Avarchide/Canto XIV
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CANTO XIV
ARGOMENTO
Nel comune periglio Arturo aduna
Il consiglio de’ saggi, e loro espone
Di placar Lancilotto: a ciò opportuna
Schiera vien scelta, e in essa si ripone
Ogni speranza. Parte, espon; niuna
Vuol l'offeso ascoltar prece, o ragione.
Pur Lambego riman, gli altri ad Arturo
Portan di Lancilotto il pensier duro.
i
In tal riposo e ’n sì fiorita speme
Le guardie avea l’esercito d’Avarco;
Ma d’altro lato acerba doglia preme
Il cor d’Arturo, che di tema e’ carco,
D’ira, di sdegno e di vergogna insieme,
Chè mal difeso avea l’antico varco
Tenuto infino allor senz’altro danno
Quasi tutto il cammin del settim’anno.
ii
Il medesmo avvenia ne gli altri ancora
Duci e gran cavalier che ’ntorno avea.
Tra i privati guerrier gran parte plora
D’amico o di cugin la morte rea;
Chi di sè, lamentando, l’ultim’ora
Con gli occhi del timor presso vedea,
Chè l’altrui di quel dì passato essempio
Gli mostrava vicin l’istesso scempio.
iii
Soli il chiaro Tristano e ’l pio Boorte
Si potean riveder quali eran mai
D’invittissimo cor, d’animo forte
Minacciare a i nemici ontosi guai,
E del sentito mal biasmar la sorte
E del ciel contr’a lor gl’irati rai:
Confortando ciascun di sperar bene,
Chè non sempre il medesmo ha dolce o pene.
iv
E poi ch’ebbero i due disposte intorno,
Tristano al destro e quegli al manco lato,
Le gardie sì, che non potesse scorno
Dal nemico vicino esser portato,
Là dov’era il gran re fanno ritorno,
Che ’n mezzo stava del suo stuolo amato
Ripien d’atra tristezza del seguìto,
E di quello avvenire sbigottito;
v
Ma al rimirar de i due la vista chiara
Il volto e ’l cor si rasserena alquanto,
Dicendo: Or che faremo, altera e rara
Coppia a cui di virtù dò il primo vanto?
Che fin veggiamo alla rovina amara
Che ne sta sopra, ed al perpetuo pianto
Dell’onor già perduto e del gran nome
Nostro, aggravato di sì abbiette some?
vi
Deviam noi ritornar, come a me pare,
Al medesmo cammin che qui n’ha indotto,
E rivarcar della Britannia il mare
Poi ch’è ’l nostro sperar piegato e rotto?
E dar gioia a i nemici senza pare,
E sovra tutti al crudo Lancilotto?
E lì dietro a i confin del mio paese
Esser presti a soffrir novelle offese?
vii
O pur, quinci restando, in altra prova
E ’n gran rischio ripor le nostre genti
Per veder s’a pietade il ciel si muova
O se vuol più che mai farne dolenti?
Chè ’l sovente tentar talvolta giova,
Talvolta i tentator per sempre ha spenti;
Dura cosa e’ il partir senza alcun frutto,
E durissima ancor perdere il tutto.
viii
Così disse, e Tristan turbato in volto
Risponde: Or fia possibile che ’n voi
Così breve accidente aggia ritolto
Quell’ardir ch’avanzò gli antichi suoi,
E per sì poco danno or caggia avvolto
Di timore il pensier che gli altri eroi
Si lasciò indietro col montare in alto,
Senza curar di sorte alcuno assalto?
ix
Non crederrò già mai che ’l grande Arturo
Ragioni del fuggir se non per gioco:
Il qual pens’io che viveria securo
In tra i folti nemici e ’n mezzo il foco,
Non che cinto sì ben di fosso e muro,
Tra tanti cavalier che d’ogni loco
Basso, aperto ed esposto a i propri danni
Porrian saldo guardarlo infinit’anni.
x
Dico adunque, signor, che qui si deve
Ristorare e posar le genti lasse
Della lunga fatica e sudor greve,
Mentre che ’l sol nell’oceàno stasse;
Ma poi che ’l suo splendor l’alba riceve,
Che si debba uscir fuor con l’aste basse,
E col cor più che mai securo ed alto
Apportare a i nemici un nuovo assalto.
xi
A chi contrario al mio doni consiglio
Dico ch’al vostro onor fa estremo torto,
Chè in guerra non si va senza periglio,
Nè si può navigar restando in porto.
E s’or mostra fortuna irato il ciglio,
Doman fia chiaro, e ’l cammin destro e corto
Forse ne mostrerrà di vera gloria,
Ornando il nostro duol d’alta vittoria.
xii
Qui tacendo, il re Lago le parole
Con dolcissimo suono allor riprende
Dicendo: O di virtù lucido sole
Che di sì ardenti rai fra noi risplende,
Te riguardi ciascun che ’n terra vuole
Ritrovare il cammin ch’al cielo ascende,
E s’acconci i pensier, l’arme e la mano
A seguir l’orme sacre di Tristano.
xiii
Cotai si pon chiamare i cavalieri,
Invittissimo re, d’alto valore,
Che secondo il bisogno e saggi e feri
Si mostran sempre, e con desio d’onore.
