, ch’io veggio”;
obbediscegli ogni uom, come conviene
a chi nulla ha speranza e teme peggio;
e ciascun rifuggendo il corso stende
verso la schiera lor che dietro attende:

ove senza apparir taciti stanno,
lassando avvicinar chi gli seguia,
i quai sciolti di tema e sparsi vanno
come gli conducea l’oscura via,
né posson discovrir l’ordito danno:
ch’oltra la notte oscura, gli impedia
la luce e ’l foco che si lassan dietro,
che facea lor parer l’aer più tetro.

Con alte grida allor, con voci orrende
di trombe e militari altri instrumenti
il nascoso drappello il corso stende
con varie aspre maniere di spaventi,
e ’n un tempo medesimo gli offende
con gli strai che su gli archi erano intenti,
che, ben che venti sien, mille sembraro:
poi tra l’aste gli scudi a paro, a paro.

Non fu core in tra quei di tanto ardire
ch’all’improviso assalto non tremasse:
chi scampa il primo urtar vorria fuggire,
se ’l sentier bene aperto ritrovasse,
ma da quei che son gli ultimi a venire,
e cui tardo il romor da lunge trasse,
hanno ingombrata sì la dritta strada
che ritengon ogni uom che ’ndietro vada.

Ivi i sette buon duci, che primieri
e gli altri confortando son rivolti,
quel che di damme fan bardi e cervieri
facean de’ miserelli in fuga volti.
Son già d’essi ripien tutti i sentieri
che tra ’l sangue e l’arena erano avvolti,
e sì folta di lor la turba cade
ch’a gli stessi uccisor facea pietade.

Solo il nemico Florio, a cui rimembra
del flagel ricevuto sopra l’Arno,
d’affamato leon più crudo sembra,
e ’l pianger’ e ’l pregar si getta indarno.
Quell’ucciso riman, quel con le membra
in più parti impiagate, esangue e scarno:
quel, pensando fuggir, dal proprio piede
che ’n soccorso venìa premer si vede.

Ed ei quanti di lor più scerne a terra
di tanti uccider più s’arma le voglie:
avria bramato solo in quella guerra
di quanti nacquer mai l’ultime spoglie.
Ma il numero de’ morti il passo serra
e di più oltra gir la strada toglie;
e già il fero Clodino e Segurano
in aita de’ Goti arman la mano;

e con forze maggiori han penetrato
per mezzo al fin del fuggitivo stuolo.
Ma il saggio Maligante d’altro lato
a’ compagni gridando affrena il volo.
Al suo impero ciascuno è ritornato,
ma in tra’ folti nemici Florio solo
tratto dal gran desio s’è tanto spinto
chi si scorge da quelli in giro cinto;

ma qual toro selvaggio, che si trove
da cani e da pastor chiuso il sentiero,
che ’ntorno guarda, e non può scerner dove
sia lo scampo di lui securo e ’ntero,
che diperato al fin ratto si muove
e ’n orrendo mugire e ’n vista fero,
con la cornuta fronte armata e bassa
riversando e ferendo a forza passa;

tale il famoso Florio, che si sente
a dietro richiamare e vede intorno
che dalla nuova e prima offesa gente
senza speme impedito ave il ritorno,
congiunto il brando al suo scudo possente
con furioso urtar fiaccato ha il corno
che di dietro il cingea, sì ben che a viva
forza, ove gli altri suoi, correndo arriva.

Indi con Maligante addrizza il passo;
e così quanti son, l’ordin tenendo
verso il campo e ciascun con l’arme basso,
va l’impeto nemico sostenendo.
L’altero Segurano il popol lasso
e ripien di timor va sospingendo,
poi minacciando a i sette alta ruina
con l’animosa schiera s’avvicina;

e larghissimo danno fatto avria,
se ’l famoso Tristan col pio Boorte,
che per compagno suo chiamato avia
a passar seco la medesma sorte,
con cinque sole insegne in compagnia
non presentava a’ suoi fedeli scorte:
che ’n così orribil suon la schiera mosse
che la valle d’Oron l’arene scosse.

