Avarchide/Canto XIX
Questo testo è incompleto. |
◄ | Canto XVIII | Canto XX | ► |
CANTO XIX
ARGOMENTO
Assalta il campo avverso Segurano;
Rompe una porta, e fa stragi inudite;
Ma al soccorso de’ suoi move Tristano:
Arde la pugna; scendon molti a Dite.
Poi che il sol si nascose in Oceàno
Fin mette l’ombra alla funesta lite.
Galcalto domanda in tal periglio
L’armi fatali del re Bano al figlio.
i
Ciascun duce d’Avarco l’ampie schiere,
Che al sommo impero suo commesse foro,
Va intorno visitando e ’n voci altere
Quel che deggiano oprar dimostra loro;
Ma sovra ogn’altro poi si può vedere
Mostrando il dragon nero in campo d’oro
Il fero Seguran; che tutti insieme
Pien d’ardente furor sospinge e preme.
ii
E dice: Or questo e’ il tempo in cui mostrarse
Convien l’alta virtù che ’n core avemo,
E quel chiaro splendor, che largo apparse
Del Britannico onor, rendere scemo;
Che le glorie di lor per tutto sparse,
E per sì lungo tempo, acquisteremo
In questa valle sola e ’n questo giorno,
Pria ch’all’occaso il sol faccia ritorno.
iii
Ricordatevi pur che ’l ciel ne mostra,
Se calcar la saprem, la strada breve
Di fine imporre alla infinita nostra
Già sofferta fatica e sudor greve;
E che dentro a quei fossi omai la vostra
Pace e riposo ritrovar si deve,
E con lode immortal larga ricchezza,
E tutto il sommo ben che ’l mondo apprezza.
iv
Or non sapete voi ch’ivi entro stanno
Di mille alme cittadi i tesori ampi?
Ch’oltra il mare e di qua dispogliati hanno
I più fertili, aprici e lieti campi;
Che dall’unghie rapaci del Britanno
Non e’ tempio onorato che ne scampi;
Ma delle prede antiche e falli suoi,
Eredi e punitor sarete voi.
v
Accingetevi pur con core ardito,
Qual più conviene a sì onorata impresa,
Contra un popol già lasso e sbigottito,
Che larghi argini e valli ha per difesa,
Di cui l’imperador giace ferito,
Boorte e molti che v’han fatto offesa;
Nè resta altri fra lor, che ’l nome vano
Dell’Armorico giovine Tristano.
vi
A cui prometto io sol tal freno imporre,
Ch’a gli altri cavalier nocerà poco;
Nè ’l salverà da me fondata torre,
Nè riparo miglior di chiuso loco;
Ch’ogni suo schermo, ogni sua forza torre
Spero al primo apparir con ferro e foco,
E render tosto il tutto eguale e piano
Sì, che ’l difenda sol l’arme e la mano.
vii
Già tacendo il gran duce, a lento piede,
Ch’essi seguan pregando, il passo muove
Verso la porta, alla cui guardia siede
Il buon Tristan, che no ’l vorrebbe altrove;
Come poi più vicino esser si vede,
Empiendo l’aria e ’l ciel di varie e nuove
Barbare voci e di suono aspro ed alto,
Velocissimo il gir drizza all’assalto.
viii
Nè impedimento alcun d’argine o fossa
Gli contende il sentier, ch’ei non s’avvente
Oltr’ogni spazio e con l’estrema possa
Di passar’oltra sol non s’argomente;
Prende essa porta e mille volte scossa
L’ha in guisa tal, che ’l popol ne spavente;
Dietro a lui son l’insegne, che ’l cammino
Van mostrando al lontan, come al vicino.
ix
Vien l’altra gente poi calcata e stretta,
Con gli scudi fra lor serrati in guisa,
Che pria che penetrargli, ogni saetta
Del più pregiato arcier saria ricisa;
Van di par sempre e ben l’un l’altro aspetta
Sì, che dal vario andar non sia divisa
L’annodata ch’avean secura forma,
Stampando unitamente l’istess’orma.
x
Scendon nel fosso; e quel ch’è indietro aita
Quanto può quel dinanzi alto salire,
Ove dal vallo e l’argine impedita
La via ritrova al chiaro suo desire;
Spingonsi insieme e con bei detti invita
L’un l’altro all’opra di mostrare ardire;
E tentando in fra lor novelle forme,
Vanno ora insieme, or’han diverse l’orme.
xi
Or come mai potrà lingua mortale
Raccontar tutto a pien l’alto romore?
I colpi orrendi poi d’asta e di strale
Del popol folto ch’or ancide or muore?
Di scende percosso e di chi sale,
Cangiando il viver suo con largo onore?
E la grandine spessa che qui cade
Di sassi e dardi all’arenose strade?
xii
Ch’ora il pio Blomberisse, or Gossemante,
Che di Tristano il dì compagni furo,
Va con l’asta ferrata indietro e innante,
Scorrendo intorno il combattuto muro
E quale al sommo omai posa le piante,
E di vittoria aver si tien securo,
Percosso in fronte e con pallente faccia,
Senza spirto raccor, tra’ suoi ricaccia.
xiii
Fa il medesmo Blanoro, il terzo duce,
Che congiunto con lor si trova all’opra;
Che questo a spasmo e quello a morte adduce,
L’un di sotto riverso e l’altro sopra;
E chi contra i suoi colpi si conduce
Non ha scudo a bastanza che ’l ricopra;
Che ’l porfir, l’adamante, o s’altra sia
Pietra più dura ancor, poco saria.
xiv
Montò spinto da’ suoi superbo in vista
Sopra l’argine estremo il Ner Perduto,
Sì che i miglior guerrier d’intorno attrista
L’oscuro tigre suo, ch’han conosciuto;
E la tema era in lor con danno mista,
Se non tosto giungea con largo aiuto
Blanor correndo al subito romore,
Che gli percosse in un l’orecchie e ’l core.
xv
E ’l trova, che più d’un già impiagato ave,
E l’acquistato loco si difende,
E chiama i suoi dicendo: Ora ho la chiave,
Che la porta apre, onde il ben nostro pende;
Ma giunto a destra, ove men guarda e pave,
La man sopra di lui Blanoro stende,
E con l’asta mortal, che vien traversa,
Sopra quei, che ’l seguian, tosto il riversa.
xvi
Non con altro romor nel fondo diede
Del più inchinato fosso delle spalle,
Che scoglio alpestre ch’alla riva assiede
D’aspro torrente, a cui ristringa il calle;
Che di pioggia arricchito, irato il fiede,
E lo sveglie indi e rimbombar la valle
Fa col suo rovinar, tremando i cori
A gli armenti vicini e a’ lor pastori.
