Canto XX

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Canto XIX Canto XXI
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CANTO XX

ARGOMENTO

      L’invitte schiere alfin traggono fuore
Galealto ed il figlio del re Bano,
Onde i nemici n’han sì fier timore,
Che i duci il tentan dissipare invano.
Pugna da prode Galealto, e muore
Trafitto per le man di Segurano,
Che da Tristan poi vinto, privo resta
Della salma del re lacera e pesta.

i
Non avea ancor la sposa di Titone
Imbiancato il sentiero al nuovo sole;
Ma il fido Galealto a cui lo sprone
D’onor l’alma pungea, già surger vuole;
E con ardenti voci in opra pone
I ministri miglior, che in guerra cole;
Che sveglia il buon vicin, chi grida intorno,
Ch’all’orizzonte omai s’appressa il giorno.
ii
     Ma i propri suoi guerrier, nè quei che vanno
Sotto l’insegna pia del chiaro amico,
Di stimolo all’andar mestier non hanno,
Chè sempre ebbero il cor d’ozio nemico;
Or di caldo desio compunti vanno
Di mostrar fuor, che ’l gran valore antico
Non sia spento anco in essi e ch’e’ son tali,
Che posson ristorar gli avuti mali.
iii
     Già in piede e’ Lancilotto e poste ha insieme
Dello stuol suo le candide bandiere,
Che dieci furo; e ’ntorno a l’ali estreme
Locate ha de’ cavai le squadre altere;
Poco lontano a lor l’arena preme
L’ordin medesmo delle folte schiere,
Che ’l buon re Galealto seco avia,
Che l’insegna ventesima compia.
iv
     Va intorno Lancilotto e ’l nome chiama
De’ suoi duci maggiori e dice a tutti:
Chi di voi, dolci amici e fratei, brama
Del nostro lungo amor rendere i frutti,
Non faccia oggi fallir la chiara fama,
Che ’l mondo empie di voi; gli amari lutti
Vendicando degli altri e l’empia sorte
Di sì gran cavalieri e di Boorte.
v
     E sopra il tutto poi prendete cura
Di ben seguire il nostro Galealto;
Nè da lui vi disgiunga orrida e dura
Forza d’altrui, nè di fortuna assalto;
Rimembrando, che d’onta aver paura
Dee, non di morte acerba, il guerrier’alto;
E che sete appellati a ritrar fuora
D’aspra miseria Arturo all’ultim’ora.
vi
     Così detto e tornato al padiglione,
Con le sue stesse man dal capo al piede
L’arme sua tutta integra a torno pone
Al dolce amico e ne l’ha fatto erede:
Il suol di ferro e l’argentato sprone,
Lo schinier sopra e ’l coscial doppio assiede,
Indi il saldo braccial, poi che locato
Alla gola ha l’acciaro e ben serrato.
vii
     La corazza incantata, dura e grave
Troppo alle forze sue gli chioda intorno;
Pongli poscia il piastron, come chi pave,
Che alcuno aspro colpir gli faccia scorno;
Al destro lato poi con salda chiave
Ripon la buffa, dove assiede adorno
Lo spallaccio sì duro, che no ’l possa
Piegar, non che squarciare, umana possa.
viii
     Cingeli poi la spada che Viviana
La donzella del Lago e sua nutrice,
Cinse a lui già, di tempera sovrana,
Con l’altre arme ch’avea nel dì felice,
Ch’al Britanno terren non mostrò vana
La sua virtù d’ogn’altra vincitrice;
Leve al suo braccio solo a gli altri appare
Di soverchio pesante e senza pare.
ix
     La cotta marzial poi, dove splende
Il rosato color col bianco accolto,
Dall’omer manco per traverso stende,
Sì che ’l braccio miglior si truove sciolto;
Il cui solo apparir da lunge rende
Ogni avversario suo di ghiaccio avvolto;
Che del sangue nemico e’ aspersa tale,
Che l’argento alla porpora era eguale.
x
     Vien poi ’l nobil destrier, che candido era
Qual pulito ermellin, che in don gli diede
D’Artur la realissima mogliera
D’onor, di grazia e di bellezza erede,
Allor che de i nemici prigioniera
La trasse fuor delle famose prede;
Per memoria di cui, sempre da poi
L’ebbe in pregio maggior di tutti i suoi.