Non si porriano aver più dritti e veri
Consigli altronde, e di più intero amore
Di quel ch’or dona in semplice sermone
Il rettore onorato di Leone.
xiv
Tal che, lassata indietro ogni altra cura,
Si pensi alla difesa e alla vendetta:
Ciascun gli andati danni e la paura
Sotto nuovi pensieri in oblio metta.
Sì dirò ben ch’al render voi men dura
E più larga la strada or aspra e stretta
Modo agevol v’è dato, se vi piace
Con Lancilotto omai di tentar pace;
xv
La qual noia apportar non vi devria,
Ben ch’a minor di lei s’inchini l’alma:
Ch’onta o gloria non va dove non sia
Di grandezza o d’onore egual la salma;
E tra servo e signor non si desia
Simil che tra’ nemici e lauro e palma,
E men tra ’l figlio irato e ’l pio parente,
Quali io stimo esser voi veracemante.
xvi
Si conviene al gran re di tener fiso
Solo alle cose altissime il pensiero,
E d’ogni altra men degna esser diviso
Che non sia duro scoglio al sommo impero;
Piegar talora il cor, cangiare avviso,
Non esser grave a chi gli mostre il vero
E pensar che Dio sol può senza altrui
Ogni cosa adattar qual piace a lui.
xvii
Non avete or quistion con Lancilotto,
Ma col nemico e perfido Clodasso:
Nè sì onorato stuolo è qui condotto
Perchè ’l figlio di Ban sia tristo e basso.
Nè il vostro onore altissimo più sotto,
Per richiamarlo a voi, sarà d’un passo,
Ma sarà ben nel centro della terra
Se così indegno fine ha questa guerra.
xviii
Mentre che ’l gran Britanno intento ascolta
Del suo buon re dell’Orcadi il consiglio,
Le veraci parole in cor rivolta
Tenendo alta la mente e basso il ciglio.
Poi che ’l sente in silenzio, a lui si volta
Col riverente onor che deve il figlio
Dicendo: O padre, e ben mi sète tale
Poi che voi tengo a Pandragone eguale;
xix
Io non posso negar che ’l vostro dire
Non men di senno sia che d’amor pieno,
E ch’al bisogno tal le privat’ire
Deven di chi più sa sgombrare il seno:
Ma troppo è dura cosa incontra gire
Al suo giusto disdegno e metter freno
Al desio di mostrar ch’umana forza
Un generoso core a nulla sforza.
xx
E se qui sola in rischio la mia vita
Fosse, e sola di me la propria sorte,
Pria che ciò far, per via corta e spedita
Di tosto eleggerei correre a morte:
Ma quando così nobile e gradita
Gente mi veggio, e sì onorate scorte,
Che delle nostre colpe avrebber doglia,
Al voler di ciascun piego la voglia.
xxi
E perchè ’l mondo intende ch’io non amo
Di più gradire il mio, che ’l vostro bene,
Contento son che dell’uliva il ramo
Come a chi sia maggior, quasi, conviene
Si chieggia in nome mio, con dir ch’io bramo
Che di quanto seguìo sien mie le pene,
E di lui sia larghissimo il guadagno
In volermi tornar pari e compagno:
xxii
Perchè in premio di ciò sarò contento
Di lassare a lui sol di qua dal mare
Di tutto quel paese il reggimento
Che si potrà con l’arme guadagnare:
Oltra il regno d’Avarco, ch’io consento
Che sotto al suo voler debba restare;
Tal che ’nvidia ad alcun non possa avere
Di tesor, di terreno e di potere.
xxiii
Poscia oltra il mar nel lito mio britanno
Di sette alme città gli darò impero,
D’Udon, di Bervelai, d’Ulla, che stanno
Ove l’Umbra a Nettunno apre il sentiero,
E d’Alertone, ove irrigando il vanno
Con le fredde onde sue la Tesa e ’l Vero,
E di Varvico, che suoi lidi stende
Alle piagge miglior ch’Avone scende;
xxiv
Poi nella Cantabrigia Eli e Valpole,
Ch’al Germanico sen drizzan la fronte,
Delle quai più gentil non vede il sole
Ovunque al suo cammin si corchi o monte.
Nè queste avrà, per quant’io speri, sole,
Che di molte altre ancor più chiare e conte
Gli porrò scettro in mano, e dir potrasse
Che d’ogni occidental l’altezza passe.
xxv
Darogli in pace poi gradite squadre
Di cavalieri arditi in compagnia,
Che ’l seguiran qual pio signore e padre,
Come fia il suo piacer, per ogni via:
Co i quai potrà nell’opere leggiadre
Spender gli anni miglior, come desia,
Di lauri ornando la famosa chioma,
E di gloria avanzar la Grecia e Roma;
xxvi
E sì ben d’arme ornati e di destriero,
Che pochi incontrerranno eguali a loro.