xvii
Non fu ardito guerrier che ciò sentisse,
Che dal danno di lui non prenda essempio,
Fuor che ’l fero Grifon, che sempre visse
D’animo invitto, ma superbo ed empio;
Il qual, Giove biasmando, altero disse:
Donami pur, se vuoi, l’istesso scempio,
Ch’io non curo il morir, mostrando almeno,
Che ’ntrepido il voler riserbo in seno.
xviii
Cotal parlava allor, credendo morto
Il suo caro cugin, ch’amò cotanto;
Ma come vide poi, ch’era risorto,
Rivoltò in ira di dolore il manto;
Ma il fero Seguran da Marte scorto
Di ridur tutte in polve si dà vanto
Le fortissime porte con la mano,
E di vita e d’onor privar Tristano.
xix
Vede un grosso troncon, che traggon’ivi
Sei più forti guerrier di quello stuolo,
Versando di sudor dal volto rivi
Con lungo e faticoso affanno e duolo;
Ratto entrato fra lor, d’esso gli ha privi,
E con ambe le mani il prende ei solo,
E se ’l pon sopra l’omero, sì come
Villanella d’agnel tondute chiome:
xx
E va inverso la porta a largo passo,
E con quello aspramente la percuote,
E sovente addoppiando or alto or basso,
Qual terremoto o folgore la scuote;
Non aspetta Tristan vederlo lasso,
O le speranze sue d’effetto vòte,
Ma stimando in suo cor d’onore indegno
Chi riparo si fa di muro o legno;
xxi
Chiama a sè Blomberisse e Gossemante,
Dicendo: Or non movete d’esto loco,
Guardando ben l’entrata, mentre innante
Contr’a quel vada, che ne prende in gioco;
Blanoro e ogni altro cavaliero errante,
Che le nemiche spade apprezza poco,
Segua il mio gire in parte, ove quest’alma
Lasserò nuda o l’ornerò di palma.
xxii
Così detto, la porta in un momento
Quanto ogn’uscio si stende mostra aperta;
Et ei, qual leve stral, qual foco e vento,
Con brevissima schiera seco inserta
Vien sopra Seguran, ch’è troppo intento
Alla vittoria sua, che sperò certa;
E con l’urto improviso in modo il preme,
Che lo stend’ivi col suo tronco insieme.
xxiii
Indi oltra penetrando tra i guerrieri,
Quel privato ha di membra e quello ancide;
Trova Entello il primiero in tra i più feri,
E la fronte in due parti gli divide;
Aventin getta a gli aridi sentieri
Senza il piè destro, ch’all’albergo il guide,
Euforbo, Amitaone e Forcino
Quel senza braccio e questo a capo chino.
xxiv
Non con altro terror va tra costoro,
Che famelico lupo a i caldi tempi
Tra le gregge sott’ombra e fa di loro,
Pria che senta il pastor, crudeli scempi;
E i can, ch’al nudo sol gran tempo foro,
Prendendo da i signor dovuti essempi,
Si rinfrescan nel sonno alla verdura,
Che dal raggio d’Apollo gli assicura.
xxv
Tal questi miserelli, che non hanno
Di quei, che dentro son, timore alcuno,
Restan sì spaventati al nuovo danno,
Che saldo a i colpi lor resta nessuno;
Il pio Blanoro e quei che con lui vanno,
Han già morti gettati ad uno ad uno
Della plebe vulgar sì larga schiera,
Che l’arena coperta intorno n’era.
xxvi
E seguivano ancor; ma il re Tristano,
Che securo non va di chi più importa,
Teme che non risurga Segurano,
E sforzi al fin l’abbandonata porta;
Va richiamando indietro a mano a mano
Il suo Blanoro e l’onorata scorta;
E poi ch’egli è di genti uccider lasso,
Verso il campo de’ suoi rivolge il passo.
xxvii
E trova, qual temea, che ’l grande Iberno,
Che di terra animoso era levato,
Già pien di sdegno dell’avuto scherno
Fra i due gran cavalieri era arrivato;
Ove par l’uno e l’altro all’aspro verno
Scoglio, che invitto aspette il mar turbato,
Il qual, senza crollar la fronte o ’l piede,
Indarno questo e quello inonda e fiede,
xxviii
Il primo ch’egli incontra è Gossemante,
Che la sinistra parte in guardia ha presa,
E gli diè colpo in fronte sì pesante,
Che ’l cerebro intonato n’ebbe offesa;
Non però d’indi pur moveo le piante,
Ma s’apparecchia ancora alla difesa,
Quand’ei raddoppia il colpo e fu cotale,
Ch’a ritenerlo in piè nulla gli vale;
xxix
Che il forte elmo ha squarciato il brando crudo,
Come d’arbor novel tenera scorza,
Poi tagliò l’osso, ove il ritrova ignudo,
Che ricopre la fronte, ove ha più forza,
E non seppe al bisogno oprar lo scudo,
Così ’l vitale spirto in esso ammorza,
Che ’l collo anco partì tra le due spalle,
E ’l pon disteso al mal guardato calle.
xxx
Non con altro romor ch’eccelso pino,
Ch’al gran monte di Pelia in fronte nato,
Dal pratico nocchier, che sta vicino,
Per carena al suo legno è disegnato;
Chè ’l taglia in basso; ed ei col verde crino
A chi l’offese più rovina a lato;
Chè non può al suo cader fuggir sì presto,
Che con le frondi almen gli vien molesto.
xxxi
Va incontra poscia irato a Blomberisse,
Ch’al suo caro compagno era in aita,
E tutto il seme Iberno maladisse,
Ch’a sì caro guerrier tolse la vita,
Poi sospirando e minacciando disse:
Se la vendetta sua mi vien fallita,
Spietato Seguran, ti affermo certo,
Che ’l fin medesmo dal tuo brando merto.
xxxii
E così ragionando in fronte il fere
Con grave asta ferrata ad ambe mani,
Ma nello scudo sol venne a cadere,
Che i desir di vendetta rendeo vani;
L’altro, come cinghial che tra le schiere
Di folti cacciatori entra e di cani,
Senza la spada oprar, col capo basso
L’urta e l’atterra e si fa largo il passo.