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xi
     E non senza cagion, ch’oltra la mano,
Che potea molto men far caro assai;
Più possente e leggier presso o lontano
Quanto riscalda il sol non vide mai;
Placido al suo signore, umile e piano,
Fero al nemico; e dolorosi guai
A gli avversi corsieri e l’altra gente,
E col morso e col piè porgea sovente.
xii
     Questo a lui volse dar, per non lassarse
Cosa, che molto amasse, senza lui;
E perchè ancor potesse me’ mostrarse,
Ch’ei fosse Lancilotto a gli occhi altrui,
E perchè ove le forze erano scarse,
Ei potesse supplir per ambedui
Col ferire i vicin, col grave intoppo,
Con lo snello adoprar salto o galoppo.
xiii
     Splendea tutto argentato il ricco arnese,
Qual la notturna e frigida stagione
La luna suol, ch’a mezzo il corso stese
Il suo leve girar con ratto sprone:
Or poi che Galealto il seggio prese
Fermo e ben dritto su ’l ferrato arcione,
Il bianco scudo suo gli appende al collo
Sì pesante per lui, che mosse il crollo;
xiv
     Qual talor suol la piccioletta nave,
In cui rozzo nocchier di prezzo avaro
Ripose al suo poter fascio sì grave,
Che ’l fondo incurva e l’umor tristo amaro
Penetra adentro; onde si attrista e pave
L’afflitto peregrin, ch’al nido caro
Teme non giunger mai, facendo voti
A Castore e Polluce alti e devoti.
xv
     Il lucid’elmo poi, che fabbricato
Nell’immortal fucina di Merlino,
Contr’ogni ferro umano era incantato
Col favor delle stelle alto e divino,
Che di purpuree piume e bianche ornato
Avea del bel cimier l’argento fino,
Con tristo agurio suo gli loca in fronte,
Che gli parve al sentirlo il Pelio monte.
xvi
     Indi gli arma le man, poi gli dà l’asta,
Ma non quella però, che ’n guerra adopra
Al più grand’uopo; ch’oltra lui non basta
Altra forza mortale a porla in opra;
Poi con pietà gli dice: Chi contrasta
Superbo in sè contra il voler di sopra,
Non invitto guerrier tra i buon s’appella,
Ma di mente spietata, iniqua e fella.
xvii
     Questo vi dich’io sol, perchè se ’l cielo
Volto all’alto desio contrario mostra,
Non vi faccia , signor, soverchio zelo
Porre in rischio mortal la vita vostra;
Ch’io per voi resto in tema, e non vel celo,
Qualor pensando la memoria nostra
L’empio furore e la gran forza vede,
Ch’è nel gran Segurano e ’n Palamede.
xviii
     Non perch’io non estimi e tenga certa
L’alta vostra virtù di loro eguale;
Ma l’amor vero tien l’anima incerta,
E sempre più ch’al ben l’inchina al male;
Però vi prego umil per quel che merta
Il voler buon che sopra a i regni sale,
Che lassando quei due, volgiate il passo
Contra gli altri guerrier del re Clodasso.
xix
     Nè sarà manco lode e più sicuro
Fia per l’oste Britanno e più giocondo
Lo spegner quei che solo odiano Arturo,
E ’l vorrebber veder del centro al fondo;
Ma il paro, ond’io parlai, con desio puro
Do fare il nome lor perpetuo al mondo
Contra lui portan l’arme, chè sovente
Già spiegate han per noi sovr’altra gente.
xx
     Tal dicea Lancilotto, ascose strade
Cercando per oprar, che Galealto
Di sì chiari guerrier fugga le spade,
Nè con lor vegna a singulare assalto;
Ma il buon re gli rispose: Quel che aggrade
A chi quanto veggiam ministra d’alto,
Segua di me, signor, che speme tengo,
Che almen del vostro amor non morrò indegno.
xxi
     Nè più volle altro dire e spinge innanti
Il feroce corsier, dove attendea
L’alto drappel di cavalieri erranti,
Chè di desio di guerra in core ardea:
Or già l’aurora in placidi sembianti
Nell’oriente candida splendea,
Sì che più apertamente scuopre intorno
Chi sia più d’arme e di destriero adorno.
xxii
     Nè l’altro oste Arturo e ’l gran Tristano
Restan più di costor nel sonno avvolti;
Ma nel medesmo tempo arman la mano,
E nell’ordin primier si son raccolti;
Già di trombe e di suon rimbomba il piano,
E con nuove speranze e lieti volti
Ogni onorato principe, ogni duce
Oltra il vallato fosso i suoi conduce.
xxiii
     E per render quel di più largo onore
A i buon nuovi guerrieri e Galealto,
Voglion, ch’essi i primier si mostrin fuore,
Le chiare insegne ventilando in alto,
E stien nel mezzo, ove il maggior furore
Par che Marte amministri al fero assalto;
Tristan da man sinistra aggia la schiera,
Gaven dall’altra presso alla riviera.
xxiv
     Quando il gran Segurano e quei d’Avarco,
Che si pensan la palma avere omai,
E ’l nemico veder di doglia carco,
E ’n tema avvolto di futuri guai,
Odon che lassa già l’antico varco,
E più mostra d’ardir, ch’avesse mai;
Restan tutti dubbiosi e ’n meraviglia,
E ’nverso ove scendea, volgon le ciglia.

[p. clxxii modifica]

