Archivio storico italiano, serie 3, volume 13 (1871)/Rassegna bibliografica/Sixte-Quint

Alfred von Reumont

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Rassegna bibliografica Rassegna bibliografica - Cronache della città di Fermo
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RASSEGNA BIBLIOGRAFICA







Sixte-Quint, par M. le Baron de Hübner, ancien ambassadeur d’Autriche à Paris et à Rome. D’après des correspondances diplomatiques inédites tirées des archives d’état du Vatican, de Simancas, Venise, Paris, Vienne et Florence. Parigi, A. Franck 1870. 3 vol. 8vo di pag. 474, 525, 5231.


I. Durante un secolo e mezzo dopo la morte di Sisto quinto, il mondo ha avuto non il ritratto di lui ma la caricatura. Siffatta caricatura non è d’invenzione di Gregorio Leti. La figura originalissima di questo frate francescano sulla sede pontificia aveva fatta profonda impressione su i di lui contemporanei, e, secondo che più volte è accaduto in simili casi, presto erasi formato un mito popolare, il quale determinò il giudizio della posterità. Il Leti, nato quarant’anni dopo morto Sisto, incontrossi in tale mito, e secondo i principj di storiografia, a lui comuni con molti scrittori di quel tempo, maggiormente francesi e italiani, esso compose quel libro pubblicato a Losanna nel 1669, il quale per i lettori d’allora e in qualche modo anche per i posteri, fissò i tratti della caricatura. Tal libro presenta meno invenzione propria di quel che comunemente si crede, quantunque, arbitrario sia nel medesimo l’uso fatto dei materiali e buoni e cattivi, dei quali abbonda la storia della corte romana degli ultimi tre [p. 94 modifica]secoli, quantunque poi sia ora leggero ora menzognero riguardo a quell’immensa farragine d’aneddoti in gran parte apocrifi. Non si rintraccia idea politica in siffatto libro. «Già è qualche tempo (tali sono lo parole di questo poligrafo senza coscienza, quantunque non privo «li doti, e qualche volta divertente Don ostante la nausea causata dalla gonfia quanto fiacca dicitura, nella dedica della nuova edizione del 1693 a Giovan Guglielmo elettore Palatino, marito dell’ultima di casa Medici), già è qualche tempo che vado raccogliendo memorie col mezzo dei miei più particolari corrispondenti nell’ordine letterario, col disegno di dar l’ultima mano alla perfezione d’un’opera che riuscì di tanto applauso a tutti anche nascendo, e allora che mancava delle sue preziose sostanze, delle quali nasce ora arricchita. Certo è che se tanto piacere diede la lettura della mia prima Vita di Sisto, molto maggiore ne darà questa nuova, per portar seco i frutti più maturi del suo prezioso governo, avendo trovato i mezzi di raccorre notizie molto rare, che se ne stavano sepolte in diversi angoli di biblioteche».

Gregorio Leti2 non si è punto ingannato. Il suo Sisto quinto e rimasto vivo: non si è mai fatto vivo quello del P. Casimiro Tempesti francescano, il quale compose una nuova vita del papa verso la metà dello scorso secolo, epoca nella quale escirono varj pregevoli lavori intorno alla storia pontificia, coll’aiuto di molti materiali diplomatici ed altri; materiali numerosi quanto pregevoli, ma non già sufficienti nè sempre con bastante criterio adoperati. Il pubblico in grande non si è lasciato togliere il papa Sisto della leggenda aneddotica. Mentre nel 1852 si pubblicò a Magonza una vita del papa scritta da J. Lorentz sulle traccie del Leti, se ne ristampò l’opera nell’anno medesimo a Torino, qual parte di una Biblioteca popolare. «Questo libro (tale è la coraggiosa dichiarazione degli editori; è una storia aneddotica, e certamente non avvi l’uguale nella nostra letteratura per dare al lettore un’adeguata idea degli uomini, delle cose e delle idee correnti in quel secolo.

[p. 95 modifica]Se non è in ogni minima sua parte matematicamente esatto, riesce sempre attraente alla lettura come se fosse un romanzo». Romanzo davvero, ma non de’ migliori. Finalmente nel 1860 il signor A. J. Dumesnil stampò a Parigi una nuova vita di Sisto quinto, la quale, staccandosi dal Leti menzognero segue il racconto del Tempesti, servendosi di altri autori e italiani e francesi, e accozzando quantità di notizie storiche ed artistiche più o meno note sopra località e fabbriche, e finanche, col mezzo dei pregevoli volumi del Conte di Tournon, date statistiche, ma recandoci in ultima analisi nulla di nuovo. Pure di già trentacinque anni prima Leopoldo Ranke nel primo e nel terzo volume dei suoi Pontefici romani, aveva aperta la vera via alla storiografia, esaminando col solito acume le fonti inallora conosciute, e delineando con grandi tratti il quadro della persona, dell’operato ecclesiastico, politico ed amministrativo, e non meno della straordinaria attività di Sisto quinto nelle arti di qualunque genere.

La vita di questo papa frattanto rimaneva da scriversi, adoperando quelle nuove ricchezze, colle quali più di qualunque altro il benemerito scrittore alemanno testé nominato ha saputo dare alla storiografia moderna colore più vivo e vero e nuova indole. Nei volumi il cui titolo sta in fronte dei presenti cenni, l’esame delle carte diplomatiche è venuto a diffondere nuova e chiara luce sulle azioni di Sisto quinto, per opera non di un erudito propriamente detto, ma di un diplomatico. Considerando la diligenza e le molte e varie cognizioni, con cui sono state trattate pur anche quelle parti dell’argomento che rimangono lontane dal campo della politica, a nessuno sicuramente rincrescerà l’antico ambasciatore austriaco presso Luigi Napoleone e Pio nono aver avuto agio, forse da lui non richiesto, onde darsi a lavoro letterario, giacché il tema da lui prescelto ha delle parti nelle quali compariscono a loro vantaggio il modo di vedere, il criterio e la pratica dell’uomo di Stato. L’introduzione accenna alla quantità di materiali inediti dei quali ha potuto servirsi l’autore: materiali della cui copia lo scrittore di queste righe parecchi anni fa si è fatta un’idea approssimativa. Occupano il primo posto i documenti spagnuoli sin adesso poco o punto noti, documenti di somma importanza, del pari che per la [p. 96 modifica]storia di Carlo V, e di Filippo II in genere, anche per quella delle relazioni dei medesimi, e maggiormente di quest’ultimo coi pontefici. L’autore dimostra quanto fosse occupato negli all’ari esteri il figlio di Carlo V, quale fosse l’attenzione con cui leggeva gli innumerevoli dispacci dei suoi ambasciatori ed agenti, su i cui margini notava le sue osservazioni, le quali, difficilissime a leggersi, svelano le sue idee e il vero scopo della sua politica assieme al suo modo di giudicare gli all’ari e di trattarli, abbracciando l’insieme ed entrando nei minuti particolari, sicché ai di lui inviati all’estero era giocoforza spiegare un’attività e vigilanza a tutta prova, e scrupolosa esattezza nelle loro scritture. La parte dall’ambasciatore spagnuolo presso la Santa Sede, Conte d’Olivares, poi viceré a Napoli e padre del celebre Conte-Duca, rappresentata a Roma, parte sulla quale di già avevansi tanti racconti e veri e falsi, solo dalle carte di Simancas risulta con perfetta chiarezza, ritrovandosi ivi l’intero di lui carteggio. Dopo i documenti spagnuoli sono di maggior rilievi» quei di Venezia e di Francia. Non tutti già ci riescono nuovi. Dei Veneziani avevansi le relazioni composte dagli ambasciatori tornati a casa, e non pochi dispacci. Tra i documenti francesi sono notissime le lettere del cardinale di Joyeuse, composte da quel D’Ossat, rivestito anch’esso della porpora cardinalizia pei meriti acquistati al tempo della concordia stabilita tra Arrigo IV e la Santa Sede. Ma il maggior numero delle carte e venete e francesi era ignoto. Del numero delle prime sono i dispacci di Alberto Badoer, Tommaso Contarini, Leonardo Donato, Vincenzo Gradenigo, Giovanni Gritti, Girolamo Lippomano; tra le seconde le lettere del Cardinale Luigi d’Este, fratello ad Alfonso ultimo duca di Ferrara, e protettore della corona francese prima di Joyeuse, e quelle del segretario di Stato d’Enrico III, il signore di Villeroi, Niccolò de Neufville, la cui vita presenta uno degli esempj, più tristi che rari, dei mutamenti di parte in quell’epoca della Lega. Fra gli altri archivj quello di Firenze ha contribuiti materiali molti ed importanti, trovandosi nel medesimo riuniti i documenti dei negozi ira la Santa Sede, e i granduchi Francesco e Ferdinando de’ Medici, di cui l’ultimo, essendo ancora cardinale, era uomo principalissimo nella [p. 97 modifica]romana Corte. L’Archivio Vaticano finalmente contribuì la vasta serie dei dispacci dei Legati Morosini e Caetani, in parte noti al Tempesti, il cui contenuto, maggiormente per ciò che spetta al primo, serve a nuova riprova di quel che più volte si è detto, alla Santa Sede per lo più non tornare se non a profitto la pubblicazione delle sue transazioni. Di tutto ciò, e delle cose manoscritte e delle stampate, l’autore si è servito con diligenza uguale al criterio, e a quel retto giudizio intorno alle condizioni generali, viepiù necessario a chi tratti della storia del pontificato. Nessuno gli rimprovererà l’essersi attenuto esso maggiormente ai documenti che non alle parole di scrittori contemporanei.