E perchè il ferro cade di leggiero
Senza sostegno aver talor dell’oro,
Da poter ben nutrirgli un anno intero
Provvederò l’andar suo d’ampio tesoro:
Doppo il qual, se non prima, dalla spada
Di trovarne maggior fia fatta strada.
xxvii
E se sfogar gli alteri suoi disegni
Di Nettuno vorrà premendo il dorso,
Cento ampissime navi e cento legni
Di fortissimi remi accinti al corso
Avrà, che in tutti i liti e ’n tutti i regni
Il mar dentro e di fuor fia prima scorso
Ch’alcun saldo lavoro in lor si stanche,
O de’ suoi conduttori il cibo manche.
xxviii
Poi, perch’altra non ho congiunta e cara
Più che fia Lodaganta, la sorella
Di Ginevra mia sposa, unica e rara
D’ogni virtude e sovra ogni altra bella,
E che per l’alto cor di sè fu avara
A mille re famosi e fu rubella
Sempre e fin qui del giogo maritale,
Perchè nullo a’ suoi merti estima eguale:
xxix
Quella in dolce pregare a lui prometto
Di far cara compagna e pia mogliera,
E con sì larghi don che sarà detto
Di fortuna ricchissima ed altera;
In cui possa trovar pace e diletto
Poi che il suo bel mattin vada alla sera,
Come in tra’ nuovi germi uliva suole,
Di dolcissima cinto e chiara prole.
xxx
Nè a tal rendergli onor viltà m’induce,
Nè quella, ov’io son or, necessitade;
Ma l’amor ch’io gli porto in ciò m’è duce,
Già incominciato in tenerella etade
Dal primo dì che la superna luce
Di venirmi a trovar gli aprì le strade:
Che ’ntra gli altri infiniti elessi solo
Lui per pegno gratissimo e figliuolo.
xxxi
E quantunque l’altr’ier sì amaro sdegno
Mi percotesse il cor a i detti suoi
E che d’odio in quel dì mostrassi segno,
Tosto il primiero amor risurse poi:
Nè mi fora più a grado ogni gran regno
Che ’l vederlo tornare amico a noi
Quanto esser mai solea, chiaro del tutto,
Quanto fosse anco ciò senz’altro frutto.
xxxii
Or si pensi fra voi qual più si deve
A lui tosto inviar che gli sia caro,
Ch’assai più l’un che l’altro in dolce e leve
Può il peso convertir greve ed amaro;
Perchè ’l ricordo altrui che si riceve
Come da spirto pio, fedele e chiaro
Penetra a maraviglia un core amico
Come d’april la pioggia il campo aprico.
xxxiii
Allor dice il re Lago: O sommo onore
Col britanno terren del mondo insieme,
Ben ch’io con ragion, che ’l tuo splendore
Quante mai luci furo offusca e preme,
Poi ch’a quella pietà s’arrende il core
Ch’aver si dee delle miserie estreme
Di chi segua con lui l’istessa sorte,
E per dar vita a quel s’esponga a morte,
xxxiv
E per salute altrui da sè dispoglia
Contr’a minor di sè l’ira tenace
E più tosto la sua che di lui doglia
Vuole, e co’ suoi minori indegna pace,
Il disdegno abbattendo e l’aspra voglia
Di seguire il cammin ch’al senso piace.
Or per bene adempire un tal desio
Maligante è ’l migliore, al parer mio:
xxxv
Ch’oltra che sovr’ogni altro ei l’ama e cole,
Ha sì dolce movente e vago il dire
Ch’ascoltar non si pon le sue parole
Senza al lor dimostrar pieno obbedire:
Chè, se non fosser sordi, al maggior sole
Faria gli aspi acquetar le rabbie e l’ire;
E sia seco Lambego, il vecchio antico,
Che ’l nodrì giovinetto al padre amico:
xxxvi
E potrà molto oprare in Lancilotto
Quel primo ricordar che mai non cade,
Già dalla verga sua formato e ’ndotto
A’ buon costumi in tenerella etade,
E perchè da i medesmi esser prodotto
E d’anni e di voler la paritade
Han gran forza, e ’l seguir l’istessa sorte,
Per terzo ambasciador vorrei Boorte.
xxxvii
Così detto, ciascun che ’ntorno siede
L’impresa e gli orator lodando approva,
E i tre duci onorati il core e ’l piede
Han pronti, e mossi alla novella prova:
E dritti vanno ove in solinga sede
Lancilotto, e lontana si ritrova,
Sciolta quasi dall’altre, al sezzo varco
Onde può più vicin vedere Avarco.
xxxviii
Trovanlo ch’era ancora a mensa assiso,
Già pervenuta a fin la parca cena,
Col fido Galealto, che diviso
Non ha mai la stagion fosca o serena:
Ch’erano ad ascoltar col pensier fiso
Il chiar Euterpo, che con dotta vena
Alto cantava ne’ passati lustri
Del cortese Girone i fatti illustri.
xxxix
Come vede apparire amici tali
Ch’a tutti altri in amor più innanzi vanno
Doppo il suo Galealto, dice: E quali
Cagion nuove, signor, menati v’hanno
All’albergo di quel che tra i mortali
Vivo è sepolto in infernale affanno?
E così ragionando, e riverente,
Surge all’incontra lor lieto e ridente;
xl
Poscia fa che Falario, un suo scudiero,
Nuovi seggi a ciascun vicini apporte.
Così alla mensa pur ghirlanda fero
Tutti i cinque soletti, e poi le porte
Fur serrate d’intorno per l’impero
Di Lancilotto; e poi che d’altre scorte
Fu del tutto sgombrato il chiuso loco
Maligante i compagni guarda un poco,
xli
E ’n cortese parlar dolce gli prega
Ch’ei vogliano a’ pensier la lingua sciorre;
Ma l’uno e l’altro vergognando il nega,
Che braman sopra lui l’incarco porre.
