Avarchide/Canto XVIII
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CANTO XVIII
ARGOMENTO
Di Caradosso il corpo si contende
Ag inimici, e salvo e’ alfin condotto.
Incalza Seguran, Tristan difende
Il Brittan campo a mal partito addotto.
Brunoro intanto a maggior cose intende,
Dallo scompiglio de’ nemici indotto
A scacciarli dal vallo; e al suo parere
Guidano i duci l’ordinate schiere.
i
Ma in questo spazio il fero Segurano
Trovando Arturo e la reale insegna
Per la sola virtù del buon Tristano
Esser ritolta a lui, troppo si sdegna;
E gli spirti infiammati arma e la mano
Che famosa vendetta almen ne vegna:
E richiamando intorno tutti i suoi
Biasma il ciel, loro e sè medesmo poi.
ii
Dall’altra parte il chiaro Lionese,
Che ’l gran re Caradosso in terra vede
Con le man tronche e l’altre membra stese
Esser calcato dal nemico piede,
Si dispone appagar l’avute offese
E ritrarl’indi a più secura sede;
E più tosto con lui brama la morte
Che lassarlo negletto in quella sorte.
iii
Così spronando l’un disdegno et ira
E generoso onor l’altro e pietade,
A nuova guerra fulminando aspira
Il più onorato par di quella etade.
L’uno in ver l’altro il freno aurato gira,
E si veggiono in alto ambe le spade
Ch’avean converso il lucido splendore
In sanguinoso et orrido colore.
iv
Fu il primo il pio Tristan che ’l crudo Iberno
Sopra l’elmo incantato alto percosse
Con quel furor che mai nell’aspro verno
Contra il regno di Teti Eolo si mosse,
Sì ch’ogni altro avria posto in sonno eterno;
Ma il forte Seguran non più si scosse
Ch’altero scoglio che vicino al lito
Dal possente Nettunno sia ferito.
v
Pur nel calare il colpo in basso, trova
La spalla al loco ove non vien lo scudo;
Nè il raddoppiato acciar tanto gli giova
Ch’ei non senta dolor qual fosse nudo:
Che quantunque sia pur d’antica prova,
Non potè sostener l’incarco crudo
Ch’ei non cedesse alquanto, e con suo danno
Desse strada al signor di qualche affanno.
vi
Ma non fu tal che ne tenesse cura
Più che di spina suol salvatico orso;
E di vendetta far tosto procura,
A quanta forza avea lentando il morso,
Pur sopra il capo; e pensa alla cintura
Pervenga il brando, risegando il dorso:
E forse il suo sperar non era in vano
Se lo scudo trovava a lui lontano.
vii
Ma l’armorico re, che l’ha previsto,
Il dorato leon levava in alto,
Il qual tutto impiagato appare e tristo,
Ben che sia quasi adamantino smalto:
Chè delle sette scorze ha fatto acquisto
Delle tre intere al dispietato assalto
Il ferro micidial, ma poi la quarta
Fa che ’l sommo poter da lui si parta;
viii
E se ben non gli nocque, tanto grave
Fu il colpo che ’ntonato e stanco resta
Tutto il sinistro lato, e dolor n’ave:
Ma non è più che l’ira, che ’l molesta,
E ’l desio di vendetta, perchè pave
Che quella turba de’ nemici o questa
Ch’al soccorso suo vien gli faccia noia
Prima che l’un de i due s’arrenda o muoia.
ix
E perchè a quei d’altrui non ha riparo,
A’ suoi che ’ntorno son chiamando grida:
Chi di voi fia, signor, di lode avaro
Sia de’ nostri compagni essempio e guida
A ritrar d’altrui forze il corpo chiaro
Là donde dipartìo l’anima fida
Del gran re Caradosso, e ch’al valore
Aggia degno fra’ suoi funebre onore.
x
E vi prometto ben d’oprare in guisa
Ch’al vostro chiaro andar non vegna stroppio
La spada Iberna da pietà divisa,
Se ’l suo primo poter fosse anco doppio:
E se non m’è dal ciel la forza incisa,
In fin d’Avarco s’udirà lo scoppio
Dell’armorico ferro e de la mano
Sopra il suo primo duce Segurano.
xi
Quando egli odon così, Luciano il Brutto,
Abondano il felice e Gargantino
E ’l gran Nestor di Gave e ’l drappel tutto
Che per sua sicurtà si fea vicino
Rivolge il passo dove il sangue asciutto
Non era ancor nel misero confino,
In cui giacean neglette e mal difese
Del valoroso re le membra stese;
xii
E pensanlo indi trar senza contrasto.
Ma Drumeno e Margondo e ’l Ner Perduto,
Come lordi avvoltori al morto pasto
Che di lunge sentendo han pria veduto,
Al miser corpo polveroso e guasto
S’avventan ratti, e lor porgono aiuto
Matanasso e Rossan, che preso il piede
Già il cercan tòrre all’infelice sede:
xiii
E tirato l’avrien securo in loco
Ove poi de’ nemici era trofeo,
Se la schiera britanna pur un poco
Ritardava il venir più che non fèo.
Ma come all’arid’esca corre il foco
Che ’l gelato pastor presso moveo,
Si gettò il Brutto Ardito, e ’n testa fere
Rossano, e sopra il morto il fa cadere,
xiv
Ucciso no, nè molto anco impiagato,
Ma del colpo è stordito e tutto oppresso.