II. L’opera del Barone Hübner è divisa in varie sezioni. «Allorquando , dice egli (I, 255), a Roma, dove Sisto quinto ha lasciate delle impronte mai sempre durevoli, si parla di questo pontefice, subito vengono nominati i Banditi, i Monti, le Congregazioni e la Guglia. In tal modo la tradizione epiloga ciò che appartiene ai varj rami della di lui amministrazione, quali sono la giustizia, le finanze, gli affari ecclesiastici, le arti e le fabbriche pubbliche. Tale si è la tassazione popolare adottata pel mio lavoro, mentre mi riserbo di trattare al proprio posto degli avvenimenti politici, e di esporre in fine del libro l’intervenzione diplomatica del papa nei disturbi della Lega francese; intervenzione la quale maggiormente coincide cogli ultimi tempi del regno di questo pontefice». Con ciò si spiega la ripartizione dell’opera. 11 primo libro (1, 1-130), ossia l’introduzione, dopo di aver trattato delle fonti, espone le condizioni generali d’Europa e d’Italia contemporanee all’elezione di Sisto quinto, mentre descrive lo stato di Roma dopo il ritorno dei papi da Avignone, nell’epoca degli «Umanisti», e maggiormente in quella della riforma ecclesiastica, tracciando le forme e l’indole del poter temporale, coi vantaggi e difetti del sistema d’elezione e della composizione della curia, in cui riunisconsi tanti elementi discordi ed estranei allo Stato; finalmente la fisionomia della città nei varj suoi aspetti, tenuta a confronto delle altre maggiori città d’Italia.

Il secondo libro intitolato il Conclave (I, 131-235), principiando dall’ultimo periodo del regno di Gregorio XIII, di cui mettonsi in scena i ministri e parenti, descrive i due [p. 98 modifica]titi nel sacro collegio maggiormente opposti l’uno all’altro nella nomina del successore, il partito spaglinolo e il francese, accanto ai quali avevasi da contare ancora coll’influenza toscana nella persona del cardinale Ferdinando de’ Medici. Assistiamo agli sforzi fatti per escludere e Alessandro Farnese, nipote di P. Paolo III e membro più splendido del consesso dei porporati, il quale più d’una volta crede toccare alla tiara senza mai arrivarci, e i cardinali o troppo devoti a Spagna o poco ben visti per le loro attinenze col passato governo, quali erano Savelli, Sirleto, Cesi. Finalmente arriviamo all’elezione del cardinale di Montalto, il quale, lontano dagli affari durante l’intero regno di Gregorio a lui poco benevolo, popolare presso i Romani per le singolari sue qualità, ai diplomatici quasi ignoto, dovette l’esaltazione sua piuttosto al desiderio di allontanare altri, e alla solita difficoltà d’accordarsi, che non a qualche predilezione per la sua persona, ovvero al proprio atteggiamento politico o religioso. L’elezione si concluse dai cardinali Medici e d’Este coll’accessione dei Gregoriani, capitanati da Guastavillani e Boncompagni: non importa dire, essere pretta favola la storia di questo conclave, tante volte raccontata e persino nei giorni nostri raffigurata in pittura. La descrizione di Grottamare e di Montalto sull’Adriatico, luoghi dove nacque e passò la gioventù Felice Peretti, figlio di famiglia quasi povera d’origine dalmata, e la narrazione degli studj di lui, della sua attività qual predicatore popolare e maestro di teologia, della successiva carriera che lo condusse in Spagna col cardinal-legato Ugo Boncompagni poi Gregorio XIII, e finì col farlo inalzare alla porpora da P. Pio V, della sua inattività forzata regnando Gregorio, tempo da lui dato a lavori d’erudizione e d’arte, e alle costruzioni e piantazioni della prediletta villa sua situata tra le terme di Diocleziano e Santa Maria Maggiore: ecco le materie con cui si termina il secondo libro della precitata Storia.

Col libro terzo, intitolato i Banditi (I, 256-339), principia la storia del pontificato di Sisto quinto. Abbiamo la descrizione delle qualità personali del nuovo papa, delle cerimonie che ebbero luogo nella di lui esaltazione e delle prime sue misure, delle di lui relazioni cogli ambasciatori, con cardinali [p. 99 modifica]ed altri, colla città di Roma. Segue poi il quadro delle condizioni pubbliche sotto Gregorio XIII, di quel brigantaggio ovvero della dominazione de’ banditi; magagna la quale, non limitata allo Stato della Chiesa e nemmeno alla sola Italia, ma eloquente accusa della discordia e debolezza degli Stati italiani, per cui rendevasi impossibile qualunque seria e continua cooperazione ad estirpare i mali comuni, pure nei domini della Chiesa talmente giunse all’apice, che al regno di un pontefice attivo e delle cose ecclesiastiche benemerito quale fu il Boncompagni, nel concetto del popolo ne rimase la sinistra impronta. I limiti dall’autore tracciati all’argomento suo non comportavano già l’entrare nei particolari degli avvenimenti del tempo di Gregorio XIII, intorno ai quali, oltre a’ materiali già anticamente conosciuti, ci fornisce pregevoli notizie il giornale di casa Caetani pubblicato da P. Mazio nel quarto volume del Saggiatore Romano, mentre ce ne diede un quadro assai evidente e colorito Domenico Gnoli nella Storia di Vittoria Accorambona, inserita nei volumi quinto e seguenti della «Nuova Antologia» e ristampata anche a parte. Pure non si sarebbe dovuto omettere un cenno sull’incremento, che il brigantaggio prese per la costituzione da P. Gregorio nel dì 1.° giugno 1580 pubblicata, con cui ordinossi la revisione dei titoli feudali; costituzione dal Theiner riprodotta nel Codice diplomatico del dominio temporale (III, N.° 437, 438), la quale, è vero, coll’incamerazione di moltissimi feudi, o devoluti od usurpati, procurò alla finanza pontificia vistoso aumento di rendite, ma produsse immensa scontentezza, e danni gravissimi, molti nobili, spinti dalla fiscalità della misura, essendosi dati a favorire, o occultamente o senza ritegno, il brigantaggio. Invano cerchiamo eziandio la narrazione della comparsa a Roma, e della dimora nella villa pinciana medicea, di quello sciagurato Capo di briganti, quale fu Alfonso Piccolomini duca di Montemarciano, fatto, succeduto in quell’anno istesso del 1530, e che pur troppo svela la quasi incredibile debolezza del pontificio governo.