xxv
     E quando veggion poi le bianche insegne,
Ch’han le tre verghe oscure attraversate,
Par che ciascuno in cor timido vegne,
Che l’ha più volte già viste e provate;
E l’ardente desio tosto si spegne
D’assalir, come ier, le squadre armate;
E l’un l’altro, tacendo, in volto guarda,
E quanto puote ancora il piè ritarda.
xxvi
     Sì come il cacciator ch’al vespro cinse
Di tele intorno la spinosa valle,
Ch’al mattin ritrovare il cor si finse
Cervette o damme nel serrato calle,
E con securo andar leve s’accinse;
Quando in vece di lor doppo le spalle
Sente il fero leon ruggire o l’orso,
Che gli fan ricangiar volere e corso.
xxvii
     Ma il chiaro Seguran contrario pare,
Qual si vede talora aspro molosso,
Che per volpe o lepretta seguitare
In gioco è dal pastor di laccio scosso,
Che ’n ver lupo o cinghial, ch’a caso appare,
Lassando l’altre girne, il piede ha mosso
Con più lieto desio; ch’a sdegno avea
Quando fere vilissime offendea.
xxviii
     Spingesi alquanto innanzi e ’l guardo affisa
Sì, che ’l bianco destrier, ch’al mondo è noto,
Che sia quel, che parea, per fermo avvisa,
E che del suo signor non venga vòto;
Cangia il volto, e ’l color nell’improvisa
Vista, come al soffiar d’aquoso Noto
Suol cangiare il seren l’umido aprile,
Che raro usa tener l’istesso stile.
xxix
     Tremagli in seno il cor, trema la mano,
Nè discerne fra sè, che faccia o dica,
Non perch’ei tema il figlio del re Bano,
E non gli sia con lui la guerra amica,
Ma in sì gran novitade adopra invano,
Chè l’invitto valor se stesso intrica,
In quel primo arrivar, ma a poco a poco
Il giel, che dentro avea, divenne foco.
xxx
     E rivoltato a’ suoi dicea: Signori,
Or poss’io ringraziar del tutto Marte,
Ch’ai miei promessi e da me chiesti onori
Non vuole oggi furarne alcuna parte,
Poi ch’oltra ’l mio spsrar conduce fuori
Quell’unico guerrier, di cui son sparte
Già tante glorie e di cui il mondo estima,
Che ’l supremo valor tenga la cima.
xxxi
     Ch’io conosco nel ver, chè ben che in basso
Fosse tutto il poter del gran Britanno,
Fora il trionfo ancor di gloria casso,
Nè compito di lui l’estremo danno,
Fin che non era ancor battuto e lasso
Lancilotto, con quei, che con lui stanno;
Or sendo esso già fuor, l’istesso punto
Fa il nostro faticar nel sommo aggiunto.
xxxii
     Moviam pure animosi alla battaglia,
Cangiando ordine tosto, arme e disegni;
E con più grave acciaro e salda maglia
Di possenti corsier prendiam sostegni;
Che fia miglior per noi, ch’alta muraglia
Assalir di terren, di rami e legni,
Ove un sol val per mille, ove la sorte
I buon per man de’ rei conduce a morte.
xxxiii
     Così detto, ogni duce e cavaliero
Spoglia l’arme più levi e l’altre piglia;
Et ei fece il medesmo e ’n su ’l destriero
Monta, ch’era alto e grosso a meraviglia,
E senza alcun candor del tutto nero,
Che gli diè Radagazo, che ’n Siviglia
Tenea l’impero, il Vandalo onorato,
Che ’n giovinetta età l’aveva amato.
xxxiv
     E ’l tenea Seguran cotanto caro,
Che solo a guerre altere e perigliose,
E ’ncontro a cavalier più d’altro chiaro,
Qual tenea Lancilotto, in opra pose;
Sovra il qual già condusse a fine amaro
Ginglante il forte e fè mirabil cose
In quel tempo primier, che in Gallia venne,
E d’Avarco il cadere in piè sostenne.
xxxv
     Già col nobil caval per ogni parte
Va intorno visitando i suoi guerrieri,
E gli riscalda al gran furor di Marte,
Dicendo: Or valorosi, arditi e feri
Esser convienne e por tutto in disparte
Il neghittoso andar, che facest’ieri,
E seguirme ov’io vada; chè la luce
Sarò del vostro onor, compagno e duce.
xxxvi
     Poi gli rimette in quadro aggiunti insieme,
Qual nel fermo edificio l’architetto
In tra lor l’un con l’altro i sassi preme,
Per sostener più saldo il regio tetto;
Indi con gli altri suoi, mostrando speme
Più che fesse ancor mai nell’alto aspetto,
Sprona il destriero innanzi, a Palamede
Ogni schiera lassando, ch’era a piede.
xxxvii
     Fan l’istesso Tristano e Galealto,
Che l’esercito a piè resta a Gaveno;
Et ei co’ lor cavai muovon l’assalto
Sì che la polve oscura empieva il seno
Non della valle pur, ma l’aria in alto
D’ogni luce ch’avea veniva meno;
Che ’l sol, che i raggi aurati spunta fuore,
Non la può penetrar col suo splendore.
xxxviii
     Sembrava a riguardar, qual’esser suole
Il ciel poi che ’l villan le biade accoglie,
Ch’a i solchi affaticati e i campi vuole
Scarcar pietoso le rimase spoglie;
Che ’l foco sveglia intorno, onde si duole
Fuggendo il serpe nell’ascose soglie,
E ’l fumo adombra tal, ch’ivi ha condotte
Quante tenebre ha in sen l’oscura notte.

[p. clxxiii modifica]

xxxix
     Scontransi insieme e ’l gran romor ne suona
Non men che quando Astrea cangia l’estate,
Che Giove irato allor fulmina e tuona,
Spaventando le menti scellerate;
E sì grave è ’l colpir, ch’al mezzo dona
L’una in ver l’altra delle squadre armate,
Che ben fu cavalier d’alto potere,
Chi vivo o ’n su ’l destrier si può tenere.
xl
     Trovò il re Galealto Licaone,
Che german fu del fero Bustarino,
Nel Norico terren nato d’Alcone,
Che l’impero reggea di quel confino;
La lancia in mezzo il cor dritta gli pone,
E ’l fa, lasso, cader sovra il cammino,
Fra la gente sì stretta, che calcato
Fu nel medesmo punto d’ogni lato.
xli
     Nè sol batte costui; che ’l colpo istesso
In fin sopra del quinto si distende;
Altao, Biante, Tarco e Trasio appresso,
Tutti nati ove l’Istro il corso prende;
Morti quei primi tre, l’ultimo oppresso
Nel petto sì che sovra l’erbe scende;
E gran ventura fu, ch’ei trovò loco,
Ove ’l popol. che vien, gli nocque poco.
xlii
     Il famoso Tristan trova Acasmeno,
Ch’all’aspra selva Ircinia era molesto,
Della qual con Drumen reggeva il freno,
E ’l boemico stuol fea nudo e mesto;
Gettalo in basso e seco in su ’l terreno
Cade, chi vien compagno infino al sesto;
Mestor, Troilo, Amfio, Ciniro, Ormede,
Ch’ove l’Albi esce fuori avean la sede.
xliii
     Nè il chiaro Seguran con men furore
Della schiera Britanna ha posti a morte
Molti buon cavalier, che largo onore
Avean della virtude e della sorte;
Alio, Pritano, Entichio ed Ipenore,
Pandaro e Lacoonte il fero e forte
Armorico guerrier, che di Tristano
Era per real sangue prossimano:
xliv
     Gli altri di Blomberisse e di Blanoro
Nati nel lito Neustrio eran parenti;
E l’un sopra dell’altro ivi fra loro
Miseramente van di vita spenti:
Nè il crudo Terrigano e Palamoro
Nell’opra marzial son pigri e lenti;
Chè quegli il franco Androgeo e Politide,
Questi Tissandro e ’l suo Timano uccide.
xlv
     Così al primo incontrar delle battaglie
Restan tanti impiagati e tanti morti,
A cui poco giovar piastre nè maglie,
Nè l’esser valorosi, arditi e forti,
Che pareano all’agosto aride paglie,
Tal sono insieme stranamente attorti,
Chè ’l villan negligente sparse a terra,
Poi che ’l frutto ch’avean, nell’arca serra.
xlvi
     Ponsi la mano al brando d’ogni lato
Per quei che servò in piè sorte o valore:
Il buon re Galealto è ratto entrato,
Ove il più stretto stuol vede e maggiore,
Che fu quel di Clodin, ch’era restato
Più inverso il fiumicello, ove il furore
Dell’assalto mortal non fu sì grave,
Sì che ’l danno minor per ancor’ave.
xlvii
     Ma s’allor la fortuna gli fu amica,
Or d’un altro color gli mostra il volto;
Chè di sangue, di duol, di morte intrica
Il possente guerriero ovunque è volto;
Non sa il miser Clodin, che faccia o dica,
Tal di nuovo timor si trova avvolto;
Chè quella esser credea l’invitta mano
Del figliuol valoroso del re Bano.
xlviii
     E se fornito è ben di sommo ardire,
E di somma virtude ha cinta l’alma,
Gli fa il vederlo allor risovvenire
Dell’avuta ne’ suoi più d’una palma;
E che male a tal uom può contra gire,
Ch’è per gli omeri suoi soverchia salma;
Il medesmo fra sè ciascun dicea,
Chè ’l provato valor riconoscea.
xlix
     E con questo pensiero, ovunque giva
Il sovran re dell’Isole lontane,
La stretta schiera al suo spronar s’apriva,
E nessun contro a lui saldo rimane;
Et egli or questo or quel seguendo arriva,
Come leprette vili ardito cane;
E quanti vuole atterra; onde sovente
Gran vergogna e pietade in cor ne sente.
l
     Uccise il nobil Glauco e ’l fer Dimone
D’un fratel di Clodasso nati insieme,
Diviso il primo infin dove l’arcione
Dell’arnese ch’avea la falda preme,
Dell’altro il capo in su l’arene pone,
Che dal busto troncato spira e geme;
Abbatte doppo questi Agrio e Molanto
Nel militare onor d’egregio vanto;
li
     Quel de i monti Cemeni avea l’impero
Già del sangue illustrissimo d’Albino;
Questo, di men ricchezze, ma più fero,
Ch’al terren comandava Limosino;
Doppo loro Acamante e ’l saggio Osero,
Che del fato ch’avvenne era indivino,
E fuggendol lontan sotto altrui soglie,
Fu ingannato da Alfea la cruda moglie:
lii
     Che quale Amfiarao fece Erifile,
Al giovin re Clodino il discovrio;
Nè in ciò la spinse aurato e bel monile,
Ma d’illecito amor caldo desio;
E così il giunse al suo più vago aprile,
Come il miser temeva, il verno rio;
E quando al cor ferito a morte venne,
Della sposa infedel gli risovvenne,