Viene il fido Abondan che gli era a lato
E per prendere il re s’aggiunge ad esso;
Ma da Margondo e ’l crudo Fortunato,
Ch’a soccorrer Rossan si trovan presso,
Gli fu percosso in un la mano e ’l braccio,
E posto a’ suoi desir soverchio impaccio:
xv
Sì che ’n dietro dolente si raccoglie,
E quei due della preda aveano il regno,
Se Gossemante dell’amiche spoglie
L’uno e l’altro di lor non facea indegno;
Che con due colpi sol le forze toglie
Ad ambo, e fa lassare il regio pegno:
Chè ’l destro omero a questo, a quel la testa
Impedito e ’ntonata in tutto resta.
xvi
Nè fuggir lassa il tempo Gargantino,
Che nel braccio del re la mano stende
E seco il tragge, ma crudel vicino
Gli si fa Matanasso, che l’offende
Nell’elmo, tal che ’l pose a capo chino
Come chi l’alma all’altra vita rende.
E così sovra il re la maggior parte
Di quei chiari guerrier distesa ha Marte,
xvii
Chi d’ogni senso e chi di forza privo;
E se ben d’essi alcun morto non sia,
Nessun però nel riguardar più vivo
Del morto Caradosso ivi apparia.
Nestor di Gave, di se stesso schivo
D’esser senza l’amica compagnia
Restato in piede, al caro Blomberisse
Sol rimaso con lui doglioso disse:
xviii
Or di doppia cagion doppia vendetta,
De i compagni e del re sopra le spalle
N’ha il ciel locato, e l’un de i due n’aspetta,
Palma o cipresso, al periglioso calle.
Tegniam pur fermo il cor, la spada stretta,
E facciam sì che questa chiusa valle
O vincendo o morendo aperto mostre
Che sien degne di noi l’opere nostre.
xix
E ’n tai parole insieme si ristringe
La coppia ardita de i german di Gave;
Poi sè medesma confortando spinge
Ove il gran Matanasso in nulla pave,
Nè d’attender i due soletto infinge,
Chè men gli era il morir che l’onta grave.
Ma pria ch’a i danni suoi fosser venuti
L’ha provveduto il ciel di nuovi aiuti;
xx
Perchè il forte Drumen della Fontana
E Gallinante, il figlio di Girone,
Nato in Ibernia della bella Arana
Di parto ascoso all’aspra regione,
Dell’alta coppia omai poco lontana
Il braccio armato all’apparire oppone:
E fece sì che nella prima giunta
Dell’impresa mortal la furia spunta,
xxi
Chè di a terra mandar secura speme,
Come s’avvicinasse, avea Nestorre
Quel ch’era solo, e poi col frate insieme
L’onorato lor re d’indi ritorre.
Ma quel par di guerrier già l’orma preme
Vicina a Matanasso, e aggiunto corre
Sopra i due cavalier così veloce
Che non veduto a pena ad ambo nuoce;
xxii
Che Gallinante a Blomberisse dona
Sopra la destra spalla un colpo tale
Che d’alto in basso tutta la persona
Gli fa intorno crollare, e render frale.
Non però il buon guerrier se n’abbandona,
Nè in sè misura il ricevuto male;
Ma qual fero leon che sia ferito
Allora al guerreggiar torna più ardito.
xxiii
Sopra lo scudo d’or ch’avea paterno,
Che la testa ricopre, alto ferìo,
Dicendo: Or senta il giovinetto Iberno
Se il buon seme di Gave ha il frutto rio.
L’altro, che sprezza il nido suo materno
E ’l Gallico onorò come natìo,
Rispose: Io non mi stimo senza fallo
Men di voi stesso o di alcun altro Gallo;
xxiv
E se ben la mia madre in altra parte
Mi partorì, come le diede il fato,
Dal Gallico terren chiaro diparte
L’invitto mio troncon dal miglior lato,
Di padre tal che non cedeva a Marte
E che visse tra voi sempre onorato
E de’ vostri alto amico, come spero
D’esser anch’io, se giovine non pero.
xxv
E se l’arme seguo or di Segurano,
Il fa sorte e dever, non certa voglia:
Che quei del re Boorte e del re Bano
Non am’io men che buon fratei si soglia;
Ma mentre ch’ora aviam le spade in mano,
Come nemico rio, ben che mi doglia,
M’è forza di trattarvi, e tal richiede
L’onor di cavaliero a la mia fede.
xxvi
E così ragionando il brando abbassa,
E quanto può il percote nel cimiero,
Che ’n terra cade, e ’l suo fid’elmo lassa
Proprio al mezzo avvallato, ben che intero.