L’energia di Sisto quinto, la quale finalmente indusse ancora i vicini a cooperazione, energia a prima vista d’indole selvaggia ma pure necessaria, riesci a purgare lo Stato di questa peste. Ma per poco; essendosi i medesimi malanni [p. 100 modifica]risuscitati nell’ultimo periodo del suo regno, dimodochè i di lui prossimi successori ebbero da combattere cogli stessi nemici dell’ordine pubblico, di cui, non senza sacrifizi, venne a capo finalmente Clemente VIII. Un ricordo di Leonardo Donato, il quale al tempo di Sisto quinto rese ottimi servigi alla Repubblica Veneta e nel 1302 venne spedito a papa Clemente per accomodare la questione intorno ai banditi romani assoldati dai Veneziani (Viaggio da Venezia a Roma di L. Donato, pubbl. da N. Barozzi, Ven. 1800), cita vedere l’Umbria e le Marche intestate dalle compagnie de’ fuorusciti regolarmente formate in battaglioni, e percorse dalla soldatesca in gran parti; straniera; soldatesca dai popoli temuta almeno quanto i banditi, di che è prova il nome di ammazzatori coi quale era nota. Ecco il doppio male di quei tempi. Alla descrizione di tali condizioni interne poco felici aggiungonsi 1 ragguagli sulle relazioni avute da Sisto quinto al principio del suo regno coll’ambasciatore francese, che era quel marchese Pisani, Giovanni di Vivonne, padre della celebre marchesa di Rambouillet. Le storie e collezioni d’aneddoti francesi, tra le altre le Historiettes de Tallemant des Réaux, accordansi ad attribuire a questo diplomatico una parte alquanto più ardita di quella risultante dai documenti, ma ancora i documenti spettanti al di lui contegno al cospetto del papa adirato e minaccioso fanno onore alla sua riputazione d’uomo coraggioso.

III. Non può essere assunto nostro l’esame dei particolari trattati nella prima parte del quarto libro (I, 311-470) intitolato i Monti, nel quale abbiamo l’analisi del sistema finanziario di Sisto quinto; sistema da lui non veramente inventato, sibbene perfezionato o per meglio dire trasformato con uno scopo particolare, quello cioè di ammassare vistoso tesoro. Molti libri, e antichi e moderni, più o meno esattamente hanno esposti i principj e lo sviluppo di quell’organismo, unico nel suo genere, di quel maneggio finanziario-amministrativo , composto di due rami tra loro concatenati, cioè degli uffizi vacabili e venali costituenti una rendita vitalizia, e dei monti vacabili e non vacabili, cioè un debito pubblico, parte perenne parte redimibile, radicato sopra varie entrate dello Stato. Oggidì non e’ è più bisogno di far vedere i difetti d’un sistema, i cui difensori malamente aiutansi col sofisma non [p. 101 modifica]essere stati gravati i sudditi dai frutti, mentre necessariamente in ultima analisi tali frutti non potevano se non tornare a carico della totalità dei contribuenti, per quanto fosse ben calcolata la proporzione tra capitale ed interesse, nell’estinguersi i vacabili colla morte dei capitalisti che ne godevano, mentre i frutti dei monti rimanevano modici in paragone di quegli allora comunemente pagati negli imprestiti. L’ammassarsi quei milioni sepolti in Castel Sant’Angelo, naturalmente non era possibile so non coll’accresciuta partecipazione dei vacabilisti e montisti alle rendite pubbliche, ovvero mercè la creazione di nuove imposte, gravose finanche al piccolo commercio, e, circostanza singolarissima, a certi rami d’industria dall’istesso pontefice favoriti. Non v’è dubbio, i veri principi di pubblica economia a quel secolo erano ignoti. Il credito non esisteva; le operazioni delle banche erano lente ed imperfettissime; gli imprestiti nelle strettezze erano rovinosi e pressoché impossibili; l’industria e le ricchezze di Roma erano scarse. Sisto quinto, col tesoro pieno in un’epoca in cui i maggiori sovrani pativano di penuria, figurava molto al di là delle forze intrinseche dello Stato pontificio. Ma quelle vaste somme ridotte a capitale morto e ritirato dalla circolazione, scorrendone tuttora i frutti, non potevano se non impoverire e l’erario e l’universale.

«Rigore e ricchezze, dice l’autore (I, 342), ecco secondo Sisto quinto gli elementi indispensabili d’un buon governo. Col rigore egli intendeva l’ordine pubblico, mentre ricchezza significava ordine nelle finanze. Per mezzo di questo sistema di severità, esso nello Stato suo ristabilì, col rispetto portato alle leggi, l’autorità del potere temporale. Coll’aiuto dei milioni da lui accumulati, egli in breve tempo divenne uno dei più ricchi sovrani d’Europa». Senza negare i prosperi successi momentaneamente dal pontefice goduti nelle cose amministrative, ed avendo ogni riguardo alle massime in economia e alle condizioni attuali di quell’epoca, ci sarebbe da revocare in dubbio il fondamento di tali conclusioni. «Il pontificato di Sisto quinto, così si esprime uno storico contemporaneo, fu un dono di Dio, giacché lo Stato della Chiesa rovinava». Ma gli avvenimenti degli ultimi tempi suoi chiariscono la mancanza di vita di varie delle di lui riforme, [p. 102 modifica]mentre il vantato tesoro, subito dopo la di lui morte impoverito con malaugurate imprese, nei tempi posteriori non valse ad impedire tremenda rovina, il paese e il popolo di più in più rimanendo oppressi dal peso di un sistema difettoso, e del deperimento, dal medesimo inseparabile, di qualunque genere d’interiori risorse.

Ai precitati schiarimenti sulle finanze, i quali in paragone di altre parti dell’opera, e segnatamente della narrazione troppo prolissa del Conclave, sono piuttosto brevi e appena sufficienti, trovansi aggiunte le considerazioni sulla politica di Sisto quinto riguardo all’estero, esclusi gli affari di Francia. Confesso non capire la ragione che ha l’atto scegliere all’autore tal ordine, inquantochè sarebbe stato più naturale il trattare di seguito delle relazioni estere, invece d’interromperle con materie eterogenee. La ripartizione dall’autore adottata delle singole parti del vasto argomento, mi sembra che non vada esente dal difetto opposto a quello della forma d’annali. Questa a vantaggio della cronologia impedisce lo sviluppo delle singole materie; quella intralcia l’ordine cronologico, levando così al lettore il miglior mezzo per tener a mente la concatenazione degli avvenimenti, mentre non sono da evitarsi le ripetizioni e i passaggi poco motivati, e lo sparire e il ricomparire dei varj personaggi. Credo in un’opera storico-biografica non essere difficile collegare l’uno coll’altro metodo. Ma torniamo all’argomento della seconda parte del quarto libro.