Et esso al fin, ch’al lor desio si piega,
Tacendo alquanto con la mente scorre;
Poi con voce soave e ’n pio sembiante
Così diceva al cavaliero errante:
xlii
Valoroso signor, quando il ciel vuole
Scorger alcun mortale al sommo onore,
Per vie lunghe, aspre e faticose suole
Tra periglio inviarlo e tra sudore:
Tal che sovente l’uom si lagna e duole,
Che sol discerne quanto appar di fuore,
Di quello onde finito il sentier rio
Grazie ne rende poi divoto a Dio.
xliii
Simile avvien di voi, per quel ch’appare,
Ch’a sempiterna gloria alzar procura:
Chè per porvi in affanni e ’n doglie amare
Ne i trapassati dì stese ogni cura;
Tal ch’ove più speraste in alto andare,
Di gravissima pietra alpestre e dura
In maniera cotal v’oppresse il volo,
Ch’al centro gìo dove aspirava al polo.
xliv
Or con ambe le man quindi vi tira
E con sommo favor v’accoglie in seno,
Se vorrete, qual spero, alla nuov’ira
Che vi trasporta ancor por giusto freno:
Perchè del nostro re nel core spira
Dritto voler d’ogni salute pieno
D’esservi amico omai dritto e verace,
E ricercar da voi gradita pace.
xlv
E per questa cagione a voi ne ’nvia
Tai congiunti d’amor, come sapete,
Perchè più il consentir dolce vi sia
E la credenza in noi n’aggiunga sete:
Che ’l ragionar di lingua amica e pia
Delle dubbiose insidie altrui segrete
Puote il velo squarciar con quella fede
Che nel candido petto ha degna sede;
xlvi
E perchè il mondo intenda apertamente
Che, quantunque sia re, s’inchina a voi,
Se vorrete la man chiara e possente
In difesa spiegar per tutti noi
E la vostra animosa e fera gente
Col fido Galealto e gli altri suoi
Della chiara britannica sua insegna,
Come facea l’altr’ieri, scorta vegna;
xlvii
Che quanto ha infino ad or tolto a Clodasso
E quanto nel futuro avere spera
Che non sia di Tristan, là ’ve più in basso
Per distorto cammin discende l’Era,
O del gran Clodoveo, che ’ngombra il passo
Più in alto alla medesima riviera,
E quanto è tra ’l Pirene e la Garona
A voi, come a figliuol, cortese dona.
xlviii
Poi di sette città nel suo bel nido,
Onde il nome da poi vedrete in carte,
Che sien fra l’altre di più altero grido,
In premio al faticar vi farà parte,
E col bel d’Imeneo legame fido
Lodagante leggiadra, in cui le sparte
Virtù Vener, Giunone e Palla aggiunge,
Di Ginevra sorella, a voi congiunge.
xlix
E poi ch’avrà per voi di questa guerra,
Col favor delle stelle, amico fine,
Di quel seme miglior che viva in terra
Vi darà genti nostre e peregrine
Per acquistar quanto circonda e serra
Del gran padre Oceano ogni confine,
O, s’amerete il mar, gran legni e navi
D’arme, d’oro e di cibo ornate e gravi:
l
Onde possiate solo all’alto nome
Di quanti oggi si parla andar di sopra,
E di mille ghirlande ornar le chiome
Il cui chiaro splendor tutt’altro cuopra;
Sì che i regni abbattuti e genti dome
Si mettano al narrar le piume in opra:
Tal ch’a i gran vostri onori aggiano invidia
L’India, i Rifei, l’Iberia e la Numidia:
li
E benchè tutto ciò render devria
Ogni aspro e duro cor soave e piano,
Non l’ho detto però credendo sia
Quel che muova di voi l’alma e la mano:
Ch’amor solo e pietade e cortesia
Ponno il chiaro figliuol del gran re Bano
Condurre al vendicar d’estrema sorte
Anco i nemici suoi con propria morte.
lii
Senza dunque parlar d’altra mercede,
Che pur sempre stimar si deve assai,
Muova l’altero cor chi aita chiede
Per trar, chi ha speme in lui, d’estremi guai:
E che ’l gran re di Pandragone erede
Ch’a fortuna o timor non piegò mai,
Ripentito ora a voi tutto si piega
E di voi ricovrar domanda e prega.
liii
Qual più ricco trofeo, qual spoglia opima
Può bramare in fra noi duce onorato
Che ’l vedersi ripor di lode in cima
Dallo istesso parlar che l’ha sprezzato?
E doppiato l’onor che aveva in prima
Dalla medesma man che l’ha furato?