xxxiii
E tra la gente poi, ch’ivi era folta,
Col medesmo furore oltra si spinge,
E col brando mortal, che ’ntorno volta,
Di vermiglio color la terra pinge:
Il buon re Lago, che di lunge ascolta,
Co’ migliori e col figlio si ristringe;
E dove ode il gridar, con ratto corso
Confortando ciascun drizza il soccorso:
xxxiv
E trova Seguran, ch’ivi parea
Tigre o fero leon, ch’al primo assalto
Pose il cane e ’l pastore a morte rea,
Poi la mandra varcò d’un leggier salto,
E sbramando la fame, che ’l premea,
Pon la misera gregge al nudo smalto,
E con rabbioso dente all’istess’ora,
E la madre e l’agnel sugge e divora.
xxxv
Egli avea d’un sol colpo a terra steso
Più di cento guerrier tutti in un monte,
L’un nelle spalle e l’altro al petto offeso,
Quel ferito nel ventre e questo in fronte;
Vien l’Orcado famoso e ’l grave peso
Tra le sue fresche schiere al ferir pronte
Sostien con l’opra e poi col dire sprona
Al passo innanzi trar chi s’abbandona.
xxxvi
Ha seco il figlio Eretto e Ganesmoro,
E Meliasso ancor ristretti insieme;
Scontran l’Iberno ch’all’estate un toro
Sembra, quando l’assilo il punge e preme;
E col medesmo core entra fra loro,
Che faria fra le gregge e nulla teme;
Pur sentendo di quei l’acuto brando,
Già del primo furor si truova in bando.
xxxvii
Perch’Eretto il primier sovra la testa,
Che non potè covrire, il ferì tale,
Che l’andar cominciato alquanto arresta,
E di ciò ch’aggia a far dubbio l’assale;
Vien l’altra coppia intanto che ’l molesta
Sì ch’a gran pena omai sua forza vale
A tanti contrastar; ch’ancora arriva
L’altro stuol tutto e ’l conduceva a riva;
xxxviii
Se non ch’ei riguardando intorno vede,
Che d’alcun suo guerrier non è seguito;
Tal ch’essendo soletto alla fin cede
Alla necessitade il core ardito;
Ma pria ch’ei torni l’animoso piede,
Pon di tre colpi uccisi sopra il lito
Astifilo, Midone e Stersiloco,
Nati in Pomonia nel medesmo loco.
xxxix
Indi come cinghial che intoppo trova,
Chè di più oltra gir gli chiude il calle;
Che poi che di squarciarlo indarno prova,
Torna la fronte al fine, ov’ha le spalle;
E spronando il furor, di strada nuova
Cerca il traverso alla spinosa valle,
E ’n quanti può incontrare il dente adopra,
Questo e quel riversando sotto e sopra:
xl
Così il crudele Iberno al manco lato
Tra la schiera ch’ha indietro si ricaccia,
Poi che ’l primo cammin vede serrato,
Nè ’l porria bene aprir forza ch’ei faccia;
Trova l’ordin confuso e mal guidato,
Qual chi fuor di timor si mette in caccia;
Sì che senza contrasto affretta il passo,
Riversando nel gir più d’uno in basso.
xli
Così senza tener cura d’alcuno,
D’Euro sopra il ruscel già posto ha il piede,
Di lontan perseguito da ciascuno,
Chè chi di fromba e chi di dardo il fiede;
Ma vicin con la spada omai nessuno
Di proprio o d’altrui mal vendetta chiede;
Poi gli altri duci e l’Orcado e ’l figliuolo
Di poterlo raccor gli toe lo stuolo.
xlii
Giunto egli adunque ove le basse arene
Del lento fiumicel l’onda raggira,
Si volge a tergo e gran vergogna tiene
Di ritornarse indietro e ne sospira;
Pur la turba infinita, ch’ancor viene
Tra i miglior cavalier, gli spengon l’ira
Sì che d’esso varcar consiglio prenda,
Ma non sì, che qualcun pria non offenda.
xliii
Perchè ’ndietro rivolto, appresso scorge
Panemone ed Agan venirgli al fianco;
In lor la spada ricorrendo porge,
E percosse il primier nel lato manco;
L’altro ch’a vendicarlo irato sorge,
Percosse in fronte e pallidetto e bianco
Nel bel dell’età sua, ch’all’aprile era,
Spensel qual rosa o fior la pioggia fera.
xliv
Poscia un salto leggier nell’onde prese,
Le quai, con gran romor del greve pondo,
Saliro in alto, quanto in basso scese
Il fero Iberno all’arenoso fondo;
E le cerulee gonne intorno offese
Dell’alme ninfe, col colore immondo
Delle arme sanguinose in altrui danno,
E ’n tra’ suoi si ritrae con breve affanno.
xlv
Ma il famoso Tristan, poi ch’ha mostrato
Al superbo avvresario che non sia
Del suo primo valor tutto spogliato,
Se bene il prema allor fortuna ria;
Tornando indietro sente d’ogni lato,
Che ’l fero Segurano ucciso avia
Il suo buon Gossemante e Blomberisse
Quasi condotto a tal, ma poi rivisse:
xlvi
E ch’egli era nel campo entrato solo,
E gravissimo danno ha fatto e molto;
S’empie il candido sen d’onta e di duolo,
E si mette crudel tra ’l popol folto,
Qual lupa alpestre, che si muova a volo
Contra il fero mastin, che gli abbia tolto
Il più caro di tutti al mezzogiorno,
Mentre i figli a lattar facea ritorno.
xlvii
E fa di tutti quei sì largo strazio,
Che pensar non si può, non che ridire;
Pon venti uomini a terra in poco spazio,
I quai non gli volean la strada aprire;
Ma quanti più n’uccide meno è sazio
Del sangue loro e men quetate ha l’ire,
Quando gli risovvien di Gossemante
Così famoso cavaliero errante.
xlviii
Poc’oltra va, che assai presso alla porta
Che con somma virtù guardò Blanoro,
Conosce il Fortunato, che fa scorta
A’ suoi Pannoni e combattea fra loro;
Allor qual orso alpestre ch’aggia scorta
Senza vicino aver mastino o toro
Giovenca al prato, se gli avventa sopra,
E per torgli la vita il brando adopra.
xlix
E ben fatto l’avrebbe, se Grifone
Dell’Alto Passo giunto a lui non fora,
Ch’alla mortal battaglia s’interpone,
E trae ’l compagno di periglio fora;
Ma del suo danno stesso fu cagione,
Perchè ’n vece di lui, lasso, dimora
Tra le nemiche mani in tal maniera,
Ch’al più lucente sol s’adduce a sera.