Le relazioni tra il pontefice e Filippo II, dall’autore descritte con evidenza e con retto giudizio, ci mostrano due sovrani, i quali l’un l’altro non amavano; ma avevano bisogno l’uno dell’altro e a vicenda sottostavano l’uno all’azione dell’altro, mentre paratamente tendevano ad uno scopo, pel quale, fosse esso identico o divergente, ritrovavansi a ogni momento in contatto sull’istesso terreno. Il re, propugnatore della causa cattolica per convinzione religiosa ma non meno per motivi politici, nella propria idea vicario laicale di Cristo, negli Stati suoi deciso assolutista nelle cose religiose del pari che nelle governative, dimostravasi inflessibile nelle sue determinazioni e senza riguardo per la Santa Sede allorquando nasceva un conflitto tra i reciproci [p. 103 modifica]doveri ed azioni. Il papa, in ogni cosa prima di tutto studioso del vantaggio della fede, il quale servivagli di regola in qualunque affare e transazione, era sempre memore delle considerazioni politiche . ereditarie nel pontificato, di maniera che la politica spagnuola, e nei disturbi della Lega, e nell’impresa dell’Armada diretta contro ad Elisabetta d’Inghilterra, non lo lasciava in pace; rimanendo in lui mai sempre vivo il timore di una Monarchia universale, la quale era nelle tradizioni di famiglia del figlio di Carlo V, timore non dissuaso dai Francesi. Veneziani, Toscani. Siffatto contrasto continuò durante l’intero regno di Sisto quinto. Lasciando in disparte per ora la politica da lui seguita nelle cose di Francia delle quali si discorrerà in seguito, lo vediamo soccorrere con ingenti somme . nonostante la sua parsimonia, l’invincibile Armada, e pure temere dei disegni del re spagnuolo riguardo alla corona d’Inghilterra. Si sa il papa essere stato ammiratore d’Elisabetta, il cui carattere somigliava al suo. L’aver esso però giudicato così falsamente delle condizioni interne d’Inghilterra, e del fondamento della autorità della regina, da lusingarsi . durante tempo non breve, sul di lei ritorno alla fede cattolica, si spiega e colle idee, sotto il cui impero egli passò la gioventù e l’età matura, e coll’influenza di quella singolare atmosfera, la quale finanche sotto i pontefici di più robusto ingegno pesa sulla romana corte. Dopo le relazioni di Sisto quinto colla Spagna occupano il primo luogo quelle colla Repubblica Veneta. TI papa conosceva pienamente di quanto momento la politica veneziana fosse per l’Italia . e per la conservazione di quel poco che le rimaneva di vera indipendenza. Sotto più riguardi, tale politica era la sua: la saviezza ereditaria della Repubblica gli imponeva: i di lei uomini di Stato destavangli simpatia: i nobili veneziani, diceva egli, non sono come i nobili d’altri paesi, ma pari quasi a’ principi. «Se la Santità Sua, tali sono le parole del nunzio arcivescovo di Capua, potesse esprimere in questo luogo di propria voce i sentimenti da cui è animata, scorgereste nelle sue parole, nei suoi tratti, nel suo gesto l’amore che vi porta, i voti da lui formati per la grandezza, la prosperità, lo splendore della Repubblica». Pure v’ebbero delle gravi controversie tra il papa [p. 104 modifica]e Venezia a proposito degli all’ari di Francia; controversie nello quali a mala pena si scansò aperta rottura. D’importanza di gran lunga minore sono le relazioni con Savoia, con Rodolfo imperatore . e finalmente con Polonia. La legazione a Ippolito Aldobrandini affidata nella contesa per la corona polacca dopo la morte di Stefano Batori, appianò al solerte quanto felice negoziatore la via al soglio pontificio.

IV. Il quinto libro, il quale s’intitola le Congregazioni (II, 1-71). il cui contenuto riesce più omogeneo di quello del precedente, non presenta nulla di nuovo di speciale importanza. Lo sviluppo delle commissioni del concistoro, incaricate di trattare i vari affari ecclesiastici e secolari, e la mutazione di man in mano avvenuta nel concistoro, sviluppo e mutazione da Sisto quinto né principiati né ultimati ma ridotti alla forma oggidì ancora conservata, dall’autore vendono trattati con chiarezza quantunque non compiutamente. In ogni modo abbiamo sotto gli occhi questo vastissimo edifizio dell’amministrazione ecclesiastica concatenata colla civile, che ha saputo resistere a tanti turbini. A quei che di già sanno di tali materie, spesse volte esaminate in tutte le storie dei papi e nei libri di gius canonico, destano interesse maggiore le osservazioni sugli affari religiosi di Spagna, e sull’attitudine da Filippo II presa riguardo ai medesimi. Gli storici ecclesiastici e maggiormente quei della Compagnia di Gesù descrivono in varj modi la bufera la quale minacciosa passò sul capo dei seguaci di Loiola, essendo lor generale Claudio Acquaviva. Bufera che nelle Spagne ebbe origine da un conflitto coll’Inquisizione, e che partorì pericolo più incalzante, il papa non essendo stato mai troppo favorevole all’Istituto gesuitico, il quale sotto il di lui predecessore aveva in certo modo governata la Chiesa, e a cui sarebbe riescito difficile sottrarsi a trasformazione radicale, ove fosse stata di più lunga durata la vita di Sisto quinto, da cui erano stati decretati vistosi cambiamenti nella regola, mentre alla Compagnia toglievasi il nome di Gesù, dal papa giudicato quasi ingiuria alle altre religioni e di poca convenienza nei litigi, di già principiati e impossibili a scansarsi in avvenire.

L’ultima parte del libro e dedicata ai cambiamenti avvenuti nel sacro collegio regnante Sisto quinto. Le parole dal [p. 105 modifica]cardinal Luigi d’Este, poco prima della sua morte accaduta alla fine del 1586, dettate in una lettera al Villeroi sulla composizione di tal collegio, dimostrano in qual modo, anche dopo la riforma cattolica della Chiesa, il sommo senato della medesima si giudicasse poco corrispondente ai bisogni del mondo cattolico. «Il Concilio di Trento ha detto molto saviamente, i cardinali dover essere scelti, quanto sia possibile, in tutte le nazioni cristiane. Ragionevole sarebbe dunque che la Francia, per essere, dopo il sacro impero, il primo e principalissimo regno cristiano, partecipasse al numero dei cardinali in proporzione della sua grandezza e vastità e dei suoi meriti colla Santa Sede. Ma essi dovrebbero ricordarsi che sono i consiglieri della Santa Sede e della Chiesa universale, venendo di quando in quando a far residenza in Roma. Siffatta residenza fa nascere quel che in altre condizioni non si sopporterebbe, l’Italia cioè, che non conta fra le parti maggiori del mondo cristiano, aver adesso meglio che due terzi, pressochè tre quarti del numero dei cardinali. Donde risulta, la porta del pontificato essere ormai chiusa a tutte le altre nazioni, ancorchè di diritto comune il papa sia papa dell’intera cristianità, e non già papa dei soli Italiani. Il cardinalato e il papato devono essere aperti alle persone di merito d’ogni nazione secondo le proporzioni richieste in qualunque comunità».

Così un cardinale e principe italiano scriveva nel mese di novembre del 1586. Non c’è bisogno d’aggiungere comenti.