[p. clxxiv modifica]

liii
     Va seguendo il gran re, nè il corso arresta,
Che quanti aggiugner può di spirto priva,
Qual lupa ch’ha i figliuoi nella foresta,
Contr’a gregge d’agnei, ch’errando giva
Senza cane o pastore in quella e ’n questa
Verde campagna erbosa o fresca riva;
Ch’a numero sì grande il viver toglie,
Che de’ figli e di sè sazia le voglie.
liv
     Scorge appresso Nabon, nomato il Fello,
Che ’n tra ’l fiume Sigmeno e la Garona
Reggeva il fren del popolo rubello
Alla sua antica Gallica corona,
Va incontra a lui, come rapace augello,
Cui sofferto digiuno al vespro sprona
Sopra colomba candida, che vede,
Che da i campi solcati al nido riede.
lv
     Non fuggì l’altro; che ’l poter gli è tolto,
Tanto a lui già vicin venire il sente,
Ma quanto può il più tosto s’è rivolto,
E s’acconcia a battaglia arditamente;
Galealto gli dona in mezzo il volto
D’una punta mortal così possente,
Che gli passa oltra, dove al naso scende
L’umor soverchio, che la testa offende.
lvi
     Così morio Nabon senza vendetta,
Che non potè il meschino il brando oprare;
Al cui duro cader, la gente stretta
Tosto comincia il varco a rallargare;
Et ei per entro, qual leon, si getta,
Ove aperta talor la mandra appare
Per follia del pastor, cui giovinetto
Cura ardente d’amore ingombre il petto.
lvii
     E ’n fra lor poi facea sì larga strada,
Ch’a molti, che ’l seguian, donava loco;
In guisa del villan, che intento bada
A riportar dal bosco il cibo al foco,
Spinge il conio al troncon, che ’nnanzi vada
Con la punta sottil, che a poco a poco
Vien rallargando il resto e in ugual parte
Il disegnato legno apre e diparte.
lviii
     Cotale avvenne allor di quelle schiere;
Che penetrò il primier per esse solo,
In fin che ’l suo drappel si può vedere
Doppo lui misto tra ’l nemico stuolo;
Il quale spaventato dal cadere
Di tanti e tai guerrier già fugge a volo;
Nè il puon saldo tener conforti o preghi,
Ch’al cominciato andare omai non pieghi.
lix
     Fassi avanti Galindo il Tolosano,
E per frenar’ i suoi si mette in opra,
Poi contr’a Galealto arma la mano,
E quanto ha più valore in esso adopra,
Che infinito era pur, ma viene in vano,
Chè concesso non fu da chi sta sopra
Sì largo onore a lui di tanta palma;
Ma spogliar ben di sè la misera alma.
lx
     Perch’al candido scudo il colpo muove,
Dicendo: Or senta il fero Lancilotto
Di Galindo il potere e l’alte pruove,
E come del ferir nell’arte è dotto;
Chè se l’erba e l’incanto non gli giove
Della fata del lago, oggi condotto
Sarà dal suo destino a quella morte,
Ch’ha riservata in me l’amica sorte.
lxi
     E ’n tai parole il fere e la percossa,
Qual martel dall’incude indietro riede;
Nè il magnanimo re la spalla ha mossa
Più che saldo troncon, cui Borea fiede;
Ma riversata in lui tutta sua possa,
Sopra l’alto cimier tal colpo diede,
Che la fronte s’aperse in quella guisa,
Che pianta alpestre dalla scure incisa.
lxii
     Cadde il fero guerrier, col volto pieno
D’atro sangue mischiato e di cervella,
E con grave romor batte il terreno,
Abbandonando al fin l’aurata sella;
E di sè dispogliato il crudo seno
Sen gìo ratta a colui l’alma rubella,
A cui del nostro oprar ragion si rende,
E dovuta mercè da lui si prende.
lxiii
     Fugge nel suo cader la gente intorno,
Ch’avea sperando in lui fermato il passo;
Come quando il falcon fere uno storno,
Che poi tutto il drappel si getta in basso,
E si nasconde, ove sia il bosco adorno
Di folte spine, al più serrato passo,
Poi senza oprare il volo addrizza il piede
Alla più oscura, occulta e chiusa sede.
lxiv
     Così quella, al perir del sommo duce,
Si scernea dileguar per corta strada;
E tutta inverso Avarco si conduce,
Nè la può fosso o rio tenere a bada:
Ma il possente Clodin la fama induce,
Ove questi fuggiano, in cui la spada
Opra poi che non val prego o minaccia,
A rivolger le spalle ov’han la faccia.
lxv
     Nè molto sta fra lor che sopra giunge
Il chiaro Galealto in quella parte,
Che ’nverso la vittoria il destrier punge,
In seno ardendo del furor di Marte;
Come il vide Clodin poco a lui lunge,
Desio d’onore e ’l dever proprio in parte
Di girlo a rincontrar ratto lo spinge,
Pur d’antico timor la fronte pinge.
lxvi
     E dice al ciel guardando: O sommo Giove,
Se mai di larghi don ti fu cortese,
Se il sacro nome tuo quinci ed altrove
Il mio cor d’onorar mai sempre intese,
Dammi quella virtù che da te piove
In chi ferma di te fidanza prese,
Che in un colpo, in un’ora mi permetta
Di tali e tanti miei chiara vendetta.