l
Perchè sendogli tolto lo sfogare
L’Armorico furor contra il primiero,
Il versa in esso: e senza spazio dare,
Tre volte il fere ove alto sta il cimiero;
Al terzo colpo il fa per terra andare
Diviso in due; che non gli resta intero
Se non dal busto in giù la parte, in cui
Sta quel, ch’avanza al nutrimento altrui.
li
Morto il nobil Grifone, il Fortunato
Per raggiugner Tristano ilpasso affretta;
Ma il seguitar più innanzi gli è vietato
Dalla gente che fugge accolta e stretta;
Il buon Tristan non meno sconsolato,
Quantunque parte feo della vendetta
Del caro Gossemante, il sentier tinge
Di nuovo sangue, ovunque il brando spinge.
lii
E fra la turba Antifono e Ialmeno,
Pannoni entrambi e di Grifon parenti,
Quel del cor trapassato il destro seno,
Questo le tempie, crudelmente ha spenti;
Con lor d’Ibernia l’orgoglioso Ebeno
Dispregiator di tutte umane genti,
Perchè di Marte figlio esser credea,
Pon nel ventre impiagato a morte rea.
liii
Uccidendo oltr’a quegli altri infiniti,
Ma di nome vulgar, si fa il cammino;
Ma poi ch’è presso e sopra i tristi liti
Scorge il misero amico tal vicino,
E tanti intorno afflitti e sbigottiti,
Ch’han perduto chi ’l frate e chi ’l cugino,
Cotal doglia e furor l’alma gl’incende,
Che d’indietro tornar consiglio prende.
liv
E qual tigre d’Ircania che ritrove
Da ’nsidiosi villani uccisi i figli;
Che rabbiosa fra lor battaglia muove,
In cui ’l morso stendendo, in cui gli artigli;
Onde il sangue di fuor sì largo piove,
Che i verdeggianti campi fa vermigli;
Nè si mostra ella sazia, in fin che manche
La turba intorno o che le forze ha stanche.
lv
Tal l’Armorico duce indietro volto,
Poi ch’a inteso per ver che Segurano
Tornato è fuora e ’l lui seguior gli è tolto,
Spiega sopra costor l’ira e la mano;
E tanto miete omai del popol molto,
Ch’ei n’ha coperto il sanguinoso piano:
Poi ch’ogni gente è già fuggita o morta,
Ricerca al fin la mal lassata porta.
lvi
La qual, come pria fu, tosto riserra
Che ’l consiglio dell’Orcado fu tale,
Dicendo: In molti lochi aviam la guerra,
E largissimo stuolo il tutto assale;
E veramente l’uom vaneggia ed erra
In sì torbidi tempi a cui più cale
Di falsa gloria che di star sicuro,
Poi che ’l ciel così vuol, tra fosso o muro.
lvii
E no ’l diceva in van, chè Palamede
Col forte Dinadano e Brunadasso
Di montar dalla destra alto provvede,
E già non lunge al vallo aveva il passo,
Mentre il popol ch’è lì, tentando al piede
Con zappe e con marron l’argine in basso,
Cercan d’apparecchiar sì larga strada,
Che la grave armatura indi entro vada.
lviii
Nè dall’istessa man Brunoro il Nero,
Col Provenzal Margondo e Gracedono,
Al procacciar anch’ei nuovo sentiero
Più di quei neghittosi o lenti sono;
Ma chi sopra i guerrieri usa l’impero,
Chè nessun lasse l’opra in abbandono;
E chi al popol maggior va sprone e scorta,
Che dal frondoso bosco i rami apporta:
lix
E ne riempie il fosso sì che agguaglie
Quanto si può vicin l’altezze estreme;
Ma il franco Lionello aspre battaglie
Fa intorno ad essi e gli rispinge e preme;
Chè ’l possente arco suo le salde maglie,
E gli acciari e gli scudi passa insieme,
In sì veloce andar ch’ad ora ad ora
Quel ferito e quel morto è tratto fuora.
lx
Egli era entro la torre che fiancheggia,
Fin dov’era Tristano, il manco lato;
E d’indi ascoso, ove nessuno il veggia,
Chi ferito riman chi spaventato;
Onde sforza il nemico, chè provveggia
In nuova altra maniera o ceda al fato
D’indietro ritornar, ma ciò non vuole
Palamede ostinato, come suole.
lxi
Ma lassando tutt’altro si congiunge
Con Brunoro e co’ suoi, ch’avea vicino;
E con doppiato stuol veloce giunge
Dell’aspra torre al prossimo confino;
E col desio d’onor, che ’l cor gli punge,
Grida altamente intorno: Il mio destino
Pria mi furi la vita, che mi toglia
Il prender’ o spianar l’altera soglia.
lxii
Poi conforta i guerrier dicendo: Un’ora,
E non molta fatica trar vi puote
Di lungo affanno e di periglio fuora,
Se l’alme avrete di temenza vòte;
In questo punto sol tutto dimora
Il largo onor che le celesti rote
V’han promesso, e ’l guadagno; e ’n voi sol giace
D’acquistar sommo bene e lunga pace.
lxiii
Così detto, il primiero in basso scende,
Nè gli resta Brunor molto lontano,
E lì medesmo il ratto passo stende
Safaro, Gallinante e Dinadano,
Poi tutti gli altri appresso e ciascun prende
Ferro o pesante legno, e non invano;
Che in guisa fan tremar di quella il seno,
Che se ne crolla intorno anche il terreno.
lxiv
Sì come avviene, ove Nettunno imprima
Speco aspro e cavo, ch’al suo gir s’oppone,
Che de i monti crollar l’altera cima
Fa tutta intorno e l’altra regione;
Ora il buon Lionel, che seco estima,
Che d’aita appellare aggia cagione,
Con sì pochi guerrieri essendo solo,
Contra sì chiari duci e tanto stuolo;
lxv
Il fido messaggier Toote chiama,
Parlando: Or ricercate a ratto corso
Il buon Tristano e ditegli, s’egli ama
Il comune alto onor, mi dia soccorso,
Che fuor che Seguran, qual altro ha fama
Tra i miglior cavalieri è quinci accorso;
E per torne di qua studiano il passo
Palamede, Brunoro e Brunadasso.
lxvi
Non ritarda Toote e ’nmantenente
Trova Tristan, che come udito l’ave,
Dice al suo Blomberisse: La mia gente
Conosch’io ben che dell’Iberno pave;
Però vi prego aver l’occhio e la mente
Che non le avvegna caso ontoso o grave,
E se ’l bisogno fia, fate chiamarme
Da chi con Lionel potrà trovarme.