Ma il Gallo cavalier tutto oltra passa,
Più che fosse ancor mai cruccioso e fero,
D’una punta lo scudo dritto al fianco,
E ’l poteva impiagar nel lato manco,
xxvii
S’accortamente non porgeva innante
Quanto può il braccio e non piegava in arco
Il ventre e ’l petto il saggio Gallinante,
Sì che potea di vita essere scarco;
Poi mentre l’altro il brando suo pesante
Di ritirar s’ingegna, non fu parco
Di vendicar lo scudo, ma non vale
Sopra l’arme ch’egli ha colpo mortale.
xxviii
Nè men dall’altro lato avea Drumano
Con Nestore il cugin cruda battaglia,
Chè a l’uno e l’altro di valor ripieno
Par del nemico suo niente caglia:
Ciascuno intorno a’ fianchi e ’ntorno al seno
Egualmente ha squarciata e piastra e maglia,
E sì poco vantaggio in ambo appare
Che non si vide guerra esser più pare.
xxix
Ma pur nel lungo andar la prima forza
Si scerneva stancar nel fer Boemo,
Che non avea nel ver la dura scorza
Come il buon Gallo di vigore estremo:
Il qual nel faticar più si rinforza,
Non che si mostre d’una dramma scemo;
E tanto era montato, e quello sceso,
Che al fin tosto l’avrebbe ucciso o preso.
xxx
Se non che Matanasso, che ciò vede
Mentre pensa il re morto a’ suoi raccorre,
Lassa impresa, e ratto muove il piede
Ove già vincitor sentìa Nestorre;
E dal traverso non veduto il fiede
Tra la fronte e la spalla, e ’l pensa porre
Con quel colpo disteso su l’arena
E la vittoria aver di gloria piena.
xxxi
Pure il guerrier di Gave si sostenne,
Ed a lui tutto irato si rivolge
Dicendo: Tale usanza si convenne
Ove Durenza tua l’arene avvolge;
Ma il Celtico terren, che onor mantenne
Mai sempre intero, e sol la vista volge
Alla vera virtù, tien vil colui
Che d’ascoso sentier ferisce altrui.
xxxii
E ’n tal parlar la fronte gli percote,
Quando men l’attendeva, con la spada,
Che gli fece crollare ambe le gote
E le ginocchia andar sopra la strada.
Volea finirlo il Gallo, ma no ’l puote,
Perchè di dietro vien, mentre a lui bada,
L’empio Drumeno, e sopra il collo il trova,
E l’ha condotto a tal ch’indi non muova:
xxxiii
Però che essendo nel medesmo lato
Quasi in un punto, e da due tali, offeso,
I nervi ha oppressi e ’l cerebro intonato
Sì che a pena sostien dell’elmo il peso.
Pur l’alto core e ’l gran valore innato
Il regge ancor, che non sia in terra steso:
E si saria con lor ristretto ancora,
Ma nuovo altro suo mal sorviene allora;
xxxiv
Chè Safaro e Merangio e Morassalto,
Ch’avean quei di Granata e di Castiglia,
Ove han sentito il faticoso assalto
Quanto più ratti pòn giran la briglia:
Ond’ei, che non è porfiro nè smalto,
Di ritirarse indietro si consiglia
E dice al suo german: Chi morte certa
Senza pro cerca, e ’nvan, gran biasmo merta.
xxxv
A migliore stagion servar la vita
Deve il forte guerrier che più non puote.
Colpa nostra non è s’hanno impedita
La giusta impresa le celesti rote,
Chè forse altro sostegno e nuova aita
Per non rendere alfin d’effetto vòte
Le nostre voglie pie serbano altrove,
Col supremo voler del sommo Giove.
xxxvi
Così stretti fra lor con passo tardo
Si van traendo in più secura parte:
Quando in un punto, più leggier che pardo
Che di catene scarco si diparte
Poi ch’ha scoperto col bramoso sguardo
Damma che di scampare usasse ogni arte,
Ivi appar Lionel con molti arcieri
De’ suoi ch’ha più fedeli e de i più feri;
xxxvii
Ch’al cominciar delle novelle risse,
Dubbioso in cor di quel che poscia avvenne,
Nestor ivi lassando e Blomberisse,
Per diverso cammin fra’ suoi pervenne,
E la schiera appellata che ’l seguisse
Al soccorso rattissimo rivenne:
Ove i fratei conforta in alte grida
E gli altri appresso alla battaglia sfida.
xxxviii
Nè di più tardo indugio era mestiero,
Che ’l numero a’ nemici anco crescea,
Chè con Nabone il fello et Agrogero
Al soccorso de’ suoi quivi correa.
Ma Lionel, già sceso del destriero
Come erano i cugin, già in mano avea,
Entrato tra i compagni, il nobil’arco,
E vie più d’uno strale aveva scarco.
xxxix
E ’l primo ch’ei trovò fu Perimone,
Che ’l buon re Caradosso tiene in braccio
E già nel porta, ma tosto il ripone,
Che gli dà in mezzo al ventre orrido impaccio
L’aspra saetta, e l’anima gli pone
In libertà dal rio terrestre laccio
Che pien di vizi e di lordure nacque
Là dove il Tago aurato insala l’acque.
xl
Onetore il fratel poscia e Pistore
Tra l’arene distende a lui vicini,
Quel percosso alla gola e questo al core,
Con le gambe tremanti e i capi chini.
L’altra schiera ch’egli ha spiega il furore
Ove scorge il gran numero, e meschini
Fa di vita in un punto tanti insieme
Che chi vivo riman di morte teme,
xli
E ’l combattuto premio ivi abbandona,
E si tiene a guadagno aver la vita.
Così non più conteso da persona
Han la vittoria in man larga e spedita,
E ’l buon Nestore allor dolce ragiona:
Poi che ’l ciel ne donò grazia compita
Di scacciare i nemici, non si lasse
L’opra indietro di far che qui ne trasse.
xlii
E così detto, a lui chiama Abondano
Che già con gli altri tutti era risorto,
E dolce il prega con sembiante umano
Gli porga aita al sostener quel morto.