[p. clxxv modifica]

lxvii
     Così detto, il destrier bramoso sprona,
E la lancia, ch’avea, si reca a resta;
Ma nel candido scudo in basso dona
Il colpo, che drizzava alto alla testa;
Il colle intorno e la campagna suona,
E veniva al nemico anco molesta,
Se il legno era più duro; ma fu tale,
Che ’n mille brevi tronchi in aria sale.
lxviii
     Così non gli giovò l’aver vantaggio,
Che contra il brando sol mosse la lancia;
Nè al chiaro Galealto oscurò raggio
Dell’ardito valor, ma il prende in ciancia,
Dicendo: A voi medesmo fate oltraggio,
E ne devreste aver rossa la guancia,
Non a me, cui mill’aste insieme accolte
Di mille pari a voi non sarien molte.
lxix
     E ’n tai detti ritruova, che ritorna
Già indietro col destriero a nuova guerra;
Ivi l’ira e ’l furore alza le corna,
E ’l desio dell’onor gli stringe e serra;
Fu il primo Galealto, che l’adorna
Chioma del pino aurato abbatte in terra,
Che sovra il bel cimier Clodino avea,
Perch’al regno paterno succedea.
lxx
     Nè rimase ivi il colpo; che discende,
E con più grave suon l’elmo percuote,
No ’l rompe già, ma sì il nemico offende,
Che gli sembra veder fulgenti ruote;
Non s’arresta perciò, ma il brando stende
Inverso Galealto e quanto puote
Gli spinge alla visiera una tal punta,
Che con morte di lui veniva aggiunta;
lxxi
     Se non fora incantato il fino acciaro,
E che doppio venia dove ella colse;
Pur’ il sentirne in sè dolore amaro
Per la fera percossa non gli tolse;
Ma qual torbo Aquilon, che di gennaro
Tutto il superbo fiato in sen raccolse,
Per affondar quel legno, che varcare
Vuol, mal grado di lui, d’Icaro il mare;
lxxii
     Stringe ogni forza insieme Galealto,
E ’nverso il cavalier ratto s’avventa;
E senza mai posar, mortale assalto
Gli dà col brando e quinci e quindi il tenta,
Tanto ch’al quarto colpo, che vien d’alto,
Pur su la fronte, ov’ha la voglia intenta,
In tal modo il percuote, che conviene,
Ch’e’ caggia al fin sovra le trite arene;
lxxiii
     Non già morto o ferito; ch’assai duro
Fu l’elmo a sostener la cruda forza;
Ma la vista ha ravvolta un velo oscuro,
Che gli spirti vitali alquanto ammorza;
Rovina appar d’un mal fondato muro
Lungo il fiume talor, che l’onda sforza
Sormontando all’autunno e della valle
Rimbomba al suo cader l’erboso calle:
lxxiv
     Giunse tardo al soccorso il pio Margondo,
Che menò quei del lito Provenzale,
Ove al Rodan più largo e più profondo
Mischia Nettunno in sen lamaro sale;
E pensando in fra sè, che ad altro mondo
Sia passato Clodin, pietà l’assale,
E come fido amico a Galealto
Muove intorno co’ suoi novello assalto.
lxxv
     Ma ’l magnanimo re tra lor si stringe,
Come il fero leon tra i vili armenti;
E con nuovo rossor la valle pinge
Del largo sangue delle uccise genti;
Poscia al fero Margondo, che s’accinge
In guerra contro a lui, non altrimenti
Gli cacciò per le tempie il brando fero;
Ch’al cervo che giacea, saetta arciero.
lxxvi
     Cadde egli ancor e quel della Vallea,
Che Gracedono il forte nominaro,
Che nel medesmo loco impero avea,
Ove in ver l’oriente irriga il Varo
Cercando vendicar la sorte rea
De’ compagni e signori, il fine amaro
Di se stesso trovò; ch’al primo intoppo
Frale al disegno si conobbe e zoppo.
lxxvii
     Perchè mentre al ferirlo s’apparecchia,
Il magnanimo re già in capo il fere,
E ’l colpo rio fra l’una e l’altra orecchia
Fino a i denti partito il fa cadere;
L’altro stuol più che mai l’usanza vecchia
Riprende del fuggir; nè sostenere
Il può fren di guerriero o d’altro duce,
Infin che sotto Avarco si conduce:
lxxviii
     E l’un l’altro impedisce e serra il passo,
Come quando all’agosto il ciel riversa
Sì larghe piogge, che correndo in basso
L’un torrente con l’altro s’attraversa;
Ch’ogni campagna, ogni arbore, ogni sasso,
Ogni opera mortal giace sommersa;
E di sì gravi arene hanno il mar carco,
Che non pon ritrovar l’usato varco:
lxxix
     E ’l forte Galealto ancora il segue,
E già tocca con lor le regie mura,
Alle quai non vuol dar paci, nè tregue,
Ma d’espugnarle il dì prenderia cura;
Ch’a lui non par, ch’al suo valor s’adegue
Cosa mortal, nè si ritruove dura
Impresa contr’a lui; nè ’l crede invano,
Se ’l nemico fatal gli era lontano.
lxxx
     Ma il crudo Seguran tosto che intende
Di tanti e tai guerrier la morte acerba,
E che quasi Clodin l’anima rende
Riversato e negletto sovra l’erba;
Il corso, ove ciò avvien, veloce stende,
E ’n vista minacciosa, aspra e superba
A quanti incontra dice: Ogni uom mi mostri
Ov’è ’l bianco guerrier ch’uccise i nostri.