lxvii
Con tal ordin s’invia ratto alla torre,
Che con sommo valor si difendea;
Qui il famoso Baven, lì Nestor corre,
Ove il mestier maggior si conoscea;
E quanti può ciascuno in man raccorre,
Ch’al bisogno infiniti ve n’avea,
Sassi, tronchi, terreno, arbori e travi,
Tanti ne gettan giù nodosi e gravi.
lxviii
E cadean di lassù sì spesse e folte,
Come al verno maggior la neve suole,
Se Giove i monti e la campagne sciolte,
Gli arbori, i campi e i prati asconder vuole;
Chè i venti acqueta ed ha le nubi accolte
Più fredde in basso e più nemiche al sole;
E ’l viator tremando a poco a poco
D’un medesmo color vede ogni loco.
lxix
Cotyale ivi apparia l’aspra tempesta,
Che da quei difensori in basso scende,
E ’l piede, il petto, gli omeri e la testa
A questo a quello amaramente offende;
Nè il gran popol d’Avarco in posa resta,
Che l’arme ivi cadute in man riprende,
E col furore in alto la rigetta,
Che fa il percosso in ricercar vendetta.
lxx
Ma quei, che più lontan dal fosso stanno,
Con varie aste leggieri e frombe ed archi
Fanno a quei della torre estremo danno,
E nel mostrarse fuor rendon più parchi;
Or quinci e quindi parimente vanno
D’entrambi i colpi ne i medesmi varchi;
E ’l montare a ’l calare insieme aggiunto
Si puote ivi veder quasi in un punto.
lxxi
Sembrano al rimirargli estiva pioggia,
Quando subita appar nel mezzogiorno,
Che ’l Noto all’Aquilon contrario poggia,
E quanto in mezzo sta girano intorno;
Ch’or saglie or cade in disusata foggia
L’onda e più volte cangia il suo ritorno,
E le piante impiagando or alte or basse
Fa di frutti e di frondi ignude e casse.
lxxii
E vie meno è ’l romor su gli alti tetti
Della più dura grandine all’agosto,
Cagion che ’ndarno il villanello aspetti
Il soave liquor del nuovo mosto,
Di quel, che ’n su gli scudi e ’n su gli elmetti
Risuona intorno, mentre in terra è posto
Questo e quel cavalier morto o ferito
Sì ch’al più guerreggiar resta impedito.
lxxiii
E ’l saggio Lionel di parte ascosa
Ha molti buon guerrier di vita privi;
Tra quei Nolanto, che nell’aria ombrosa
Nacque, ove al mezzo april gielano i rivi,
Dentro all’Ebrida Cumbra, e sanguinosa
Gli fè la destra orecchia e morto quivi
Tra le braccia di Schedio suo cognato,
In non molto per lui securo lato;
lxxiv
Perchè mentre il meschin per altrui piange,
E ’l vuole indi portar, vien nuovo strale,
E ’l percuote alla fronte e tutto frange
L’osso, che in alto fra le ciglia sale,
Sì ch’anch’ei muore; e ’l nobile Florange,
Che per lassuso andar guida le scale,
Fu percosso alla gola, e ’n quello istesso
Loco alla coppia prima cade appresso.
lxxv
Uccise doppo lor Fere e Talmone,
Ambedue Frisi e cavalier d’onore;
A questo il ferro entro alla gola pone,
A quel nel seggio del sanguigno umore,
Ma non per ciò la fera opinione
Cangiarsi può nell’ostinato core
Del crudo Palamede, che si caccia
Più sempre adentro e rovinar minaccia.
lxxvi
Egli aveva in tal guisa al basso piede
Della torre già fral la terra scossa,
Chè poco tempo omai seco s’avvede,
Ch’al gran peso che porta regger possa;
Ond’ei s’allarga alquanto e poi provvede,
Che d’altre parti intorno sia commossa
Da lunghi legni e duri; e non s’inganna,
Chè per lei rovinar poco s’affanna;
lxxvii
Che per breve crollar, qual’era integra,
Senza ritegno aver, giù in basso cade,
Con l’alto rimbombar ch’udiro a Flegra
Le cenerose e fumide contrade;
Vien tenebroso il ciel d’oscura e negra
Polve, ch’al rimirar chiudea le strade,
Sì che molto passò, pria che ’l vedere
Potesse il primo stato riavere.
lxxviii
E col suo rovinar condusse molti,
Che ciò non attendeano, al cader fuora,
Di quei d’Arturo, che restar sepolti
Tra legni e travi alla medesim’ora;
Altri son morti ivi entro, altri disciolti
Di quei che Marte tra i migliori onora;
Come Nestor di Gave e Taulasso,
Che sì tosto s’alzar, che furo in basso:
lxxix
Chè ancor tengon la spada, e senza tema,
L’uno e l’altro ripien d’oscura terra,
Pria che ’l popol congiunto troppo prema,
Accoppiati fra lor s’armano a guerra;
Spingonsi avanti e già di vita scema
Parte di quelli han fatta, che gli serra,
E dimostrando poi gli altri seguire,
Colser tempo securo al suo fuggire:
lxxx
E col veloce andar, che levi pardi,
Che di molti leon fuggano il morso,
Ove a gli argin vicini i suoi stendardi
Pon spiegati veder, drizzano il corso;
Palamede e Brunoro giunser tardi,
Chè ’l nobil paro, qual baleno, ha scorso
Il fosso, ove trovando intero aiuto,
Dentro al prossimo vallo era venuto.
lxxxi
Tornansi indietro adunque d’ira carchi,
Quale i veloci can, ch’ebber vicine
Due cerve o damme, che ’n selvosi varchi
Doppo alcun nudo pian fuggiro al fine;
E van dove i Britanni erano scarchi
D’ogni difesa antica, e che ’l confine
Convien col ferro sol tener sicuro,
Non con lo schermo più di torre o muro.
lxxxii
E richiamando appresso i lor guerrieri,
Palamede gli spinge e gli conforta,
Dicendo: Or gimo omai di spoglie alteri,
Poi ch’aperta n’aviam la chiusa porta.