Indi ha raccolta l’una e l’altra mano
Ch’ebbe lungo l’onore e ’l viver corto,
La testa poi, ch’ancor nell’elmo spira
Maiestà regia et alta a chi la mira.
xliii
Indi il tutto ripon dentro allo scudo,
Che ritolto a’ nemici avea Polete:
Nè fu tra loro alcun di pietà nudo
Sì che di lagrimar non aggia sete;
E perchè muova i cor l’essempio crudo
E svegli al vendicar le menti quete
No ’l volse ricoprire, e ’l fregio adorno
Fur le piaghe onorate e ’l sangue intorno.
xliv
Portanlo molti al suo reale ostello,
In cui con lunga pompa è ricevuto.
Ma in questo tempo il forte Lionello,
Da poi ch’ha largo popolo abbattuto,
Chiamando indietro il vincitor drappello
Già con gli altri compagni era venuto
Ove il lor buon Tristano e Segurano
L’un dell’altro avanzar s’adopra in vano;
xlv
Chè di tutto quel tempo, che fu molto,
Ch’a singular battaglia erano insieme
Nullo avea questo a quel di campo tolto
Nè di lor questo o quel più spera o teme.
Bene è d’essi ciascun di forza sciolto,
E stanchezza e sudor vie più gli preme
Che non fa del nemico il ferro ardito,
Ch’anch’ei si truova omai lasso o ’mpedito.
xlvi
Ma nel primo arrivar di questa schiera
L’uno e l’altro di loro il piè ritira,
Chè nessun d’essi immagina quel ch’era,
In fin che più vicin non la rimira.
Allor del pio Tristan la mente altera
Quasi ver Lionel si mosse ad ira,
Dicendo: Or perchè m’è da voi contesa
Nel mio maggior desio sì bella impresa?
xlvii
Risponde il buon guerrier: Caro signore,
Non son venuto a voi per oprar questo,
Anzi port’io nel cor sommo dolore,
S’al vostro disegnar venni molesto.
Ma ben direi che si spendesser l’ore
In altro affare, e si provveggia al resto
Che lontan senza voi periglio porta,
Sendo privato omai d’ogni altra scorta.
xlviii
I miglior cavalier, come v’è noto,
Già son tutti feriti, e ’l grande Arturo:
Lo stuol nemico di temenza vòto
Della vittoria omai si tien sicuro,
E già con quel furor che Libo e Noto
Suol Nettunno assalir nel verno oscuro
Con Brunoro e Clodin s’è innanzi mosso,
E minaccia passar del campo il fosso.
xlix
Mentre parla così, correndo arriva
Tutto pien di sudor ivi Creuso,
E con voce lontan di forza priva
Va chiamando Tristan tutto confuso
E gli dice: Signor, per quella viva
Virtù, che ’n voi trapassa il mortal uso,
Non tardate al portar ratto soccorso
Al vostro campo in gran miseria scorso;
l
Perchè già lo spietato Palamoro
Ha co’ levi destrier percosso al fianco
Le schiere di Gaven, sì che fra loro
Raro guerrier appar non morto o stanco:
Doppo il qual giunse ancor l’aspro Brunoro
Al destro lato e ’l fer Clodino al manco,
Ch’han di quei del re Lago uccisi e vinti
Molti, e dentro de’ fossi han gli altri spinti;
li
Nel trapassar de’ quai, mischiati insieme
Infiniti v’entrar di quei d’Avarco:
E se non rinverdean la secca speme
Ne’ nostri, e difendean l’aperto varco
Uriano e Landon, già il nostro seme
Era e di vita e di buon nome scarco.
Pure i due, Talamoro e ’l Brun con essi
Gli han con somma virtù di fuor rimessi.
lii
Ma non essendo quivi Maligante,
Florio Boorte e ’l cavalier Norgallo
Non pòn, come vorrien, spingere innante
Gli altrui guerrieri al combattuto vallo:
Chè la parte maggior trista e tremante
Fatt’ha contra i ricordi al core un callo,
E più tosto morir fuggendo elegge
Che seguir con onor chi lei corregge.
liii
E per questo Gaven, che ’l danno vede,
Mi vi manda a pregar, chiaro Tristano,
Ch’al gran bisogno omai voltiate il piede
Senza altrove altro onor cercare invano:
Se non volete che la vostra sede
Sostegno sia di quei di Segurano,
La qual voi tutto solo ha per rifugio,
Pur che si toglia via tosto ogni indugio.
liv
Quando l’ode così, Tristan si muove
Con quel proprio furor che ’l villanello
Ch’aggia, mentr’ara fuor, dogliose nuove
Che ’l foco ingombre del suo fien l’ostello:
Che i buoi ratto ha disciolti, e come dove
Va il misero spiando a questo e quello,
Nè per suo domandar raffrena il corso,
In fin che arrivi a’ suoi saldo soccorso.
lv
Così fa il pio Tristan, che poi ch’accolta
Ha tutta insieme la famosa schiera
E rimessa a cavallo, il passo volta
Ove i suoi liberar del tutto spera.