[p. clxxvi modifica]

lxxxi
     Risponde Marabon della Riviera,
Che ’l cercava per tutto: Egli è vicino
Della porta d’Avarco e quella spera
Col fuoco aprir, se ciò vorrà il destino;
Ma temo senza voi l’estrema sera
Veder del vecchio padre di Clodino,
Che con la figlia, lasso, e con la sposa
Di temenza e di duol non trova posa.
lxxxii
     E pur dice piangendo: Ove or si trova
Il nostro Seguran? la nostra speme?
Com’esser può, ch’al qui venir no ’l muova
Di noi lassi pietade e del suo seme?
Ma forse il buon voler poco ne giova,
Ch’oscura morte o dura piaga il preme;
E ’n tal timore e ’n tale angoscia oppresso,
Ch’io vi debba cercar m’avea commesso.
lxxxiii
     Fecesi in vista e ’n cor l’altero Iberno
All’udir le pungenti e pie parole,
Quale il fero mastin, ch’al fosco verno
Udìo la gregge che si lagna e duole;
Ch’ave il lupo vicin, che prende a scherno
La guardia antica, che salvar la suole;
Che ’n rabbioso gridar ratto s’avventa,
Ove chi spera in lui piange e paventa.
lxxxiv
     E più veloce assai ch’a Pelio in fronte
Il folgore dal ciel l’autunno cade,
Il traportan le vogli acerbe e pronte,
Ove per lui trovar mostran le strade;
Ma poi ch’omai vicin l’egregie e conte
Fattezze scerne, in cui l’altere e rade
Virtù di Lancilotto esser si crede,
Raffrena alquanto in sè l’animo e ’l piede.
lxxxv
     Qual scarco viator, che ’n fretta corre
Leve il colle varcando e la campagna,
Ch’al fin pervegna, ove al traverso scorre
Profondo e largo rio che ’nriga e bagna;
Che si vede in un punto il passo accorre,
E dal ratto pensier l’alma scompagna;
Poi dell’oltra passar l’arte e la guisa
Con più tardo consiglio in seno avvisa.
lxxxvi
     Tale al gran Segurano allora avvenne,
Quando il famoso re già presso scorge;
Che mentre al suo volar l’ali ritenne,
Con più aguto mirare il guardo porge;
E vedendol ferir, per certo tenne,
O che ’l primo valor più lento insorge,
Ch’ei non soleva o ch’alcun altro indotto
Sotto la forma sia di Lancilotto.
lxxxvii
     E riveste speranza e ’n sen riprende
L’intermesso furor, l’ira e l’ardire,
E grida in alto suon, ch’ogni uom l’intende:
Lassate il vile stuol securo gire;
Apprendasi a’ miglior, cui l’alma incende
Della fama immortal caldo desire;
Volga pure il suo brando a Segurano
Il magnanimo erede del re Bano.
lxxxviii
     Quando ciò ascolta il chiaro Galealto,
Ben che pien di valor, si cangia alquanto,
Chè sculto serba in cor di saldo smalto
Quel, di che Lancilotto il pregò tanto;
Pur s’apparecchia al suo fatale assalto,
E d’ogni altro desio spogliando il manto,
Quanto più leve può torna il destriero
Contra il superbo Iberno cavaliero.
lxxxix
     E quali aspri leon, che ’ntorno stanno
Alla comune lor già vinta preda,
Che ’ncontra irati l’uno a l’altro vanno,
Perchè ’l compagno a lui la parte ceda;
Che per l’unghia, o di morso estremo danno,
Alcun non è de’ duoi, che ’ndietro rieda,
In fin che ucciso l’uno, il vincitore
Del combattuto premio è possessore.
xc
     Col medesmo furor gli alti guerrieri,
E col medesmo fin dell’altrui morte,
Spronan tutti animosi i lor destrieri,
Ove gli sospingea valore e sorte;
E furo ambi al colpir sì grave e feri,
Che non apparve ben, chi sia più forte;
Chè l’uno e l’altro d’essi indietro scorse,
E di a terra cader si mise in forse.
xci
     Ma il candido Nifonte in un momento,
Quasi ontoso fra sè, vigor riprende,
Nè quel del negro Eton rimase spento,
Che più che fosse mai ratto s’accende;
E quale al minor di rabbioso vento,
Il passo questo a quel di nuovo stende;
E ’l buon re di Canaria fu il primiero,
Che ferì Seguran d’un colpo fero;
xcii
     Fero assai sopra l’elmo, ma non quale
Si credea di sentir l’invitto Iberno;
Che già da Lancilotto n’ebbe tale,
Che scender si pensò più giù ch’Averno;
Ora a quel comparaggio il trova frale
Sì, ch’ogni suo ferir quasi ave a scherno;
E nel medesmo loco il batte in guisa,
Che la fronte gli avria rotta o divisa;
xciii
     Se non fora il fin’elmo e ’l sacro incanto,
A cui forza mortal non nocque mai;
Non potè far che non piegasse alquanto,
E non sentisse allor dogliosi guai;
Pur l’onore e ’l valor l’aiutò tanto,
Che vie più che da prima ardito assai
Alla sinistra spalla il ripercosse
Sì, che del loco suo lo scudo mosse:
xciv
     E non picciola piaga in essa stampa,
Non tal però che l’impedisca molto,
Ma il crudo cavalier, che d’ira avvampa,
Gli risospinge il brando a mezzo il volto;
Ma la doppia visiera anco lo scampa;
Pur così dritto a pien gli venne colto,
Che se ben non l’impiaga, l’aspro peso
Gli ha la fronte e ’l veder soverchio offeso.