Indi si mette ardito fra i primieri,
E Brunor lassa, che rimanga scorta
A quei, che dietro sono e punga e sproni
Chi per temenza gli ordini abbandoni.
lxxxiii
E per l’alta rovina che fa strada
Per in alto salir, ratto venia;
Ma trova in cima l’onorata spada
Del famoso Tristan, ch’ivi apparia,
E gli vieta il cammin, che ’nnanzi vada,
E già sopra la fronte il ferì, pria
Ch’ei possa immaginar che gente è questa,
Ma il colpo ch’ei sentì gliel manifesta;
lxxxiv
Che ben raccoglie in sè ch’altri non fosse,
Fuor che ’l figlio di Ban, di forza tale;
Che l’elmo intorno di tal modo scosse,
Che poco avea da gir, ch’era mortale,
Non però l’invitt’animo turbosse,
Ma col valor, che raro aveva eguale,
Spinge pur’anco e cerca oltra passare,
Nè vuole indarno l’ore consumare.
lxxxv
Chè sapea ben che lungo tempo invano
Per abbatter l’un l’altro si porrebbe;
Ma poi che ’l passo aveva aperto e piano,
Vincer l’impresa e non costui vorrebbe;
Pensando in sè che poi di Segurano,
S’egli avvenisse ciò, più lode avrebbe;
E co’ suoi si ristringe e drizza il piede,
Ove il popol più frale e minor vede.
lxxxvi
Non ne cale a Tristan, ma spinge al fianco
Contra gli altri guerrier che con lui vanno;
Caccia il brando a Filea nel lato manco,
E gli dà del mortal l’ultimo danno;
Mirinto appresso rende esangue e bianco
La gola incisa, ove gli spirti vanno;
Doppo costor fa Tullo e Dedupoto,
E Basaleo restar d’anima vòto.
lxxxvii
E degli altri guerrier n’ancide tanti,
Quanti al montar lassù sospinge il fato;
Sì che l’alto romore e ’l grido e ’l pianto
Hanno il pensier nell’Ebrido cangiato;
Ch’al soccorso si volge e quello intanto
Britanno stuol da prima spaventato,
Che fuggia innanzi a lui già indietro torna,
E contra il percussore alza le corna.
lxxxviii
E si ristringe allor tra sotto e sopra
In così angusto calle la tenzone,
Ch’omai indarno ciascun la spada adopra,
Ma col rabbioso urtare altrui s’oppone;
Ciascun mette al passar la forza in opra,
Fermo tenendo il piè sopra il sabbione,
Quai faticanti buoi che ’l carro han carco
Sì che spuntar non pon pietroso varco.
lxxxix
Ma il pronto Lionel che ciò rimira,
S’arreca a’ fianchi co i più dotti arcieri,
Egli a destra rimane e Nestor gira
Dalla sinistra dietro a’ suoi guerrieri;
E questo e quel sì folti colpi tira
Per traversi ed incogniti sentieri,
Che molti ancide e molti lassa in doglie,
Sì che ’l nodo fermissimo si scioglie;
xc
Chè ciascun volentier ritira il passo,
E fuggendo il morir già il loco cede;
Ma il possente Brunoro che dal basso
Pur co’ suoi per montare addrizza il piede,
Gli risospinge e grida: Ahi popol lasso,
Questo è l’amor che porti a Palamede?
Questo è l’onor dell’Ila e della Iona,
Il cui largo valor sì largo suona?
xci
Con questo ed altro dir gli torna in alto,
E gli segue esso poi co’ suoi Germani;
E più che mai rinfresca il primo assalto,
Ove oprar non si pon spade nè mani;
Pon di ferrati scudi un saldo smalto
Da ciascun lato, onde ritornin vani
Della coppia di Gave i colpi ascosi,
Ch’al suo primo apparir venner noiosi.
xcii
E tal fu il gran soccorso di costoro,
Che mal pon gli altri il peso sostenere;
Già lasserian l’impresa, se fra loro
Non gridasse Tristan con voci altere:
Ove fuggite voi? Ch’altro ristoro
Sperate indietro o che soccorso avere?
Altro fosso, altro vallo non avremo,
Se questi a Palamede lasseremo.
xciii
Non ne resta altro poi, che l’armi esporre,
E nudi prigionier farci a’ nemici,
Ch’anco poi vi vorran la vita torre,
Per goder meglio i vostri campi aprici,
E le spose e le figlie in seno accorre
Di voi gregge vilissime e ’nfelici,
Che qui stolti temete questa morte,
Che più dolce saria, che quella sorte.
xciv
Con queste voci insieme e con la spada
A’ suoi porge ardimento a gli altri tema;
Ma il famoso Brunoro a ciò non bada,
E spinge quanto può con possa estrema;
E forse aperta al fine avria la strada
In altra parte, ove Tristan non prema;
Che se ben l’occhio ha presto in ogni lato,
Non può per tutto poi trovarse armato.
xcv
Ma l’animoso Eretto, che ’l romore
Ha di lontano udito e ’l gran periglio,
Tra le schiere ch’egli ha di più valore,
Con lo stendardo suo d’oro e vermiglio
Ratto al soccorso vien, con quello amore,
Che la madre pietosa al dolce figlio,
E solo il suo gridare e l’alta polve
Il Britanno timore a i cor dissolve.
xcvi
E con tanto furor percuote in fronte
L’aspra nemica schiera che venia,
Che non sol rintuzzò le voglie pronte,
Ma d’indietro tornarse apre la via;
L’un sopra l’altro fea confuso monte,
E mal grado de’ duci indietro gìa;
Ch’ove sia il suo Brunoro o Palamede
Nessun più cerca o più l’ascolta e vede.
xcvii
Qual Sisifo infelice che ’l fatale
Sasso gravoso all’erto monte spinge,
Ch’ove più faticando in alto sale,
Il suo destin più al fondo il risospinge;
E mentre ira, pietade e duol l’assale,
Altra nuova speranza il cor gli cinge;
Onde al suo vano oprar ritorno face,
Senza aver notte o dì riposo o pace.
xcviii
Tale a’ duci avvenia, poi che rivolto
Il popol che salia si getta in basso,
Che a gli avversari pur mostrando il volto,
E sforzati da’ suoi, volgono il passo;
Ma il malvagio e ’l migliore in un ravvolto
Rovina alfin, come quel proprio sasso,
O quel che rota il rustico architetto,
Per far fido sostegno al patrio tetto.
xcix
E ’nvan s’adopra l’Ebrido e Brunoro,
Margondo e Gracedono e Dinadano,
Ch’a viva forza alfin scendon con loro,
E ’l supremo sperar ritorna vano;
Ma mentre in guisa tale opran costoro,
Vien volando Mandrino al pio Tristano,
E gli dice affannato: Senza voi
È in periglio mortal Gaveno e i suoi.
c
Però che a quella torre, che s’agguaglia
A questa, all’altra man verso l’Orone,
Gli ha mosso Palamoro aspra battaglia,
Ma di poco curarlo avea cagione;
Or che ’l gran Seguran teme l’assaglia,
E già in ordine i suoi d’intorno pone,
Vi prega per l’onor che ’n cor portate,
Ch’al soccorso di lui ratto vegniate.