E già trova in cammin la gente folta
Che di Clodin seguiva la bandiera,
Cui, senza cura aver, dona alle spalle
E nel mezzo di lor fa largo il calle.
lvi
Non altrimenti appar che fiamma ardente
Che depredi al gran dì d’ampia foresta
L’altere chiome, il cui valor possente
D’Aquilone il soffiar sospinge e desta:
Che delle accese frondi alto si sente
Il crepitare in quella parte e ’n questa,
Ove con più furor veloce vada
Larga dietro di sè lasciando strada.
lvii
E Terrigano il grande il primo intoppa,
Che senza lui temere ad altro intende,
E sì forte al destriero urta la groppa
Che col signore in terra si distende.
Indi senza arrestarse oltra galoppa,
E nel passar ch’ei fa sì forte offende
Galindo e Gracedono et Agrogero
Che spedito di lor truova il sentiero.
lviii
Gli altri che son con lui l’istesso fanno,
Chè ciascun quanto può percuote e spinge.
Ma Lionello a piè fa maggior danno,
Che di rosso color l’arena tinge;
E tanti strali in un volando vanno
Che l’aer tenebroso se ne pinge:
Così già spaventato fa ritorno
Da’ fossi indietro di Clodino il corno;
lix
E le fugaci genti di Gaveno,
Ch’odon già di Tristan gli alti romori,
Sotto il viso più lieto e più sereno
Di novello sperar s’empiono i cori.
Ogni uom d’alto desio raccende il seno
Di racquistare i suoi perduti onori,
E chi prima parea più vile e tardo
Or si mostra più ardito e più gagliardo.
lx
E ’n contra a Marabon della Riviera,
Che con molti de’ suoi passò la porta
Confuso in un tra la britanna schiera,
L’arme che ’ndietro gìa dritta riporta;
E ’l suo duce Gaven con voce altera
Quel chiamando garrisce e quel conforta,
E spinge in guisa che in angusto calle
Face a’ nemici al fin volger le spalle:
lxi
E fu ventura lor, che pria tornaro
Ove è Clodin co’ suoi fuor delle fosse
Che ’l buon Tristan col drappelletto chiaro
A quel loco vicin venuto fosse;
Chè ben comprato avrien col fine amaro
L’aver l’audaci mani ivi entro mosse.
Ma dove i lor compagni erano uniti
All’arrivar di lui son rifuggiti.
lxii
Or con danno mortal di chi ’l contende
Questo onorato stuolo innanzi passa,
E l’armorico duce il corso stende
Di là dal vallo, e tutti gli altri lassa.
Lì con Gaveno esamina e comprende
Quanta gente vi sia ferita e lassa,
Poi chi fuor resti ancor, chi dentro sia,
Con riguardo sottil per tutto spia.
lxiii
E rigirando intorno al lato manco,
In cui più volge il colle all’Aquilone,
Trova il re Lago che canuto e bianco
Sembra all’oprar di giovine stagione:
Nè di consiglio nè d’aita stanco
In saldo mantener gran cura pone
L’argine, in cui Brunoro i suoi conduce
E gran tema e periglio a gli altri adduce.
lxiv
Come scorge il buon vecchio ivi apparire
Il nobil cavalier ch’adora in terra,
Lietamente con lui comincia a dire:
Ben securi siam noi di questa guerra,
E ’ndarno omai si pensi d’assalire
L’aspro avversario il cerchio che ne serra:
Ch’ogni vall’ ima, e cui niente chiude,
Può difender di voi l’alta virtude.
lxv
Il conforta Tristano, e grazie rende
Che tal uomo aggia in lui tale speranza:
Poi del corsier già stanco a basso scende
E nell’argine estremo il passo avanza
E d’un di quei guerrier nuova asta prende;
E per giunger in loro alta baldanza,
Chiamando questo e quel che conoscea
Per onor di ciascun così dicea:
lxvi
Questi sono i guerrier cui gloria eterna
E cui lode immortale il mondo deve,
Che dal sito gelato ove più verna
Di seguire il suo re sia dolce e leve
Per sì lungo cammin, nè in lor si scerna
Il periglio o ’l sudor noioso o greve:
Anzi, ove l’un con l’altro più s’accoppie,
L’alta innata virtude in essi addoppie.
lxvii
Or col medesmo cor che aveste sempre
Siate al nostro signor compagni fidi,
Che v’ha condotti in sì famose tempre
Per sì dubbiosi mar, per tanti lidi
Al sommo onor sì largo che contempre
Ogni alto affanno che la guerra annidi;
E l’ultima fatica che ne resta
Non vi vegna al soffrir per lui molesta:
lxviii
Ch’ancor vi fia dentro alla patria soglia
Tra la pia famigliuola all’ombra e al foco
Dolce a narrar questa passata doglia,
E ’l sofferto sudor recarse in gioco,
Or d’Avarco spiegando alcuna spoglia
Or di voi stessi discoprendo il loco
Che ’mpiagato vi fu, lieti mostrare,
Aperto testimon dell’opre chiare.
lxix
Così dicendo, al loco si presenta
Ove ardito salir cerca Brunoro,
E ’n diversi cammin co’ suoi ritenta
Gli argini che per lui troppo alti fòro:
Di lupo in guisa che la notte senta
Dentro al serrato ovil gridar fra loro
E gli agnelli e le madri, che si strugge
D’ivi entro gire, e nella mente rugge;
lxx
E quinci e quindi visitando mira
S’ei trova a’ suoi desir finestra o strada:
Or move il passo innanzi, or si ritira,
Or raspa in basso, or di montar gli aggrada;
Talora il porta speme e talor l’ira,
E tanto in giro rivoltando bada
Che ’l dì l’aggiugne: e visto dal pastore
L’affamato bramar volge in timore.