La descrizione di Roma, della città e della società, sotto Gregorio XIII e Sisto quinto, coll’enumerazione delle fabbriche da quest’ultimo erette e degli abbellimenti da lui ideati, aggiunte alle notizie sulla di lui famiglia, in breve tempo dalla polvere a principesca grandezza salita ma presto scomparsa: tale è l’argomento del libro sesto che porta il titolo: La Guglia (II, 75-151). Il quadro che nel medesimo ci viene presentato della città, da Sisto quinto ornata, resa più comoda e in alcune parti veramente trasformata per mezzo di monumenti, vaste fabbriche, fontane, strade e dell’acquedotto che porta il di lui nome di Felice, ha il merito di evidenza e, nel suo insieme, di verità. Ma non è già compiuto nè sempre esatto, mentre gli fa torto l’essere piaciuto all’autore di dividerlo in [p. 106 modifica]due parti, l’una dall’altra interamente segregate, essendosi relegate in appendice, non si sa troppo perchè, la descrizione della casa cittadina romana del Quattrocento e Cinquecento, e una passeggiata per Roma nel 1585, il cui contenuto sarebbesi voluto infuso nel testo, e per ragione d’unità e a scanso di ripetizioni. Costumi, vita pubblica e privata, e società sono raffigurati da quell’abile mano già nota per l’introduzione all’opera, varie parti della quale sarebbero state meglio collocate in questo posto. Ognuno sa, non esservi difetto di sorgenti ne di aiuti onde comporre una tal descrizione, e nei libri e manoscritti italiani, e in quei di stranieri, fra i quali primeggia Michele di Montaigne. Tutto ciò che appartiene alle arti e maggiormente all’architettura, dal nostro autore viene Trattato con giusto criterio. Non sono in ugual modo confacenti all’uopo le osservazioni sull’indole della letteratura di quel tempo. Starebbe male, a citare un solo passo, colla gloria del Tasso, ove la Gerusalemme non avesse se non il vanto della bella forma. Le variazioni dopo i primi tre o quattro decenni del Cinquecento accadute nelle tendenze letterarie, nell’intero mondo intellettuale e non meno nella società, avrebbero meritato sviluppo più ampio e spiegazione più matura dello cause morali e politiche. Sentiamo poco delle grandi imprese letterarie, nulla per esempio della stamperia orientale medicea, la quale pure fece grande onore a Roma e al cardinal Ferdinando. Leggiamo con piacere un dispaccio d’Alberto Badoer al doge Pasquale Cicogna in data del 3 giugno 1589, descrivendo l’interesse dal papa preso nella correzione della Bibbia, cioè della Volgata ordinata dal Concilio di Trento. Non trovandosi soddisfatto delle fatiche della commissione cardinalizia di tal lavoro incaricata, il papa «fu’ astretto porvi la mano da sé stesso.... e presto sperava vederla in luce. Quando gli fu detto di me, stava in quest’opera, facendo la fatica con gran gusto, e teneva quest’ordine: dopo fatto un foglio, di farlo rivedere al Padre Toledo et alcuni padri di Sant’Agostino, grandissimi valent’huomini, i quali, da poi revistolo con diligentia, lo mandavano alla stampa». L’autore tace dell’esito poco fortunato di quest’edizione della Volgata, la quale, in seguito all’arbitrio piaciuto il papa, dotto ma ignaro affatto delle [p. 107 modifica]regole di critica, corrispose sì poco all’intento da necessitare una nuova correzione, fondamento all’edizione procurata da Clemente VIII, di cui rende conto l’iscrizione posta nel castello allora colonnese di Zagarolo, dove si fece l’ultima revisione sotto Gregorio XIV. L’essersi Sisto V fatto indurre dall’antico astio contro il predecessore suo a malmenare una delle più belle imprese scientifiche, qual’è la correzione del calendario, qualificandola contraria ai concilj, ai Padri e a Sant’Ambrogio e non meno alle regole delle matematiche, e chiamandola vergogna del papato, è una prova evidente quanto tristissima della pessima influenza dall’educazione presso gli ordini mendicanti esercitata finanche sulle menti robuste. Il papa non faceva mistero d’aver veduto nei sogni, convien credere a punizione di questo ed altri misfatti, Gregorio XIII nelle fiamme del purgatorio, sicché fece celebrare in varie chiese delle messe pel riposo della povera di lui anima. Non è un aneddoto di Gregorio Leti; Giovanni Gritti orator veneto lo racconta in un dispaccio indirizzato a Pasquale Cicogna.

V. Durante l’intero regno di Sisto quinto infierì il duello tra Francia e Spagna; duello principiato prima della di lui assunzione, terminato allorquando egli non era più tra’ vivi; nel quale egli, invece di starsi semplice spettatore, trovossi implicato da secondo, più di quel che era nelle intenzioni sue. Il giudizio dal pontefice profferto su i sovrani dei due stati, dei quali uno serviva da teatro al combattimento, mentre l’altro stava per esaurire le proprie risorse per farsi e conservarsi una posizione alla lunga non consentita dalle condizioni politiche d’Europa, tal giudizio era tanto diverso, quanto era diversa l’attitudine del papa al cospetto di siffatti monarchi. Sisto quinto non amava Filippo II. Il re, il quale in certo modo più dei pontefici capitanava il mondo cattolico, ispiravagli stima non esente di timore, sentimento insopportabile ad uomo energico, il quale di mala voglia piegavasi alle conseguenze della di lui politica. Egli non sentiva né poteva sentire stima di Enrico III, ma aveva riguardo alla difficilissima posizione di cui non era l’intera colpa nel re. Lo compativa ed avrebbe desiderato aiutarlo, posto che fosse stato possibile aiutare un uomo così debole e falso, alla volta pinzochero e moralmente [p. 108 modifica]screditato. Il papa non esitava a dire, al cospetto del monarca spagnolo sentirsi, qual sovrano, come la mosca accanto all’elefante; ma consolavasi calcolando le casse sue essere piene, vuote le spagnuole. Quanto però alla penuria francese, la trattava con disprezzo tale, che il cardinale di Joyeuse non ardiva ripeterne le parole al suo re. Aveva poca stima dei consiglieri di Filippo dopo morto il Granvela, ed attribuiva alle mediocrità, di cui erasi circondato il re, non più sofferente d’opinione indipendente dalla propria, gli infelici successi di tante imprese e lo stato lagrimevole della marina. Ma pregava Iddio di avere sotto la sua guardia il re, giacchè altrimenti si vedrebbero cose strane in Spagna e in Italia – «la vita sua è preziosa in questi tempi»: tali erano le parole da lui dirette ad Alberto Badoer. In un momento solenne, in presenza del sacro collegio chiamò la punizione del cielo sul capo di Enrico III, e cacciò dal concistoro il Joyeuse, il quale tentava di difenderlo. Nelle relazioni diplomatiche vediamo il riflesso della varietà del concetto, che Sisto quinto aveva dei due sovrani. Il papa battagliava coll’ambasciatore spagnuolo, mentre trattava male e qualche volta con disprezzo gli inviati francesi. L’Olivares lo sfidava nel proprio palazzo, minacciandolo di protesto legale per mancanza di parola, facendogli sentire il ferreo pugno, quantunque il papa adirato gli volgesse le spalle. Il coraggiosissimo Pisani disse un giorno, dover procedere con cautela, giacchè il papa sarebbe tale da gettarlo dalla finestra.

Il ristabilimento dell’unità della fede nel mondo cristiano, ove fosse possibile senza turbare l’equilibrio degli Stati, la cui importanza era presente alla mente del papa, quantunque in quel tempo non ne fosse se non imperfettamente svolta la dottrina: tale era il pensiero fondamentale della politica di Sisto quinto. Siffatto pensiero era in armonia colle condizioni e coi bisogni della propria posizione, qual sovrano italiano; condizioni e bisogni spesso manifesti ed incalzanti, prima di Sisto quinto maggiormente nei tempi di Leone X, Clemente VII, Paolo III e IV, nel secolo susseguente viepiù sotto Urbano VIII. Abbiamo veduto quali apprensioni destasse nel papa la possibilità anche più lontana di preponderanza spagnuola. «Lo pregai - così scrisse il cardinal d’Este al [p. 109 modifica]Villeroi a proposito dell’Armada agli 8 ottobre 1585 – di prendere in considerazione l’allarme, in cui tale impresa può e dovrà mettere i principi cristiani. Giacchè, quantunque il re di Spagna cuopra le intenzioni sue contro l’Inghilterra col pretesto dall’eresia professata dalla regina, pure è chiaro essere di lui scopo la dominazione nell’intera cristianità. Il papa non mi rispose se non che sarebbe cosa lunga e malagevole assai a farsi monarca, sopra di che lo lasciai molto pensoso e tacito». «I grandi principi cristiani - tali sono le parole da Sisto quinto nel dicembre del 1583 indirizzate a Giovanni Gritti - hanno bisogno d’un contrappeso. Ove uno di loro prevalesse, gli altri correrebbero gran rischio di sentirlo chiedere troppe cose».

Contuttociò questo papa si è trovato nel pericolo di cadere, riguardo a Spagna, in assoluta dipendenza politica, e di cooperare all’estensione sproporzionata di quella potenza che di già incutevagli timore. Gli affari della Lega lo gettarono in tale dilemma: probabilmente il dilemma gli raccorciò la vita. I libri settimo ed ottavo dell’opera del Barone Hübner (II, 153-391) trattano di questo importantissimo argomento.