ci
No ’l nega il fido Armorico; e poi ch’ebbe
Veduto in sicurtà quel loco omai,
Promettendo a ciascun, ch’ivi sarebbe,
Se ’l bisogno venia, veloce assai,
Con quello amor, che ’n cavalier si debbe,
Si volge a trar di sanguinosi guai
Il re d’Orcania e gran desire il muove
Di far con Seguran novelle pruove.
cii
Giunge tosto a quel loco e di già scorge
Con le scale imbracciate il fero Iberno,
E già le stringe al muro e in alto sorge,
Tutti gli altri e Gaven prendendo a scherno;
Già per mettersi in cima il passo porge,
E già tutto ha varcato il muro interno;
Già Calarto, Esclaborre e ’l Fortunato
Seguendo il suo sentier gli sono a lato.
ciii
Non ritarda Tristan, ch’ha l’alma intenta,
Ove vede arrivar l’aspro drappello,
E con l’asta ferrata s’argomenta
Di rispinger veloce or questo or quello;
Fu il primiero Esclabor, che ’n basso avventa,
E ’l fa cader, quale invescato augello
Dall’insidiose frondi, ove al mattino
Allettato al suo mal torse il cammino.
civ
Gettò Calarto e ’l Fortunato appresso,
Che nel suo rovinar le forti scale
Salde tenea con man sì che sovr’esso
Al percuoter dannoso arroge il male;
Che ’nsieme andaro; e ’l popol che gli è presso,
Sente non men di lui colpo mortale,
Perch’a quanti guerrier si trova sotto
Ha troncate le gambe o ’l capo rotto.
cv
Resta sol Seguran ch’ha innanzi il passo,
E dal muro acquistato è sì lontano,
Ch’esser non puote omai riposto in basso
D’un colpo solo e si ripara al piano,
E benchè tutto sol, di vita casso
Esser prima dispon, che avere invano
Calcato il vallo omai più d’una volta,
E poi la possession gliene sia tolta.
cvi
Nè solo il buon Tristano invita a guerra,
Ma quanti altri vi son, con tai parole:
Il superbo leon, quando si serra
Nella mandra d’agnelli, uscir non suole,
In fin ch’ad uno ad un non ponga in terra
Di sangue scarca la invilita prole;
Ned io partirò quinci, ch’io non abbia
Tinta di voi la mal tessuta gabbia.
cvii
Così detto il crudel, vede Trocone,
Che non lunge a Tristan ver lui veniva,
E squarciato il cervello a terra il pone,
Oresbio presso a quel di vita priva;
Ma il gran re dell’Armorico leone,
Poi ch’ha gli altri scacciati, in tempo arriva;
Chè se tardava ancor, degli altri molti
Avria, come quei due, di vita sciolti.
cviii
Ma qual lupo affamato, ch’alla greggia,
Che sola ritrovò, gran danno apporta,
Che raffrena il furor, da poi che veggia
Del feroce Mastin la fida scorta;
Tale il gran Seguran non più vaneggia
Contra i minor, nè fra la gente morta,
Come cede tristan; ma si raccoglie,
E ’n più saldi pensieri arma le voglie.
cix
E va incontra veloce e pien d’ardire,
Nè l’altro teme, anzi sol esso brama;
Ma quando più vicin sono al ferire,
Vien la schiera maggior che Gaven chiama;
Chè poi ch’ha visto del suo vallo uscire
Ogni altro cavalier di maggior fama,
Vien contro a Segurano e spinge in guisa,
Che la guerra primiera hanno divisa.
cx
Chè non può il fero Iberno al grave intoppo
Della gente che vien, fermare il piede;
Ma col voler gagliardo e ’l poter zoppo
Di passo in passo sospirando cede;
Talor si sprona innanzi e poi che ’l troppo
Lo sforza intorno alla sua strada riede,
Fin ch’all’estrema parte della torre
Senza offesa sentir può il passo porre.
cxi
Poi calcando col piè la parte estrema,
Quasi il vol prese a guisa di colombo,
Ove l’argin di fuore il fosso prema,
Che periglioso avea lassarse a piombo;
Tra i suoi s’accoglie e con dolore e tema
Di chi d’esso vicino udìo il rimbombo;
Qual peregrin nocchier ch’oda il flagello
Delle pietre affocate in Mongibello.
cxii
Nè più che in questi lochi, in altra parte,
Ne’ due fianchi del campo e nelle spalle
Ha tregua o pace il sanguinoso Marte,
Ma del medesmo suono empie la valle;
Ch’Ilba il fero Ostrogoto ha in giro sparte
Le genti sue, dove difende il calle
Il chiaro Bandegamo ed Agraveno,
Verso ove ha il mezzo dì tiepido il seno.
cxiii
Ma poco puote oprar, che la virtude
De i chiari difensor trovò più dura,
Che ’l fabbro sicilian l’antica incude,
In cui l’arme del ciel forma e procura;
E Rossan ver Boote, ove si chiude
Fra lo stuol suo nelle terrestri mura
Con Pelinor, Lucano ed Egrevallo,
D’ivi entro penetrar tentato ha in fallo.
cxiv
Nè Gunebaldo al loco, ove si pone
Il sol, che del re Franco aveva i figli,
Con men furore il sacro gonfalone
D’abbatter cerca degli aurati gigli;
Che l’odio antico se li aggiunge sprone
Al dispietato cor di far vermigli
Del regio sangue i campi, ma il valore
De’ quattro giovinetti è via maggiore.
cxv
Che quinci e quindi son fra lor partiti,
Come il vecchio Sicambro ordine diede,
E sì ben guarda ogni uomo i proprii liti,
Ch’appressar non gli può nemico piede;
Molti uccisi ne son, molti feriti,
Che richiaman lontan la patria sede,
De’ Borgondi miglior; chè Childeberto
Trapassato ha nel cor l’empio Alaberto:
cxvi
Il qual di Gunebaldo la figliuola,
Amatilde appellata, sposa avea;
Clotaro a Mirion la vita invola,
Ch’all’antico Vesonzio il fren reggea;
Clodamiro Larceo, che regna in Dola,
Sospinse di sua mano a morte rea;
Teodorico il quarto uccise Aldero,
Che del suo Matiscon tenea l’impero.
cxvii
Nè pur di questi sol, ma d’altri molti
Di sangue popolar posero a terra;
Ma delle cose omai nasconde i volti
L’oscura umida notte e ’l giorno serra;
Già i gran duci d’Avarco al tutto sciolti
Son d’ogni speme d’allungar la guerra;
E già di ritirarse ordine danno,
Ove possan curar l’avuto affanno.