lxxi
Tal fea Brunoro, ch’ogni forza, ogni arte,
Ogni industria spiegando, ogni suo ingegno,
Or si mette a montar per quella parte
E degli omeri altrui si fa sostegno,
Or le sue genti in molti lochi sparte
Tutte ad un tempo spingerse dà il segno,
Per tentar se ’l combatter molti siti
Rendesse i difensor più sbigottiti.
lxxii
Ma come il verde scudo ch’alto preme
Il dorato leon vede apparire
E conosce Tristan, perde la speme
Di potere indi solo omai salire;
E drizza il passo ove ancor langue e teme
Il corno di Clodin, che di fuggire
A pena il puon tener preghi o minacce,
Senza aver più nemico che gli cacce;
lxxiii
E ’ntendendo i lor danni gli assicura
Che l’armorico duce è in altro loco,
Poi dice: Alto signor, s’e’ non si cura
Che venga Segurano, io spero poco
D’aver vittoria: chè l’impresa è dura,
E non si dee tentar da scherzo e gioco
D’assalir fossi e valli ove sia gente
Non minor della nostra, e sì possente.
lxxiv
Ma poi che i primi duci e ’l re Britanno
Non verranno oggi fuori alla battaglia,
Creder si può di far non picciol danno
Se ’l campo con bell’ordine s’assaglia:
Ma in questo modo in van prendiamo affanno,
Nè faremo opra ch’a Tristan ne caglia;
E per far un di lor di vita scemo
Cento miglior de’ nostri perderemo.
lxxv
Or che s’attenda adunque Segurano
E ch’un vada a Clodasso entro alla terra
Che ne mandi volando a mano a mano
Ciascuno atto instrumento a simil guerra:
Poi tutti insieme l’animosa mano
Contra il popol moviam ch’ivi si serra;
Ma non si perda il tempo, chè l’ardire
Porria tornare in essi, e in noi fuggire.
lxxvi
Molto ha lodato di Clodasso il figlio
E gli altri duci poi ch’erano intorno
Il buon ricordo e l’utile consiglio
Del Ner Brunoro; e senza far soggiorno
Ove il gran Seguran con torbo ciglio
Era rimaso, e pien di sdegno e scorno
Di non aver Tristan vinto all’assalto,
Che tosto vegna a lor mandan Verralto:
lxxvii
Che immantenente a lui n’andò volando,
E gli dice: Signor, Clodin vorria
Ch’ogni impresa di qua lassata in bando
Voi ’l veniste a trovar per corta via
Ove dentro a’ suoi fossi sta tremando
L’avversa gente, e dove agevol fia
Ristorar di Clodasso l’onte e i danni
In poche ore per voi di sì lunghi anni.
lxxviii
Risponde a lui l’Iberno: Or ritornate
Riportando a Clodin che ratto vegno.
Indi alle genti sue disperse andate
Che s’accogliano in un comanda il segno:
Tutti i suon marziali e trombe aurate
Dell’altera Giunon crollano il regno
Richiamando il lontan, destando il tardo,
Ch’accompagnar ritorne il suo stendardo.
lxxix
Poi lassando a Drumeno e ’l fello Arvino
Che conducendo quei seguano appresso,
Fra molti cavalier verso Clodino
Con più veloce corso in via s’è messo:
E de’ fossi il ritrova su ’l confino
Che null’altro attendeva che sol esso
Per donar pieno effetto al suo desire
E ’l trepidante esercito assalire.
lxxx
Poi ch’arrivato fu, ristretti insieme
I maggior duci e ragionato alquanto,
Diceva Seguran: La vostra speme
Di compir tutta intègra io sol mi vanto,
E là dove il nemico manco teme
Vo’ che surga di lui l’estremo pianto,
Chè mi fia tutto piano argine e muro,
Nè di mille Tristan le spade curo.
lxxxi
Vengasi tosto pure all’alta prova,
Che ’l soverchio indugiar nocque sovente,
E ’l tosto e molto ardir mai sempre giova,
Con le voglie più al far che al dire intente.
Scenda ogni uom del cavallo, e ’l passo muova,
E la mano aggia pronta e ’l core ardente,
Il piè snello e veloce, e in ogni sorte
Disposto a riportar vittoria o morte.
lxxxii
E ’n cotal regionar lo scudo imbraccia
Che restando a caval dal collo pende;
Nuova celata ancor, che meno impaccia
E la vista e l’andare, in fronte prende:
Poi, qual fero molosso al lupo in caccia,
Senza attender compagno il corso stende;
Già si muove in ver gli argini, ove vede
Larga schiera nemica aver la sede.
lxxxiii
Ma il discreto Brunoro indietro il chiama,
E gli parla: Signor, se ’n voi riluce
Sovra ogni altro guerrier d’illustre fama
L’alto valor ch’al sommo vi conduce,
Non son gli altri così, che egual non ama
Tutti i duci e guerrier la quinta luce:
Ch’a quel più largamente, a questo meno
Del suo chiaro splendor riempie il seno;
lxxxiv
Però, dov’esso manca, si conviene
Al saggio imperador compir con l’arte
E con l’ordine saldo che sostiene
E ragguaglia in tra sè ciascuna parte.