Maligante e i compagni han già la fronte
con più animoso cor che mai rivolta;
ma il saggio Seguran che viene a fronte
come l’impeto e ’l grido presso ascolta
ben s’accorg’ei che più dannaggio ed onte
che mai d’altra stagione a questa volta
riporterà, s’al subito periglio
or non più che la mano use il consiglio;

e richiamando i suoi l’andar raffrena
e di scudi miglior la testa addoppia,
quegli scegliendo ch’han vigore e lena
che col vivace ardir nel cor s’accoppia.
Ma già come all’april quando balena,
che doppo il lampeggiare il tuono scoppia,
così doppo il mostrar chiaro splendore
vien dal lucente ferro alto romore,

che quai feri leoni innanzi vanno
percotendo i nemici il buon Tristano
e ’l pio Boorte; e sì ben giunti stanno
che sempre pari il piè segue e la mano;
ed han fatto fra lor non picciol danno,
pria che ben possa il saggio Segurano,
l’occhio fisso tenendo in ogni loco,
spegner, come vorria, l’acceso foco:

perché prima conviengli con la spada
salvare i suoi dal subito periglio
e d’opporsi al ferir mostrar la strada,
poi di ritrarre il piè trovar consiglio.
E mentre a questo e quel fra l’ombre bada,
sente il ferro britannico vermiglio
or del gotico sangue, or dell’iberno,
e molte alme di lor poste all’inferno;

onde in suo cor rabbioso si lamenta
d’esser come guerrier semplice incorso
nelle notturne insidie, e quasi spenta
si stima ogni sua gloria al primo corso.
Or all’alto furore il freno allenta,
or con miglior pensier ritiene il morso:
e perché di Tristano udito ha il nome
scarca in lui di furor le gravi some,

dicendo: “E chi v’apprese, o in quali scuole,
alto re dell’Armorico leone,
di ricovrar l’onor perduto al sole
nella più oscura ed orrida stagione
qual la timida volpe o il lupo suole,
che negli inganni suoi la speme pone?
La notturna vittoria a i buoni è scorno
vie più ch’esser oppressi al chiaro giorno”.

Non risponde Tristan, ch’ad altro intende,
ma il saggio Maligante gli dicìa:
“Dell’ottimo guerrier la gloria splende
sempre, in ogni fortuna o buona o ria:
e quando ascoso è il dì, quando risplende,
e di terra e di mar per ognia via,
per ogni occasion che ’l ciel gli scuopra
con generoso cor pon l’arme in opra.

Ma voi quale al villan, quale al pastore
vorreste a i cavalier dar rozza forma,
che poi ch’aggia al gran dì sudate l’ore
neghittoso la notte queti e dorma;
né consentir vorreste che ’l valore
già mai di travagliar non lasse l’orma,
e ch’al chiaro, all’oscuro, al caldo, al gielo
aggia di faticar lodato zelo”.

E così ragionando il re di Gorre
non però di ferir per questo lassa,
ma quinci, ov’è ’l bisogno, e quindi accorre
e sospingendo i suoi più innanzi passa.
Ma il feroce Tristan per tutto scorre,
e di lui fiammeggiando or alta or bassa
accendeva le tenebre la spada,
e del sangue nemico empiea la strada.

Uccise il forte Iberno Pilarteno,
che del suo Segurano era cognato,
e ’l fa morendo mordere il terreno
con percossa fatal nel fianco lato.
Fa il medesmo ad Erteo, ch’al freddo seno
delle tenebrose Ebridi era nato,
poi Meganippo, Orneado e Limoco
ch’ebber patria con lor l’istesso loco.

Né men di lui fa il giovine di Gave,
ch’a quel sempre vicin percuote e fere.
Leocrito l’Ispan d’un colpo grave
onde il capo ha diviso fa cadere,
indi il fero Leteo, che nulla pave
e ’l primo appar fra le Sassonie schiere,
fa che per aspra piaga della gola
all’onde di Caron lo spirto vola.

Così Memalo, Astoro, Echedo e Boro
della progenie Usvalla a morte spinge.
Ma più d’altro spietato entra fra loro
Florio, e di goto sangue si dipinge;
né Lionello il primo suo lavoro
ha posto in ozio, o d’impiagar s’infinge
ogni uom che ’ntorno appar con rigid’arco,
come suol cacciatore i cervi al varco.