E sentirsi chiamar per sua difesa
Da chi fatta gli avea primiero offesa?
liv
Scacciate, alto guerrier, l’ira e lo sdegno,
E del re ricevete il prego umile:
Che ’l soverchio esser duro passa il segno
Del generoso spirito e gentile,
E d’orgoglioso nome si fa degno
Vie più che di magnanimo e virile;
Chè come il contrastare è bel talora
Così ’l non ceder mai si biasma ognora.
lv
Di mille alte vittorie ornato sète
Più d’altro cavalier sotto la luna:
Ma il numero maggior comune avete
Con l’arme, co i guerrier, con la fortuna;
Or, se voi sol voi stesso vincerete,
Nè di lor nè d’altrui fia parte alcuna:
Vostro il consiglio fia, l’opra e la palma
E del divino onor l’eterna salma.
lvi
Fate ch’ei corra il grido in ogni parte
Che ’n voi sia più che gemino il valore,
E se l’armata man non cede a Marte
Non s’arrende a minerva il saggio core;
E che la cortesia, le grazie sparte
In qual regno mai fu di vero amore
Verso il patrio terreno e i signor suoi
Più ch’altrove già mai splendano in voi;
lvii
E prendete or del re le rare offerte,
Non perch’un tal guerrier l’apprezzi molto
Nè perchè ’l vostro ardir vie più non merte,
Ch’ha il duro giogo alla Britannia tolto;
Ma per far de’ mortai le menti certe
Ch’avete un cotal re con pace accolto
Come fa il peccator grazia divina
Che co i devoti doni a lei s’inchina.
lviii
Nè vogliate soffrir che tali amici,
Qual vedete noi tre che quinci semo,
Riportiamo aspri detti a gli infelici
E compagni e signor nel punto estremo:
Ma che saran più che già mai felici
Per l’oprar vostro, e ’l rio Clodasso scemo
D’ogni sua terra, e l’empio Segurano
Avrà con meno ardir più lenta mano.
lix
Qui finio Maligante, e ’n tai parole
Il duro Lancilotto gli rispose:
Perchè sprezzando il dir, dell’opre sole
Alto desire in me natura pose,
Voi, che sète fra noi lo speglio e ’l sole
Del saggio dimostrar le altere cose,
Scusate il mio parlar semplice e greve,
S’assai fia del dever più rozzo e breve.
lx
Non pensate o famoso re di Gorre,
Che mai più per Arturo io stringa spada,
Nè ch’io possa anco mai lo sdegno porre
Sì ch’al cospetto suo chiamato vada:
Onde altre forze al suo periglio sciorre,
Altra aita procacce, e in altra strada
Cerchi i suoi buon guerrier, cerchi Gaveno
Che in largo minacciar tien gli altri a freno;
lxi
Chè l’altezza del cor, la cortesia
Ch’è compagna la valor, come diceste,
Usar conviene ove raccolta sia
Dall’alme chiare e non a i buon moleste
A cui invidia e viltà chiuggia la via
Di discernere il ben, qual voi vedeste
Avvenir d’esso a me, che l’altro giorno
Ebbi del bene oprar vergogna e scorno,
lxii
Ch’or con prezzo vilissimo l’ingrato
Pensa di ristorar di terra e d’oro:
Nè si ricorda ben ch’io sono usato
Di dare, e non di tòr, regni e tesoro;
E senza suoi guerrieri o legno armato
D’Euro al nido lontan, d’Austro e di Coro
Non mi manca l’ardir di farmi strada
Col mio buon Galealto e con la spada.
lxiii
Nè voglio io Logadante, la sorella
Di Ginevra onorata, aver mogliera,
Come troppo per me leggiadra e bella,
Di virtude, d’onor, di sangue altera.
D’altrui sia sposa a cui benigna stella
Il cielo allumi, e non turbata e fera
Come a me face ognor, sì ch’aggia vita,
Quant’io bassa e ’nfelice, alta e gradita.
lxiv
E s’alcun mi dirà che la pietate
Ch’aver debbo di voi m’aggiunga sprone,
Risponderò che a torto fabbricate
Del vostro mal voi stessi la cagione.
E perchè folli omai non ritrovate
Ciascun la sua nativa regione
Più tosto che servire ingrato ed empio
Che si fa sol onor del vostro scempio?
lxv
E, se non fosse pur ch’io temerei
D’esser tenuto vil da Segurano,
Son molti giorni omai ch’io calcherei
Altro nuovo sentier di qui lontano:
Sì che con mio dolor non udirei
Chi di servo tornar mi prega in vano:
E col breve poter che sarìa meco
Forse avria di me luce il mondo cieco.
lxvi
Or potete tornar, diletti frati,
E di noi riportar la ferma voglia,
Certi d’esser da me non meno amati
Che le sue proprie luci e ’l cor si soglia.
Restan dell’alme lor quasi privati
I tre buon cavalier, colmi di doglia,
Udendo il fer voler di Lancilotto
Ch’avea già il suo parlar tacendo rotto.
lxvii
Ma il buon vecchio Lambego, il volto cinto
D’amarissime lagrime, dicea:
Perch’a sì bianca etade ha, lasso, spinto
Il lungo viver mio fortuna rea?