Le difficoltà dalle fazioni politiche della Francia anche al pontificato procurate, eransi fatte sentire prima che Sisto quinto fosse cinto della tiara. Non erasi avverata la speranza la quale salutò l’avvenimento al trono di Enrico III, speranza del ritorno ad un sistema politico capace di riconciliare i due partiti religiosi, e di ricondurre, dopo quindici anni di guerre interne sterminatrici, l’ordine, la quiete, la forza della legge, il benessere della nazione. Erano succedute due nuove guerre civili. L’estrema debolezza del re aveva confermati gli Ugonotti nell’intento di formare uno stato nello stato, mentre essa nel Duca Enrico di Guisa destò quell’ambizione, il cui ultimo scopo era di conseguire, per un ramo laterale della casa di Lorena, piuttosto tedesca che francese, la corona il cui peso pareva soverchio per gli ultimi dei Valois, per gli sciagurati figli di Enrico II, e di Caterina de’ Medici. La Lega ossia Santa Unione, nel 1576 originata a Parigi, in ultima analisi non poteva produrre diverso effetto, giacchè, ammettendo che lo sviluppo ne corrispondesse all’intento, di necessità essa dovea neutralizzare il regio potere col trasferirne al [p. 110 modifica]proprio capo le prerogative. La morto accaduta nel 1584 del Duca d’Angiò, ultimo fratello superstite al re privo di prole, e il diritto ili successione ormai devoluto al re di Navarra li Ugonotti, furono i motivi che spinsero il partito della Lega a concludere nel castello di Joinville, il 10 gennaio 1585, un trattato con Filippo II, tra le cui stipulazioni erano L’esclusione dell’erede presuntivo della corona, il trasferimento del di lui diritto sullo zio Carlo cardinale di Borbone, e la strettissima alleanza con Spagna. La fazione era mutata in ribellione.

Subito dopo ebbe principio a Roma la guerra sostenuta dagli avversarj dell’onnipotenza spagnuola col partito di Filippo II, capitanato dal conte d’Olivares, e assistito dal cardinal di Sens, Niccolò Pelvè, uno dei più focosi aderenti alla Lega. Quantunque tutto dato all’interesse spagnuolo, Gregorio XIII sull’estremo della vita, sentiva scrupolo sentendosi richiedere dell’approvazione dell’alleanza di grandi vassalli con un sovrano estero, col procedere alle scomuniche contro il re di Navarra e il principe di Condè, ambidue tornati al calvinismo, abiurato al tempo dei massacri avvenuti sotto Carlo IX. Tutto ciò che da lui potè ottenersi, furono alcune parole indirizzate al Duca di Guisa per mezzo del cardinale di Sens, in lode del di lui zelo per la religione. Tale era lo stato di cose, allorchè accadde l’elezione di Sisto quinto. Egli senz’altro trovossi assediato dai belligeranti, il cardinale te e il marchese Pisani, soccorsi da Lorenzo Priuli oratore veneto, rivaleggiando d’attività coi loro avversarj. Privo di politica esperienza, ma guidato dal suo buon senso pratico, il papa non trovò difficoltà a riconoscere, che la Lega non poteva vincere se non coll’aiuto di Spagna, ma che, oltre alla somma avversione dalla Spagna ispirata ai Francesi e finanche a coloro che se ne servivano, l’aiuto spagnuolo prestato alla Lega avrebbe finito con spingere nel campo degli Ugonotti il re già vacillante e il grande partito moderato, rimasto fedele al legittimo sovrano, partito cattolico ed antispagnuolo. Sisto quinto subito si persuase, il benessere della Francia ed insieme il vantaggio della Chiesa non poter conseguirsi se non col porre un termine alla discordia tra i cattolici. Tale convinzione gli servì di regola; [p. 111 modifica]egli procrastinò qualunque risoluzione sin a quel momento, in cui crederebbe poter conseguire siffatto intento. La missione del Duca di Nevers, Luigi da Gonzaga, e del cardinale di Vaudemont, Carlo di Lorena, spediti ad ottenere il favore del papa per la Lega mediante conferma della lor impresa ed esclusione di Navarra e di Condè, mancò al suo scopo, non riportandone altro se non un breve, poco significante, al cardinal Borbone. Per le memorie del Duca di Nevers è noto, in qual modo Sisto quinto si pronunciasse intorno ai loro doveri verso il proprio sovrano eia regia autorità. Allorchè il cardinale lorenese nell’udienza di congedo fece un ultimo sforzo onde carpire l’esclusione, insistendo anche dopo avere il pontefice dichiarato, non essere uso suo di condannare la gente senza averla sentita, Sisto rispose con veemenza: Vi abbiamo detto per qual ragione non possiamo aderire alle vostre richieste; ora aggiungiamo che non vogliamo.

L’esitazione del papa sparì, allorchè egli giudicò venuto il momento opportuno a cooperare, onde assicurare alla Francia un sovrano cattolico. Gli parve prestarvisi la riconciliazione tra Arrigo III e la fazione dei principi lorenesi, conclusa mercè la pace di Nemours del 9 luglio 1585. Sisto quinto si credè in obbligo di fortificare il partito cattolico ormai concorde. Ai 9 di settembre venne pubblicata la scomunica dei due capi degli Ugonotti. Non ne fu motivo una predilezione per la Lega: anzi il papa lusingossi di distruggerne il fondamento fazioso colla repressione degli Ugonotti e colla fusione dei due grandi partiti cattolici. I tempi susseguenti dimostrarono quanto egli s’ingannasse, la misura da lui presa non invalidando per niente la fazione ugonotta, mentre non solo non moderava l’antagonismo tra i cattolici, ma l’accresceva mercè la violazione del diritto ereditario nella persona del re di Navarra. Le due frazioni cattoliche, per l’anzidetta pace malamente riunite, eransi prefisso uno scopo troppo diverso, perchè l’azione del papa potesse tornare proficua all’una e all’altra. «La frazione dei regi, dice Leopoldo Ranke nelle sue storie francesi, intendeva indurre il legittimo successore e i di lui aderenti ad unirsi alla loro confessione, riunendo in tal modo l’intera Francia in una [p. 112 modifica]sola religione affin di renderla più potente. La frazione della Lega mirava ad escludere in ogni modo il successore, ad annientare gli Ugonotti, ad appropriarsi i loro beni. Essa ora molto più attaccata all’idea universale relii che non all’idea speciale francese, più al re di Spagna non al proprio sovrano». Non va soggetto a dubbio, chi dei due approfittasse della misura del papa, il quale in tal modo trovossi aver conseguito il contrario di ciò che era nella sua intenzione. L’errore però di Sisto (plinto, lontano dal teatro degli intrighi ed allora inesperto in politica, non deve recar meraviglia, considerando durante quanto tempo Enrico III arrampicossi a un simulacro di speranza di moderare gli Ugonotti, di dominare i Guisa e di dar corpo alla sua idea cattolica e governativa.