Ma il saggio Seguran, cui sol non preme
il presente suo mal, che pure è molto,
ma più dell’avvenir nell’alma teme,
che non sia lì l’esercito raccolto
per venir a trovarlo unito insieme,
e l’acquistato lauro gli sia tolto:
tutti chiamando i suoi con lento piede
tra le tenebre ascoso a gli altri cede;

e l’accorto Tristano e Maligante,
che non voglion tentar l’ultima sorte
e ch’han giusto sospetto ch’altrettante
o più di Seguran giungano scorte,
con alto richiamar fra quei davante
fanno indietro tornar Florio e Boorte:
i quai, come guerrier di chiara luce,
si fanno obbedienti a chi conduce.

Ma nel suo ritirar Florio avea preso
Santio, il nobile Iberno, prigioniero,
e ’l porta seco senza averlo offeso,
come picciolo agnel suol lupo fero,
perch’ei possa ridir quanto ave inteso
che ’l grande oste d’Avarco aggia in pensiero.
Poi temendo in suo cor l’avversa parte
già l’uno e l’altro esercito si parte,

ma quei di Seguran tristi e dolenti
de i compagni ch’avean rimasi in terra,
i Britanni e i vicin lieti e ridenti,
cinti d’onor della notturna guerra.
Passano il vallo poi che l’altre genti
dalle nemiche man secure serra,
ove armato attendeva il gran Britanno
fra gli altri duci e re che ’ntorno stanno.

Ivi con lieto cor lodando accoglie
dell’impresa lodata ciascun duce.
Florio il Toscano allor fra le sue spoglie
al cospetto del re Santio conduce,
il qual tutto tremante i detti scioglie
pregando: “O de’ Britanni eterna luce
ch’a tutti splende, poi ch’or vostro sono
fatemi della vita intero dono;

e se di questa età giovine ancora
e della mia fortuna non v’incresce,
muovavi il vecchio padre che dimora
lontano, e pan con lagrime commesce,
ch’udir gli sembra il messo d’ora in ora
ch’a lui porte il mio fine, e a sé rincresce:
e se d’un tal perdono avesse nuove,
non men v’adoreria che ’l proprio Giove”.

Dolce risponde Arturo: “Or non vi caglia
d’esser venuto in man di tai nemici,
usi uccider gli armati alla battaglia
e far mercede a i nudi e gl’infelici.
Pria che la bianca aurora all’alba saglia
secur vi manderò ne i liti amici,
e ’n vece pregherò, s’e’ non vi spiace,
dar risposta al mio dir che sia verace,

quale il disegno sia di Segurano,
poi ch’attende di fuori il nuovo giorno:
d’armar contra i nostri argini la mano
o ’n tra i muri d’Avarco far ritorno?”
Allora il miserello al volto umano,
al dir di grazia e di dolcezza adorno,
qual si fa doppo il giel novella rosa
all’apparir del sol vaga e gioiosa,

tal si fece egli; e tutto umìle in vista
risponde: “Invitto re, grazie infinite
rendo alla sorte mia lieta, e non trista,
poi che mi spinse a scorger le gradite
vostre virtudi, onde il sol nome acquista
quante anime oggi son col cielo unite:
e me così prigion fan più felice
che non faria la palma vincitrice;

e da poi che d’intendere il pensiero
vi cal di Segurano in questa guerra,
v’affermo io, qual suo duce e consigliero,
ch’e’ non vuol ritornar dentro alla terra
infin ch’ei non ha in man tutto l’impero
del gran fosso vallato che vi serra;
e ’n questo tempo istesso e ’n questo luogo
spera al britanno onore imporre il giogo;

e come il sol rallumi l’oriente
drizzerà a questa via l’armato piede:
né si truova tra lor sì abbietta gente
che non pensi di voi far ricche prede”.
Allor ridendo il re cortesemente
l’abbraccia, e dice poi: “Colui che vede
i desir nostri aperti testimone
appello al mio verissimo sermone,

ch’altro mai non bramai quant’oggi questo,
e per mercè dell’ottime novelle
amicissimo sempre e vostro resto
mentre vita mi dien l’amiche stelle”.
Indi un aureo monil tutto contesto
di preziose gemme rare e belle
dal suo collo real cortese tolse,
e quel di Santio languido n’avvolse;

indi Amaso l’araldo fa venire
e che ’l tenga securo infino al giorno
comanda dove al pascersi e dormire
sia nel bisogno suo dolce soggiorno:
poi gli sia fida scorta al dipartire,
fin che nell’oste suo faccia ritorno.
Al fine egli e Tristano e gli altri vanno
a ristorarsi ancor del nuovo affanno.