Perch’io veggia il terren molle e dipinto
D’intorno Avarco, a cui tant’odio avea,
Del sangue de i Britanni, ivi condotto
Dal securo sperare in Lancilotto?
lxviii
Come a ragion devea, che da i primi anni
Ch’abbandonaste il latte e la nutrice,
Viviana, che vi avea da gli aspri affanni
Del lago posto all’umida pendice,
A me vi diede, ed io de’ vostri danni
Rimostrando la piaga agra e ’nfelice
Nella memoria ancor tenera e fresca
Di vendetta al desio nodriva l’esca;
lxix
E ’n quei primi trastulli ch’all’etate
Ch’a gran pena snodar la lingua suole
Più dolci sono, or sopra carte ornate
Di pueril pitture, or con parole
In fanciullesco suon d’altrui cantate,
Or sotto alle verdi ombre, or sotto il sole
Rappresentava sol l’empio Clodasso
Che ’l gran regno de’ vostri ha posto in basso.
lxx
Io vi mostrava ognor Bano e Boorte
Or con forza scacciati ed or con frode,
E ch’ei del loro essilio e della morte
Non men che de i suoi beni invido gode,
E ’n voi dolce pietà dell’aspra sorte
Con quel favoleggiar che dolce s’ode
Accendea notte e dì, fingendo poi
Morti di vostra man lui stesso e’ suoi.
lxxi
Poscia che di dì in dì crescendo giva
L’intelletto che ’l cielo e l’uso infonde,
Con più gravi ricordi allora apriva
Quel ch’a i cor giovinetti ancor s’asconde:
Ch’al supremo d’onor quel solo arriva
Cui d’onesto desir l’anima abbonde
Di vendicare i suoi, rendendo sciolto
L’almo patrio teren tra i lacci avvolto;
lxxii
E ricercando ognor cagion novella
Ve n’empiea notte e dì la vaga mente,
Sì ben che in breve andar vedeva in ella
Il medesmo che in me volere ardente.
Tosto poi ch’al montar sopra la sella
Et all’arme vestir foste possente,
Di portare altamente mi giuraste
Sempre in danno di lui la spada e l’aste.
lxxiii
Nè infino a questi dì giuraste in vano,
Tal gli apportaste ognor danno e disnore,
Mentre che avea l’esercito lontano,
E poco il suo terreno avea timore.
Or che vicina è sì la vostra mano,
Ch’offendere il porria nel proprio core
E punir mille offese in un sol giorno,
Fa sdegnosa de i suoi pigro soggiorno?
lxxiv
Nè tien del suo dever più cura alcuna
Nè degli amici ancor pietà la muove,
I quai sospinti all’ultima fortuna
In lei drizzan la speme e non altrove?
Guardate pur che se lassù s’imbruna
La chiarissima grazia che ’n voi piove,
Com’or vi fa il maggior, tosto porria
Porvi in sorte minor ch’al mondo sia;
lxxv
Che la Preghiera umil di Giove figlia
Le ginocchia ha rattratte e ’l collo storto,
Gli omeri curvi e bieche ambe le ciglia,
La fronte afflitta e di colore smorto;
Ma dritta, snella e pronta a maraviglia,
Con le membra robuste e ’l guardo accorto,
Quale ancilla fedel per ogni calle
Sempre ha la Punizion dietro alle spalle,
lxxvi
Ma chi quella nel seno amica accoglie
E con pietoso cor dolce l’ascolta,
Del gran Parente pio piega le voglie,
Ch’alla seguace sua la forza è tolta.
Or se ’l nostro pregar da voi non spoglie
La troppa ostinazione in seno accolta,
Guardate pur, famoso mio figliuolo,
Che ’l nostro sopra voi non caggia duolo;
lxxvii
E che venga poi tempo in cui vorreste
Al mortal nostro mal donar rimedio,
Che impossibil vi fia, poi che le meste
Genti oppresse saran nel tristo assedio:
E con rampogne allora agre e funeste
V’assaliran pietà, dolore e tedio
E la disperazion, che segue ognora
Quel ch’a scernere il vben troppo dimora.
lxxviii
Or vogliate appagar queste mie voci,
Ond’ho per vostro ben già tante spese.
Spogliate al cor gli spiriti feroci
Che prepongon le basse all’alte offese,
E ne i vostri nemici aspri ed atroci
Spiegate drittamente le difese
Per quelli a cui più sète caro assai,
Che fratelli o figliuoi ch’avesser mai;
lxxix
Et vi sovvenga omai che ’l cielo istesso
Nell’altrui ripentire al fin si piega
E del tutto il fallir largo ha rimesso
A chi, com’or facciam, divoto il prega.
Prendete il largo onor che v’è concesso,
Ch’a via maggior di voi talor si nega,
E i ricchi doni in segno di virtute
E della data a noi per voi salute.
lxxx
Qui l’amare sue lagrime asciugando
Tacque il tenero vecchio, al qual rispose
Il duro Lancilotto: Or come e quando
Sì contrario il volere in voi si pose,
Che già ogni altro pensier lassato in bando,
Chiaro mio nutritor, sol quelle cose
Che m’eran care vi sentia gradire,
D’uno stesso col mio fermo desire?
lxxxi
E più non vi sovvien quante fiate
Il britannico re biasmaste meco
Di superbo parlar, di voglie ingrate
E ’nverso i merti miei d’animo bieco,
Ch’or tutta contra me l’ira voltate
Che in più dritta ragione avreste seco,
E dove esso accusar più si conviene,
Al mio soverchio mal giungete pene?
lxxxii
E con più aperto cor rispondo a voi
Che de i promessi don nulla mi cale,
Ch’assai regni ed onori ho senza i suoi
Dalla bontà infinita ed immortale,
Mentr’ella lasserà lo spirto in noi
Senza torgli il veder nè troncar l’ale,
Che per grazia di lei tant’alto aspira
Che sì basso tesor quaggiù non mira.
lxxxiii
Nè mi accresca il dolor, caro Lambego,
Il veder voi di me dolerse a torto;
E s’oltra l’uso mio questo vi nego,
Condannate d’altrui l’oltraggio scorto,
Secur, che ’l ciel, come devoto il prego,
Mi scorgerà il cammino a miglior porto,
E con onta di quello il nostro stuolo
Di periglio trarrà tosto e di duolo.
lxxxiv
E per questo sperar, con lieto core
Di restar nel mio albergo disponete,
Ch’omai troppo per voi son tarde l’ore,
E ’n nido peregrino altrove sète.