VI. Gli avvenimenti degli anni 1586-1588 dimostrano quanto fossero fallaci le speranze del papa e del re. Tali avvenimenti giunsero al loro apogeo nella giornata delle barricate, 12 maggio 1588, e nella sottomissione del re evaso da Parigi, per la quale Enrico di Guisa riunì in mano sua, nel dì 20 luglio, l’intera autorità militare nel regno. Ora riesce tacile farsi una giusta idea della situazione e delle angustie di Sisto quinto in questo periodo di penosa agitazione, mentre esso trovossi posto in mezzo tra il suo dovere, qual capo della Chiesa, e Filippo II; tra la guerra civile, dalla quale temeva risultasse la vittoria degli Ugonotti, e lo smembramento della Francia. A Roma, Filippo II fece di tutto, onde impedire la riconciliazione della S. Sede col re di Navarra mediante la conversione del medesimo già messa sul tappeto nel 1580, ma dal monarca spagnuolo screditata quale strattagemma. Ei non lasciò al pontefice ombra di dubbio sulle proprie intenzioni. «Informerete il papa, tali sono le sue parole in un dispaccio al conte d’Olivares in data del 15 settembre 1586, come, anzichè piegarmi a una eventualità, la quale esporrebbe gli Stati miei all’infezione eretica (cioè la successione del re di Navarra, da Filippo chiamato principe di Bearn), mi troverei costretto ad aiutare i cattolici francesi, acciò non vengano oppressi. Ne sarebbero conseguenza dissensioni e guerre civili, e forse lo smembramento delle forze e del potere del regno, il quale, essendo unito e [p. 113 modifica]cattolico, può essere, di grande utilità alla cristianità; ma, perverso e corrivo a dannazione, sarebbe un flagello tale da renderne necessario l’indebolimento >. Sisto quinto era ben lontano d’appropriarsi le idee e le vedute del re, quantunque esso, certo non meno di lui, avesse a cuore gli interessi cattolici. Lo dimostrano chiaramente, oltre molte altre prove, le parole dall’Olivares, nel momento delle maggiori angustie di Enrico III, indirizzate al suo sovrano. «È massima di questa corte di porgere aiuto al re francese, quantunque non si fidino di lui. Giacchè nel caso che soggiacesse la Francia, temono che l’Italia ancora divenisse serva di Vostra Maestà».

Tali parole del conte d’Olivares sono posteriori alla tragedia di Blois, succeduta nei dì 23 e 24 dicembre del 1588. Allorquando il cardinale di Joyeuse partecipò al pontefice la convocazione degli Stati in questa città, aggiungendo, tale convocazione essere effetto della libera volontà del re, il quale se ne riprometteva la pacificazione del regno e il rinvigorimento della regia autorità, Sisto quinto, antiveggente più di Enrico III, aveva risposto: Interverranno anco i principi, e non faranno tutto il bene possibile. L’andamento della discussione, pel quale veniva messo in forse fin il fondamento del potere sovrano, pur troppo diede retta al pontefice. Ma si capisce, qual effetto dovesse produrre sul di lui animo l’assassinio dei principi di Guisa. Quanto al duca, il papa era commosso maggiormente pel momento e per i mezzi scelti dal re onde disfarsi di lui. Ciò risulta con piena evidenza dalle parole indirizzate a Giovanni Gritti, dal medesimo ripetute nel dispaccio del 7 gennaio 1589. «Noi non potemo laudare, anzi siamo astretti a biasimare il Duca di Guisa di quel primo atto che fece di armarsi et unirsi con altri principi contro il suo re, perchè a lui non s’apparteneva in alcun modo prender l’armi contro il suo principe; et benchè le prendesse sotto pretesto di religione . però non se li conveniva, essendo suddito, armarsi contro il suo re nè volergli dar legge, et questo fu eccesso et peccato, perchè il vassallo non ha da comandare nè sforzare il principe; può ben avvertirlo, esortarlo, ma armarsi et far sollevationi è operatione che non si può escusare, è peccato. Et se il re perciò fosse proceduto et l’havesse punito, non se gli poteva dir altro, [p. 114 modifica]perchè era suo suddito, né alcun poteva se non laudare quest’atto. Il secondo atto che fece il duca fu di andare in Paris questi mesi passati.... Se allora il re voleva procedere contro il dura lo poteva l’are, perchè poteva farlo ritenere et castigarlo: et se l’avesse morto et fattolo gittare fuori di una finestra, niuno haveria detto alcuna cosa et tutto era finito. Se anco dubitava di sollevatone del popolo con ritenerlo, poteva far prova come si fosse mossa la città.... Però fece male il re non facendo questo allora, che ognuno l’haveria laudato; ma foggi fuori di Paris et abbandonò la sua città regia, et so n’andò come sapete in Orliens. Hora è successo questo terzo atto, ch’essendo il duca suddito et il re padrone, può il re far quello che li par contro i suoi sudditi, ch’a niuno ha da render conto. Ma dopo rinconciliato il re col duca, affidatolo cumunicando con lui tutto quello che passava, il mandarlo a chiamare nella sua camera et esso andarvi confidentemente, farlo ammazzare dinanzi agli occhi suoi, poi non lo potemo laudare, perchè questo non è atto di giustizia ma homicidio; doveva ritenerlo, far processo et poi far quello che li fosse piaciuto perchè è re, e con l’autorità delle leggi, con li modi ordinarj della giustizia tutto era ben fatto. Se s’havesse veduto alcuna sollevazione, si poteva allora farlo morire tumultuariamente (cioè con procedura sommaria); ma farlo morir come ha fatto è stato peccato, et è stato homicidio et non giustizia, et a noi duole che il re abbia fatto questo peccato».

È ovvio quanto rimanesse complicata la questione coll’uccisione del cardinale di Guisa. Il papa contestò al re il diritto di procedere, senza il consenso della S. Sede, contro un membro del Sacro Collegio, quand’anche non fosse stato un procedere senza forma, senza giudizio, contrario alla leggo. «Se il re haveva alcuna minima querela contro di luì, perchè non ce lo far intendere? che noi l’haveriamo qui in Roma et non l’havessimo lasciato partire, et così si haverìa rimediato ad ogni cosa; et se il cardinale non fosse venuto, noi come inobbediente l’haveressimo privato del cardinalato, et il re poteva far ciò che li piaceva». Le lettere del cardinale di Joyeuse descrivono l’alterco seguito tra esso e il papa. «Ayant allumé ma colér par la sienne, il [p. 115 modifica]lit que je ne l’écoutai guère aussi longuenient, tellement que nous ne faisions qu’ estoquèr l’un l’autre». Ma nel concistoro, convocato dal papa a proposito della morte del cardinale di Guisa, Joyeuse ebbe la peggio, dovette lasciar la sala, poi chieder perdono. Prime conseguenze dell’accaduto furono lo scontento dimostrato dal papa al legato cardinal Morosini, il quale, trovandosi in assai difficile posizione, aveva giudicato dover evitare una rottura ed era rimasto presso la corte, e un ravvicinamento tra Sisto quinto e il re di Spagna, il quale approfittò degli avvenimenti di Blois e delle relazioni rannodate tra Enrico III e il re di Navarra, onde viepiù irritare il pontefice. A Roma crebbero le passioni dei partiti. Riesci a nulla la missione del vescovo del Mans, Claudio d’Angennes parente del cardinale di Rambouillet, quantunque il prelato francese ritrattasse la dichiarazione da principio emessa, in Francia appartenere ai giudici regj in certi casi la giurisdizione sugli ecclesiastici, e benché egli chiedesse assoluzione pel re. L’armonia ristabilita tra i due Enrici fece andar a vuoto qualunque sforzo della diplomazia francese a Roma. Quella di Spagna conseguì piena vittoria. Il Morosini, rimasto ancora in Francia, non facevasi più illusione sullo stato di cose nel regno, né sulla situazione della Lega, dopo avvenuta la riunione di Enrico III e del re di Navarra, e quella delle forze dei cattolici regj cogli Ugonotti, in seguito al convegno di Plessis-les-Tours, 3 aprile 1589. Ma le di lui parole non venivano più ascoltate a Roma. Nel dì 24 maggio venne pubblicato il monitorio contro Enrico III. Il re, già prima accusato di parricidio e di sacrilegio, veniva minacciato di scomunica, ove egli non liberasse dentro dieci giorni il cardinale Borbone e l’arcivescovo di Lione prigioni, presentandosi al cospetto del papa, o in persona o per i suoi rappresentanti, nel termine di due mesi. Se il re non si pentisce, disse Sisto quinto al Badoer ai 29 luglio, gli toccherà la sorte di Saul, finirà male.