[p. clxxvii modifica]

xcv
     Onde alla destra parte alquanto inchina;
Poi la grossa armadura e l’elmo grave
Più ch’a lui non convien, d’aspra ruina
Gli fur cagion, che doppiamente aggrave,
E così lentamente s’avvicina
Sopra il duro sabbion; qual tronco o trave,
Cui mancando il sostegno a poco a poco
Va sforzata dal pondo in basso loco.
xcvi
     Ma non prima il buon re segnò la terra
Con la fronte e con l’omer, che risorse,
E ’mbracciato lo scudo a nuova guerra
Contra il nemico suo veloce corse;
Il qual del suo caval tosto s’atterra,
E d’Osco il suo scudiro in mano il porse,
Dicendo: Io non ricerco altro vantaggio,
Che quel che di valore e d’ardir aggio.
xcvii
     E quale aspro leon, ch’aggia impiagato
Possente tauro di mortal percossa,
Che ritirando il piè sia riversato
Nel più profondo sen d’ascosa fossa;
Che d’un salto leggier l’ha seguitato,
E di condurlo a fin mette ogni possa,
Pria che la sua sventura intorno udita,
Di pastori o di can gli giunga aita.
xcviii
     Tal l’Iberno crudel leve l’assale,
E l’animoso re non ferma il piede;
Ma il percuoter l’un l’altro a nulla vale,
Chè ’l ferro onde son cinti in van si fiede;
Ma il fero Seguran, ch’omai mortale
La battaglia in tal modo esser non vede,
Senza il brando e lo scudo oltra si caccia,
E ’l famoso avvarsario intorno abbraccia.
xcix
     Fa il medesmo il gran re, ch’anco lui stringe,
E di por sotto altrui ciascuno adopra;
Or l’un l’altro solleva, or si sospinge,
Or la forza, ch’egli ave, or l’arte è in opra;
Ma con fierezza tal l’Iberno il cinge,
Che ’l distende per terra e riman sopra;
Poi con tutto il poter sotto il mantiene,
E ’l pugnal nella destra stretto tiene.
c
     Col quale in ogni parte il va tentando,
S’ei ritrovasse in esso aperta via,
Onde il potesse por di vita in bando,
E vendicar de’ suoi la sorte ria;
Nè Galealto ancor s’arresta, quando,
E la vita e l’onor servar desia;
Quanci e quindi movendo con la spada
Cerca anch’egli al ferir novella strada.
ci
     Ma perch’era assai lunga e che si truova
Ben gravato da lui, può nuocer poco;
L’altro che vede pur che nulla giova,
E ch’all’arme squarciar la forza è gioco,
D’impiagarlo alla fin si mette in prova,
Ove senza difesa appare il loco,
Delle coscie il di dentro a cui l’arcione
Stando sopra il destrier la guardia pone.
cii
     Lì del forte pugnal che non s’arresta,
Con la sua destra man di sotto il punge,
Con la sinistra poi l’armata testa,
Che non possa levarse al terren giunge;
Alla terza ferita agra e funesta
Dall’infelice vel l’alma disgiunge;
Tagliando i nervi con mortale affanno,
Che i moti al nostro andar diversi danno.
ciii
     Così traendo i piè, torcendo il volto,
Il ferreo sonno e sempiterno oppresse
Il miser Galealto, lunge molto
Dal lito in cui nascendo l’orma impresse;
L’altero vincitor, poi che disciolto
Dal mondo il vide, con le man sue stesse
Trionfatrici omai dell’altrui doglia,
Per ornarne il trofeo, l’arme gli spoglia.
civ
     Con desio di veder chi costui fosse,
Il lucid’elmo pria gli toe di fronte;
Ma il crudo core a gran pietà si mosse,
Come il conobbe alle fattezze conte;
Chè in molte parti seco ritrovosse
Con le voglie al suo bene amiche e pronte,
Allor che dal felice suo paese
Con mille navi o più Brettagna offese.
cv
     Duolsi della sua sorte e ben vorria
Il suo fido compagno in vece avere;
Pur gli dispoglia il resto e tutto invia,
Ove il possa Clodasso e i suoi vedere;
Il corpo nudo poi mandar desia
Non men che l’altro appresso per potere
Dargli sepolcro ornato a gran memoria
D’altrui lorda vergogna e di sua gloria.
cvi
     Ma in questa ecco venire il pio Tristano,
Che avea veduto il candido corsiero,
Che senza il cavalier, traverso al piano
Dell’albergo cercando iva il sentiero;
E poi ch’a ritenerlo adoprò invano,
Il lassa andare al suo signor primiero,
Et esso, onde venia, rivolge il corso,
Per dargli, se potea, ratto soccorso.
cvii
     E trova il miserel che tutto nudo
Già in man de’ suoi guerrier l’Iberno il pone,
Che ’l portino, ove l’arme e ’l bianco scudo
Han condotto in Avarco altre persone;
Et ei cinto di sangue, altero e crudo
Era già rimontato su l’arcione,
Pensando, come avvenne, ch’altra gente
Devesse ivi arrivare immantenente.
cviii
     Tosto che ’l caso acerbo e dispietato
Di Tristano alla vista s’appresenta,
Di doglia e di furor tutto infiammato
Inverso chi ’l tenea ratto s’avventa;
Quel morto, quel ferito ha riversato
Dell’aspra turba all’empia cura intenta;
Et a cui con la spada non fa guerra
Col voltar del caval distende a terra.