Or pria ch’avanti andar riguardiam bene
Di raccor tutte in un le genti sparte,
Poi formarle alla guisa che si mostre
Di poter più giovar le voglie nostre.
lxxxv
E per dire io primiero il mio consiglio,
In nove schiere il tutto partirei,
Dando duce a ciascuna ch’al periglio
Regga ben con ragion se stesso e lei:
Sei per questo sentier che volge il ciglio
Alla fronte ove siam ne locherei,
Due sovra i lati, e l’altra alle sue spalle
Ove il colle lontan chiude la valle.
lxxxvi
E se ben queste tre di manco forza
Che non richiegga il loco altrui parranno,
Chi ’l nemico in più parti essere sforza
Assai più che non pensa apporta danno:
Chè ’l nocchier combattuto a poggia et orza
Per salvar il suo legno ha doppio affanno,
E non è ardito cor che non pavente,
Se di contrari lochi il dubbio sente.
lxxxvii
A quei saggi ricordi il grande Iberno,
Vergognando fra sè, fermato ha il piede,
Di rivo in guisa che correndo il verno
Preso dal nuovo giel subito assiede;
E risponde: Colui che prende a scherno
Quel che gli reca onor, non dritto vede:
E men chi in qualche parte gli altri avanza
Di sormontargli in tutte aggia speranza,
lxxxviii
Chè ’l ciel giusto comporte tra i mortali,
Nè done tutte ad un le grazie rare;
A quel dà forze che non trove eguali,
A questo sommo ardir che non ha pare,
A l’un dà il senno, all’altro le immortali
Di dei lodi e d’eroi mostra cantare:
Perchè non vuol la somma sua bontade
Per far ricco un por gli altri in povertade.
lxxxix
Or senza contrastar lodo e consento
Che si segua il cammin da voi mostrato.
Così fermo fra loro, in un momento
Fu il numero migliore ivi adunato;
E ’l proprio Segurano all’opra intento
Da Clodino e Brunoro accompagnato
Al proposto disegno ordine mise,
E’ suoi duci e guerrier così divise.
xc
Per sè medesmo elegge, ove la porta
Del ben serrato campo in mezzo assiede,
Perch’il loco più forte e che più importa,
E cui guardi a maggiore intorno vede;
E d’aver seco poi fidata scorta
Il Fortunato solo e Grifon chiede,
Che menavavi le genti uscite fuore
Dell’inculta Pannonia Inferiore.
xci
In primo loco poi da destra mano
Al forte Palamede in guerra assegna;
Ch’oltre a gli Ebridi suoi vuol Dinadano
Che tra ’l freddo Visero e l’Albi regna,
Bronadasso il Svevo e ’l suo germano,
Safar, che di Castiglia avea l’insegna,
E ’l giovin Gallinante, che di Mona
Con agurio infelice avea corona:
xcii
Il sito a lui più presso avea Brunoro,
Col provenzal Margondo e Gracedono;
Dal manco lato il primo è Palamoro,
L’Aquitan valoroso; e con lui sono
Calarto ed Esclabor, che duci foro,
Ove il Duero e ’l Tago altero dono
Fan di loro all’oceano e poi ’l seguia
Merangio dell’alpestre Andalosia.
xciii
Verralto il Biscain gli pone appresso,
Ove l’Euro vicin più spande l’acque;
Morassalto e Drumen vanno con esso;
Questi sul Beti e quei trall’ombre nacque
Della frondosa Ercinia e gli ha concesso
Estero Iranio, ch’al suo Febo piacque
Tal che sempre tornò di pregio carco,
Ove in prova venian gli strali e l’arco.
xciv
Ilba, il primo duttor dell’Ostrogoto,
Col crudel re de gli Eruli Odoacro,
Cui seguia d’Aragona il nobil Loto,
E ’l Catalan Roderco a’ vicini acro,
Sopra il gran colle, che riguarda a Noto,
Che tra i neri Etiopi ha il tempio sacro,
Con gravissime strida al lato manco
Il Britannico campo assale al fianco.
xcv
Gunebaldo il Borgondo e Matanasso
Quel che i più feri Allobrogi conduce,
A diverso cammin muovono il passo,
Verso ove Apollo asconde la sua luce,
Ove alza il monte sì che scopre in basso
Quanto il nemico esercito e ’l suo duce
Puote oprare, o pensar per sue difese,
Ben securo da lor di tutte offese.
xcvi
Va Rossano il Selvaggio all’altro calle,
Che si volge ove Borea il cielo offende,
Al colle pur, che dell’acquosa valle
Riserrando il sentiero, oltra si stende;
E perchè l’improviso e dalle spalle
Con più grave timor gli animi prende,
Per ascoso sentiero e quetamente
Quanto è possibil più mena la gente.
xcvii
Seco ha Galindo e l’alto Bustarino,
Tolosan quegli e questi aspro Baviero;
Dan poi l’ordine estremo, che Clodino,
Con Terrigano il grande ed Agrogero,
Duce il primiero al duro Limosino,
L’altro al chiaro Nemauso e Mompoliero,
Sien senza guerreggiar per dare aita
A chi fosse al ben far la via impedita.