cxviii
Ma il fero Segurano irato ed empio,
Pria che d’indi partir, gridando chiama:
Fate inerti Britanni un sacro tempio
Alla notte immortal che troppo v’ama,
E la seconda volta d’alto scempio
Ha scampata di voi l’alma e la fama,
Se la fama scampar di quel si crede,
Che ’ntra gli argini e i fossi asconde il piede.
cxix
Così detto sen va con gli altri insieme;
Che d’aver tutto in man speran l’alloro,
Tosto che d’oriente i liti preme
Di Latona il figliuol co i raggi d’oro;
Dall’altra parte si sospira e geme
Tra quei d’Arturo, chè i miglior di loro
Veggion tutti impediti e di quei bassi
I più morti o feriti e gli altri lassi.
cxx
Muovesi il buon Tristan molto a pietade,
E l’Orcado famoso e gli altri regi;
E che curati sien cercan le strade,
Promettendo a ciscuno onori e pregi:
Ma più che in altro, in Galealto cade,
Che fu il fior sol de i cavalieri egregi,
La doglia del lor mal, che si conviene
A madre, che ’l figliuol ritrove in pene.
cxxi
E quanto tosto può, per via spedita
Piangendo trova il figlio del re Bano,
E gli dice: Signor, se mai gradita
Fu da voi l’alma amica, non sia vano
Il mio pregar, sì che si doni aita
Al re Britanno almen per la mia mano,
Se ’l cielo al vostro core ancor non spira,
Che debbiate posar lo sdegno e l’ira.
cxxii
Non v’accorgete voi, che più non puote
Senza soccorso altrui reggere il pondo
L’afflitto stuol, cui le celesti ruote
Di miserie hanno spinto al sezzo fondo?
E sì tosto che ’l sol domane scuote
Il tenebroso vel dal fosco mondo,
Or che gli argini e i valli son per terra,
Sarà morto o prigion subito in guerra.
cxxiii
Ch’oltra i duci miglior, come sapete,
Son feriti i guerrieri in maggior parte;
Infiniti varcar l’onda di Lete,
Non bene accolti dal favor di Marte:
Or se di bene oprar mai foste in sete,
O se vi mosser mai lagrime sparte,
Siami concesso e senza farvi offesa,
Ch’a questo uopo maggior vada in difesa.
cxxiv
Risponde Lancilotto: Già in me stesso
D’aiutar pure Arturo avea desire,
Per non vederlo al fin del tutto oppresso
All’ultima rovina pervenire;
Ma sento un tale spron giungersi ad esso
Dal pio vostro pregar che tutte l’ire
Che m’avvampino il sen per giusta via,
Il consiglio di voi spegner porria;
cxxv
Ch’io non però di libico leone
Porto il cor dentro e di pietà rubello;
Ma, come il mondo sa, giusta cagione
Mi mosse al farmi a lui ritroso e fello;
Or ch’è ridotto a tal, nulla ragione
Mi può più mantener contrario a quello,
Send’ei qui, sendo re, sendo cristiano,
Et io l’unico erede del re Bano.
cxxvi
Or senza altro più dir; come l’aurora
Spanda i suoi biondi crin nell’oriente,
Menar potrete alla battaglia fuora
Con la vostra miglior, la nostra gente;
E ’l mio corsier, che in ozio si dimora
Prender potrete, poi che più possente,
E più snello è del vostro e più leggiero
Da ritrarvi secur d’ogni sentiero.
cxxvii
E di più vestirete l’armadura,
Che già più giorni sono in pace siede,
Ch’ha di molte altre assai tempra più dura,
Nè meglio in noi, che ’n voi, riposta assiede;
Io mi resterò qui, prendendo cura
Di quel, che ’l loco e la stagion richiede;
E mi fia a grado, ch’un sì largo onore
Venga in voi, caro a me più che ’l mio core.
cxxviii
Non fu già mai più lieto Galealto,
E gli dice: Signor chiaro e gentile,
Al buon vostro voler cortese ed alto
Rendo grazie infinite in atto umile;
Ma perchè spaventati dall’assalto
Restan confusi i duci e ’l popol vile;
Mi par, ch’io debba andar, dove si trova
Lo sconsolato re con questa nuova.
cxxix
Lancilotto risponde che gli aggrada:
Così il pietoso re con ratto passo,
Come chi in parte desiata vada,
Giunge ove Arturo sta dolente e lasso,
Che con Tristano e gli altri cerca strada
Per la salute lor di speme casso;
Ma sì tosto che scorge ivi apparire
Galealto tra’ suoi, comincia a dire:
cxxx
Mandavi il cielo a noi per nostro bene,
O sacro re dell’Isole lontane,
Per fine imporne all’infinite pene,
E le speranze far degli altri vane?
E ’l sangue pio delle Britanne vene
Sparso sì largo già da sera a mane
Non ha tale omai sazio Lancilotto,
Ch’all’averne mercè si sia condotto?
cxxxi
Disse allor Galealto: Io vengo a voi,
Famosissimo re, per dirvi come
Lancilotto ha commesse intere in noi
Di quanto ei può dispor le chiare some;
L’elmo, lo scudo e gli altri arnesi suoi
Vuol che mi preman gli omeri e le chiome,
E mi porti Nifonte il suo destriero,
Più d’ogni altro che sia, forte e leggiero:
cxxxii
E che quanti ha guerrier giunti co’ miei
Vengan meco animosi alla battaglia,
Sì ch’io possa provare i buoni e i rei,
E Segurano altero quanto vaglia;
Chè no ’l sperando addur, qual’io vorrei,
Che per voi rivestisse e piastra e maglia,
Il pregai che ciò fesse e fu contento,
E spiegherem diman l’insegne al vento.
cxxxiii
Lieto più ch’ancor mai l’alto Britanno
Risponde: Dunque voi chiamar devremo
Sommo ristorator del nostro danno,
E divin salvator del punto estremo;
Di voi sempre figliuoi s’appelleranno
Quei, che ’l spirto non han del corpo scemo;
Et io tra palme aurate e sacri allori
Vi darò contro a morte alti tesori.
cxxxiv
Qui finito, ciascun che intorno udìa,
Con allegro sembiante il guarda e loda;
Già n’è il campo ripieno in ogni via,
Già par ch’ogni uom per la vittoria goda:
Torna il buon re con larga compagnia,
Ove il gran Lancilotto indi si snoda
Da tutti gli altri e ’n parte si riduce,
Ove in posa attendeo la nuova luce.