[p. clxxviii modifica]

cix
     Qual tigre irata che ritrove il figlio,
Che ’n mezzo a i cacciator legato giace,
Che di questo e di quel molle e vermiglio
Il campo intorno furiando face;
Nè con l’aguto morso e con l’artiglio
Lassa i crudi avversari in tregua o ’n pace,
Fin che quanti vi son veggia cadere,
E ’l desiato pegno aggia in potere.
cx
     Tal l’armorico re sembrava allora,
E sopra Seguran già il corso stende,
E ’l trova su ’l caval mal fermo ancora,
E da traverso e d’improviso il prende,
Sì che ’l possente Eton non ben dimora
Saldo al grand’urto e ’n terra si distende;
E pria che torne in piè, Tristan richiama
I guerrier, ch’ivi avea di maggior fama.
cxi
     Che fu il re Galganese di Norgallo,
E ’l gran re Sinadosso d’Estrangorre,
E ’l re Rion, che nel paese Gallo
Fu di sommo valor fondata torre;
E ciascun già lassato il suo cavallo
Al più fido scudier, veloce corre,
E ’l miser Galealto accoglie in seno
D’atro sangue e di polve intorno pieno.
cxii
     E d’ogni guerra intanto gli assicura
L’alto guerriero, e ’n voce gli conforta:
Non aggia in sì bell’opera paura,
Chi questo acuto brando ha per iscorta;
Che pria mi spegnerà la morte oscura,
Che del mio padiglion trovi la porta
Senza il buon Galealto; se non vivo,
Poi ch’ha voluto il ciel, di spirto privo.
cxiii
     Che dir non possa il figlio del re Bano,
Ch’abbandonato sia pegno sì chiaro;
Ove sia stato il fido suo Tristano
Vie più di larghi onor, che d’anni avaro.
Così dicendo, al fero Segurano
Dà sopra l’elmo ancor colpo sì amaro,
Ch’ove surger credea di nuovo in piede,
Col sinistro ginocchio in terra fiede.
cxiv
     Ma in questo tempo già son molto avanti
Col doloroso peso i tre gran regi,
Ch’han già più duci e cavalieri erranti
Ritrovati in cammin di nomi egregi;
E gli fan compagnia con larghi pianti,
E ricoperto l’han d’oscuri fregi;
E ’l conducono al fin con sommo onore,
Ove al campo svegliaro alto dolore.
cxv
     E ’l famoso Tristan, poi che s’accorge,
Come in secura parte è Galealto,
E vede, ch’animoso omai risorge
Il fero Segurano a nuovo assalto,
E con lui nuove schiere accolte scorge,
Sì che ’n periglio vien gravoso et alto
Di rimaner ravvolto stanco e solo
Da numeroso, fresco e forte stuolo;
cxvi
     Va cedendo alla forza a poco a poco,
Senza volger però già mai le spalle;
E ritirando il piè di loco in loco
Viene, ove l’Euro più stringea la valle;
Ivi securo omai si prende in gioco
Il difender da lor l’angusto calle,
Chè tra le liquid’onde e tra le schiere,
Che conducea Gaven, si può vedere.
cxvii
     Va dietro Seguran con torto sguardo,
Qual lupo che ’l montone avea predato,
Che mentre schiva il can, dal leve pardo
L’ha sentito furar d’ascoso lato
Che ’l vorria racquistar, ma il passo ha tardo
Al suo veloce gir; che ’l core irato
Sfoga seguendo pur con lento corso,
Sopra i roghi e gli spini oprando il morso.
cxviii
     Tal era egli in quel punto, e poi che vede,
Come ogni disegnar gli torna vano,
Il suo chiaro Brunoro e Palamede
Ritrova su ’l sentier poco lontano;
I quai tanto il pregar, ch’ei ferma il piede
Sciolto di speme omai d’aver Tristano,
Dicendo: Assai faceste in questo assalto,
Poi ch’uccideste il nobil Galealto.
cxix
     Poi seguitò Brunoro: A me parrebbe,
Quantunque il sole ancor sia in alta parte,
Che ’l miglior richiamare omai sarebbe
Le genti intorno al guerreggiare sparte;
Chè più là con ragion non si devrebbe
Oggi per noi tentar l’ira di Marte,
Sendo i nostri già stanchi ed a i nemici
Quei, che sdegnati fur, tornati amici.
cxx
     Voi potete veder ne i nostri danni
Del figliol del re Ban l’insegne chiare,
Senza le quali ancor non brevi affanni
Aveste il vostro campo a conservare;
Or sendo morto quel cui già tanti anni
Più che ’l cor proprio suo si vide amare,
Non debbiam noi pensar, ch’alla vendetta
Con genereoso cor tosto si metta?
cxxi
     E quantunque il valor ch’io veggio in voi,
Non men punto di quello essere stimi,
Ei verrà intero e fresco ed avrà noi
Lassi e ’mpiagati negli assalti primi;
I cavalieri erranti e i sommi eroi
Di sangue alteri e di virtù sublimi
Uscir vedreste allor che sol di lui
Riconoscon l’impero e non d’altrui.
cxxii
     E voi sapete ben che questo giorno
Per combattere il vallo uscimmo fuore,
Nè pensammo in campagna avere intorno
Delle schiere novelle aspro furore;
E s’e’ n’ha dato il ciel, che danno e scorno
Venne a’ nemici ed a noi largo onore,
Sappiamlo mantenere a miglior’uso,
Ove il nostro ordinar sia men confuso.

[p. clxxix modifica]

cxxiii
     Tal diceva Brunoro e benchè fosse
Al fero Segurano aspro consiglio,
Il pregar pure e la ragione il mosse
A non tentar de’ suoi certo periglio;
Così arrestaro il corso e le sue fosse,
Poi che l’oste nemico assai vermiglio
Ha fatto e che da lui ne va lontano,
Passò il Britanno esercito e Tristano.