xcviii
Non queta il buon Tristan dall’altra parte,
Mentre intorno i nemici accinger vede;
Ma con dovuta industria, ardire ed arte,
Ove il bisogno appar, tosto provvede;
Poi col re Lago e gli altri va in disparte,
E ’l consiglio di loro umil richiede,
Per dipartire i duci e l’altra gente,
Ove possa più star sicuramente.
xcix
E ’ncominciò: Signor, biasmo non merta
Qual sia sommo guerriero o imperadore,
Che scorgendo a’ suoi danni a fronte aperta
Spiegar l’empia fortuna ogni furore,
Il pristino ardimento riconverta
In saggio dubbio e ’n nobile timore,
Non dell’armi nemiche ma di lei,
Che spesso, più che i buoni, aiuta i rei:
c
E nel popolo spesso in un momento,
Senza rimedio uman cangia il pensiero;
Chè l’antico valore in questo ha spento,
E quel fugace e vile ha fatto altero;
Che ’l medesmo ch’ha in mare e ch’ha nel vento,
Sopra il mortal volere ha largo impero;
Dico del vulgo pur, non di chi chiude
Invitta nel suo cor, qual voi, virtude.
ci
Però scusati semo in questo giorno,
Se feriti i miglior de i duci nostri,
E spogliato il desir d’onore adorno
Già scorgete ne’ miei, com’io ne’ vostri,
Sol per necessità duro ritorno
Facciam, raccolti tra vallati chiostri;
E s’a difender quei drizziam le voglie,
Più tosto ch’all’uscir delle sue soglie.
cii
Certo è che se di me sol questa vita,
Nello stato ove siam, fosse in periglio,
Pria che cercar di questi fossi aita,
Sarebbe ella di me posta in essiglio;
Ma per sì chiara gente e sì gradita
Convien sempre prepor l’util consiglio,
Che non manchi d’onore a quel che sia
Con certissimo duol per alta via.
ciii
Or s’a voi così par, padri e fratelli,
Direi che i nostri duci e cavalieri,
Che molti pur ancor restan di quelli
Che non feriti il ciel ne lassa interi,
Gisser da parte e che ciascuno appelli
Quei ch’ei pensa tra’ suoi miglior guerrieri,
E che per pruova omai conosce tali,
Che i ben possa lodar, punire i mali;
civ
E ’n tante schiere poi fosser divisi,
Quanti lochi a guardar mestier ne fia;
E che ’l capo di lor miglior s’avvisi,
Che di senno e valor fornito sia;
Un vada poscia intorno, ch’a gli uccisi,
O gl’impiagati altrui ristoro dia;
E così ogni uom saprà quanto far deve,
E chi merti alta lode o biasmo greve.
cv
Poi ch’a detto, il re Lago a lui risponde:
Non si cerchi fra noi forma migliore,
Che non si troverrebbe e ’n van confonde
Che troppo in contraddir consuma l’ore;
Or col chiaro voler che ’l cielo infonde,
Nel petto di virtù che brama onore,
Che più che ’l ferro e l’adamante adopra,
Con sollecito andar moviamo all’opra.
cvi
Così fermo fra loro, il buon Tristano
Per consiglio dell’Orcado famoso
Ha il mezzo in guardia, dove Segurano
Della porta sforzar vedea bramoso;
Blomberisse e Blanoro il suo germano,
E Gossemante ardito e valoroso,
Tra quei di Neustria e di Cornubia intorno,
Con l’Armorico re fanno soggiorno.
cvii
Dalla man dritta sua loca Gaveno,
Col ricco Ivan ch’ha il popol Sutvallo,
Con Creuso e Mandrin, ch’all’altro seno
Han quei che alberga il promontorio Uvallo;
Pon Lionel col pio cugin Baveno
Del manco lato nel più estremo vallo,
Co’ suoi d’Anversa e Nestore e Taulasso,
Che viene onde Solveo più scende in basso.
cviii
Bandegamo il fratel di maligante,
Con quei ch’ha di Vintonia e di Cicestra,
Che sotto la sua insegna erano innante,
Pone oltra il fiume alla montagna destra;
Seco è Gerfletto col suo stuolo avante,
Ch’ei menò di Sarburia e di Dorcestra,
Agraveno, Abondano ed Arganoro,
E di Vigornia il cavalier Mandoro.
cix
Il gran re Pelinoro ha in guardia il monte
Con Lucano, Agrevallo e ’l pio Malchino,
Che alla sinistra spalla alza la fronte,
Che più scorge Boote esser vicino;
Ch’avean quei di Nortumbria presso al fonte
Di Tueda aspra e del gelato Tino,
Con quei di Cantabrigia e di Valpole,
E quel che la Bangaria in alto cole.
cx
Sicambro il sommo Franco, che conduce
Del gran re Clodoveo gli ornati figli,
Con la celeste insegna, in cui riluce
Lo splendor sacro degli aurati gigli,
Verso ove il sol, togliendo a noi la luce,
Di Marrocco i confin rende vermigli,
Ha tutto in guardia il Sabbionoso colle;
Che sovra quanti ivi han la fronte estolle.
cxi
L’Orcado invitto, col figliuolo Eretto,
Con Ganesmoro il Nero e Meliasso,
A ingombrar tutto il mezzo è stato eletto
Dell’ampio campo e rivoltare il passo
Ove più senta dal nemico astretto
Questo o quel loco, ristorando il lasso,
E di guerrieri empiendo quella parte,
Che vòta avesse il sanguinoso Marte.