Maligante e Boorte al lor signore
Porteran le risposte o triste o liete
Quali ordinò colui, che ’l tutto vede
E dov’è il suo voler n’addrizza il piede.
lxxxv
Acconsente il buon vecchio, che disdetto
Al suo più che figliuol mai non farebbe.
Ma l’illustre Boorte, poi che in petto
Tutto il crudo parlare accolto s’ebbe,
Volto al compagno suo con fosco aspetto
Gli dicea: Maligante, se non debbe
Altra risposta farne Lancilotto,
Ritroviamo il cammin che n’ha condotto,
lxxxvi
Dicendo a tutto l’oste del re Arturo
Che per l’ira d’un sol, che ’n sen riserba,
Nega ostinatamente fermo e duro
Di scampar molti suoi da morte acerba,
E d’espugnar di quella sede il muro
Ch’è di tanti suoi danni alta e superba,
E vedere il suo onor di luce casso
Pria che la mano armar contr’a Clodasso.
lxxxvii
Ma pensate in fra voi che potrà dire,
O chiarissimo erede del re Bano,
Chi vedrà in voi poter le privat’ire
Più che ’l pubblico amor, che prega in vano;
E che ’ndarno soffriste i detti udire
Di tai due vostri amici e d’un germano
Che v’han sempre onorato con quel zelo
Che più sacro e maggior s’aspetta al cielo.
lxxxviii
Nè vi sembri di cor lodata altezza
L’esser inesorabile all’offese,
Ch’a i più saggi parrà cruda fierezza,
Poi ch’al chieder mercede altri discese.
Qual fia padre già mai di tale asprezza
In cui l’unico figlio a morte stese
Che al fin per umiltà, per preghi e doni
Con generoso cor non gli perdoni?
lxxxix
E voi, per breve suon di poche note
Ch’a sì famoso re dettò lo sdegno,
Delle voci pentite e ’n voi devote
Non tenete il pregar di pace degno:
E tale ogni ragion dal cuor vi scuote
Che ponendo in oblio la patria e ’l regno,
I suoi cari signori e gli altri in tutto,
Non vi cal di vedergli in morte o in lutto.
xc
E so ben che di me l’antiche prove
Vi ponno assicurar che tema alcuna
Al ragionarvi tal nulla mi muove,
Nè il turbato voltar della fortuna:
Ch’altra aita non vo’ che ’n ciel da Giove
E da questa mia man sotto la luna;
Ma l’impero del re, l’altrui pietade
Mi fece al venir qui trovar le strade.
xci
Con parlar dolce Lancilotto allora
Risponde: O mio chiarissimo germano
Nel cui buon cor tanta virtù dimora
Che d’ogni cavaliero il fa sovrano,
Ben conosch’io che forse alquanto fuora
Vo dal dritto cammin del corso umano,
Trasportato dall’ira, ch’oggi è tale
Che a ritenerle il fren nulla mi vale:
xcii
Ma miracol non sia, che troppo pesa
All’anima gentil che gloria brama
Il sentirse da quello a torto offesa
Che qual sacro immortale onora ed ama:
Prendendo contro a lei per uom difesa
Che d’alto orgoglio sia, di bassa fama,
E scacciarse spregiando, come cosa
Inutile, vilissima e noiosa;
xciii
Poi mandarla a chiamar, quando lo stringe
Il bisogno maggior, che vinto giace,
Con mille alte promesse che si finge
Per lei ingannar lo spirito fallace:
Come accorta nutrice che rispinge
Col mostrar dolci pomi a nuova pace
Fanciullo irato cui plorar fa lunge
Della verga il dolor ch’ancora il punge.
xciv
Or, s’a grado vi fia, con Maligante
Al Britannico re direte ch’io
Non intendo di qui muover le piante,
S’altro non disporrà nel cielo Dio,
Se pria non veggia in orrido sembiante
Assalir Segurano il popol mio;
Ma ch’allor farò sì che a questo albergo
Vedrò quanti saran voltare il tergo.
xcv
Qui pon fine al suo dire; e ’l pio Boorte
Pien di dolore il sen tacito resta:
Altresì Maligante, a cui la sorte
Del suo misero stuol troppo è molesta,
Poi che non trova più che ’l riconforte
La speme ch’apparia vicina e presta
D’aver Clodasso in mano e la sua terra,
Se ’l fero Lancilotto usciva in guerra.
xcvi
Pur, chiaro quanto può fingendo il viso,
Doppo alquanto pensar dicea: Signore,
Quel supremo Motor ch’oggi diviso
Tien da i nostri desiri il vostro core
Con sì gran duol, con altrettanto riso
Ne porria ricongiungere in poc’ore,
E se pur non farà, per altra via,
Quel ch’esser dee di noi farà che sia.
xcvii
Al qual, per quello amor ch’io già portai
Al vostro alto valor, devoto chieggio
Che voi tenga lontan da simil guai
In cui, vostra mercè, noi cinti veggio;
Vostra mercè dirò, se i tristi lai
Di quei ch’oggi il morir temono, e peggio,
Tanto pon muover voi col suo cordoglio
Quanto puote Aquilone orrido scoglio.
xcviii
Così detto, soletti fan ritorno
I due, ch’ivi rimase il vecchio antico:
A cui già molti servi erano intorno
A sgravarlo dell’arme in atto amico.
Poi ’l dolce letticciuol gli fanno adorno,
Secondo il picciol loco, in sito aprico
Ov’ei vegna a posar le membra stanche
Fin che ’l notturno vel l’aurora imbianche.
xcix
I tristi cavalier dall’altra parte
Con la risposta lor ratti inviati,
Dalle genti in cammin, ch’erano sparte
Son con sommo desire accompagnati.
Hanno speranza tutti, e temon parte,
Come il più spesso fan gli sconsolati:
Ma nessun di spiar baldanza prende
Se il lor gran re primiero non l’intende.
c
Giungon poscia all’albergo dove Arturo
Tra molti cavalier bramando siede,
Il qual del suo pensar poco securo
Comincia a domandar, come gli vede:
Resta ancor Lancilotto acerbo e duro,
O pur dal vostro dir piegato cede,
Dispogliando al suo cor l’ira e lo sdegno,
Dell’antica ragion tornare al segno?
ci
Cotal domanda, e ’l saggio Maligante
Risponde: Re famoso, Lancilotto
Col pio nostro pregar non più che innante
Nel soccorso de i nostri avemo indotto:
Nè i chiari don nè le promesse tante
Del suo sdegno il cammino hanno interrotto,
Ma più l’han fatto assai largo ed aperto,
E di sempre esser tale afferma certo.
cii
E ’l medesmo ch’io dico anco Boorte,
Che ’l riprese e ’l biasmò, narrar porria;
Lambego no, chè chiuse gli ha le porte
E di qui ritornar tronca la via,
Irato contr’a lui che l’altrui sorte
Seguiva, e non la sua, come solìa,
Mentre il buon vecchio uman piangea di doglia
No ’l potendo ritrar dall’empia voglia.
ciii
Qui finio Maligante, e ’l re famoso,
E quanti altri ha con lui muti restaro:
Chi del comune onor resta pensoso,
Chi temea di se stesso il fine amaro.
Ma il nobile Tristan non tenne ascoso
L’armorico valore invitto e chiaro,
E dicea: Sacro re, poi che da voi
Non manca d’acquetar gli sdegni suoi,
civ
Nè vi puote accusare il vostro stuolo
Che troppo a danno suo foste ostinato,
Non prendete di ciò soverchio duolo,
Chè forse miglior via troverrà il fato,
E ’l soverchio pregar talora il volo
Cresce al furor d’un cavaliero irato:
Ma serrato in se stesso, a poco a poco
Torna in cenere al fine ogni aspro foco.
cv
E non temete in van che di lui privi
Noi deviam de i nemici essere in mano,
Nè per ciò di vittoria al colmo arrivi
Il superbo Clodino e Segurano,
Mentre tanti altri duci integri e vivi
Sono ancor vosco; e mentre che Tristano
Può la spada vibrar, regger lo scudo,
Non vogliate di speme essere ignudo.
cvi
Nè il ricevuto danno dia credenza
Che non sia il vostro esercito quel ch’era
Nè che i nostri avversari altra eccellenza
Aggian, nè più che pria nell’arme fera.
Tengasi pure in bando la temenza
E l’arme al guerreggiar si serve intera,
Con richiesto riguardo e dentro e fuore,
Ch’ei non n’avvegna mai per nostro errore.
cvii
Ristori pur ciascun le membra omai
E di cibo e di vin, ch’al sonno appresso
Possiamo in guardia dar gli avuti guai
E ’l vigor rinforzar frale e dimesso:
A fin che pria che ’l sol raccenda i rai
Sia nell’ordine suo ciascun rimesso
Per difender noi stessi o premer quelli,
Se pur l’occasion mostre i capelli.
cviii
Così detto, all’albergo ha mosso il piede;
E gli altri duci ancor l’istesso fanno,
E di Meliadusse il grande erede
Sovra ogni altro guerrier lodando vanno.
L’altro popol minor, che sente e vede
Il suo volto e ’l parlar, l’avuto danno
Pensa già ricovrar, sì chiara luce,
Di speranza ne i cor Tristano adduce.
cix
E con sommo desio ciascun ritruova
Sotto il suo basso ostel l’inculta cena,
Nella qual ragionando si rinnuova
L’aspra guerra mortal di sangue piena;
E ’n dolce sicurtà diletta e giova
Il rimembrar fra lor l’andata pena.
E poi ch’hanno al digiun sazie le voglie
Giocondissimo sonno in sen gli accoglie.