Tre giorni dopo queste parole il pugnale di Iacopo Clémeat terminò i giorni dell’ultimo Valois, nel momento in cui esso era per assaltar la Lega nel suo centro, Parigi.

VII. Allorché Enrico IV, «et par droit de conquête et par droit de naissance», stava per salire sul trono francese, la corte [p. 116 modifica]pontificia ritrovavasi in gravissimo errore, e riguardo alla vera situazione e alle disposizioni delle masse nel Regno, e non meno quanto all’attitudine, al nuovo re dalla t’orza delle circostanze prescritta al cospetto delle due confessioni religiose. Enrico III aveva presupposta la futura riconciliazione del successore colla Chiesa: Roma nella di lui successione non vide se non la vittoria del protestantismo. Non solo il contegno della parte imponentissima dei cattolici regj, ma ancora le dichiarazioni da Enrico IV emesse; dichiarazioni dalle quali risultava se non l’ammissione della necessità dell’unione della corona colla fede cattolica, almeno la sicurtà dei diritti cattolici, e la propensione a discutere le questioni controverse, avrebbero dovuto consigliare alla Santa Sede di non accelerare le risoluzioni. Ma il pericolo ad un tratto minaccioso pel semplice l’atto della successione di un ugonotto, il quale di più era relapsus, impose silenzio nella mente di Sisto quinto a qualunque altra considerazione. «Salvar la fede, così si esprime l’autore, salvarla a qualunque costo, finanche cooperando a rendere Filippo II arbitro dei destini di Francia, ciò che gli ripugnava tanto, ecco ciò che in questo momento sembrava al papa un dovere sacro, urgente, superiore a qualunque riguardo. Dopo di essersi staccato dalla Lega, Enrico III, dalla forza delle circostanze era stato spinto a congiungersi col re di Navarra. Nel medesimo modo Sisto quinto, vedendo gran parte della nobiltà francese attorno a un eretico, doveva cercare la salvezza della fede nell’alleanza colla Lega, e, riuscendo essa troppo debole, nel soccorso del monarca Spagnuolo».

Da parecchi anni Filippo II aveva fatto qualunque sforzo per indurre e mantenere la Santa Sede in siffatto errore, ed erano venuti a soccorrerlo gli avvenimenti degli ultimi tempi. «Voi altri, disse un giorno Sisto quinto a Giovanni Niccolini ambasciator toscano, non vi curate se non degli affari d’Italia. Ci pensiamo anche noi; ma, essendo papa, dobbiamo pensare più ancora alla religione. Dobbiamo sterminare l’eresia, cioè Navarra, e perciò abbiamo bisogno delle spalle di Spagna». E ad altri: «Non v’è dubbio la Francia essere un bell’e buon regno, il quale ci offre quantità di benefìcj e cui vogliamo un gran bene: cerchiamo di salvarla; [p. 117 modifica]ma la religione ci tien a cuore più della Francia». Già il papa aveva approvato la proclamazione, avvenuta a Parigi e nel campo della Lega, del cardinal Borbone, zio di Enrico IV, col titolo di re Carlo X: e un agente del duca di Mayenne, dopo l’assassinio di Guisa suo fratello capo del partito, era giunto a Roma. Richiamato il Morosini, la legazione di Francia venne affidata al cardinal Enrico Caetani. In santa Pudenziana sull’Esquilino una ricca cappella rimane qual monumento dello splendore di questo porporato, cui siffatta legazione ha procurato un nome storico, ma il quale mostrossi poco abile a vincerne le difficoltà, non avendo, nel suo zelo per gli interessi della Lega e di Spagna, saputo rendersi capace né della grandissima mutazione ogni ora crescente delle disposizioni della maggioranza in Francia, né delle variazioni che ne dovevano necessariamente risultare nei consigli del papa. L’istruzione dei 30 novembre 1589, il cui principal contenuto per la prima volta ci viene tramandato dall’opera dell’Hübner (II, 250), essendo apocrifa quella stampata dal Tempesti, prescriveva al legato di esortare i membri della Lega stringendoli quanto più si potesse, e di adoperarsi a staccare dalla causa di Enrico IV la nobiltà cattolica. Le credenziali erano intitolate al duca di Mayenne e al Consiglio generale della Lega; centomila scudi erano messi a disposizione del legato, cui in tempo opportuno promettevansi somme maggiori. Non si era fatto parola della quistione di successione.

Questa volta ancora il papa nutrivasi di speranza di riunire sott’al medesimo stendardo tutti i cattolici. Egli vagheggiava l’idea d’un’alleanza tra la Francia tornata al cattolicismo e gli Stati Italiani. Mentre in fatto ei contribuiva a far riescire le mire spagnuole, meditava sul modo di scemare l’influenza di Spagna. Ma gli affari presero una piega diversa da quella immaginata dal pontefice, il quale ad un tratto trovossi in una posizione, viepiù difficile perchè poco decisa, la quale gli impediva l’azione e dall’uno e dall’altro lato. Sisto quinto per mezzo del nuovo legato erasi messo in comunicazione colla Lega, soccorrendola di denaro. Intanto Enrico IV non solo faceva progressi nell’interno, ma trovò aderenti fuori di Francia. La parzialità dimostratagli dalla Repubblica [p. 118 modifica]di Venezia, la quale seco entrò in diplomatici negoziati, e le velleità antispagnuole della Toscana inquietarono ed irritarono il pontefice al punto d’eccitarlo ad escire da qualunque incertezza e riserva. Cedendo alle istanze del conto d’Olivares, fece informare Filippo II d’essere pronto a concludere con lui una lega, coll’intento di ristabilire il cattolicismo in Francia, di preservare dall’infezione i paesi vicini, di regolare secondo le intenzioni del re la successione in caso di morte del sedicente Carlo X, il quale non era né anche simulacro di sovrano. A tale impresa, il papa offrì di partecipare nella medesima proporzione con Filippo II, ed anche con sforzo maggiore, ed incaricossi di trattative cogli stati italiani affine di determinarne la posizione a cospetto della nuova lena. Nel dì 16 dicembre 1580 l’ambasciatore spagnuolo spedì a Madrid il corriere colle predette proposte: la risposta di Filippo II giunse a Roma il di 22 febbraio 1590. Essa era affermativa su tutti i punti. Quaranta a cinquantamila uomini erano pronti ad entrare in Francia: il capitan generale verrebbe nominato dal papa. Di già eransi spediti ordini a far leve nelle Fiandre, a Napoli, in Lombardia.

Ma nel papa era succeduta una gran mutazione nei due mesi trascorsi dalla spedizione delle proposte all’arrivo della regia accettazione. Era scossa la sua convinzione, la salvezza del Cattolicismo non poter assicurarsi in Francia se non colla rovina di Enrico IV. Varie circostanze avevano contribuito a produrre diversa impressione nell’animo di Sisto quinto. Allorquando egli offrì la sua cooperazione a Filippo II, era talmente adirato con Venezia per causa dei negoziati della Repubblica con Enrico IV. e dei favori dimostrati ai di lui inviati, da far temere d’una aperta rottura. Il papa insisteva, il contegno della Repubblica esser pericoloso per la pace religiosa d’Italia: esser vero, che altri principi cristiani stavano in relazione con eretici, ma ch ne chiedevano licenza e che tali eretici erano «stabiliti, fermi, senza contrasto nei loro ti». mentre la Signoria procedeva altrimenti, guastando ogni cosa. Ma le istanze di Leonardo Donato, arrivato in ambasceria straordinaria in aiuto al Badoer, e l’antico affetto del pontefice per la Repubblica, se non lo persuasero interamente, almeno calmaronlo, Poi succedette la missione del [p. 119 modifica]duca di Lussemburgo, da Enrico IV spedito col marchese Pisani, onde tentare un ravvicinamento colla S. Sede. Il duca non venne ricevuto in qualità d’ambasciatore, ma ebbe lunghi colloqui col papa, il quale cominciò ad intravedere la possibilità del ritorno del re nel grembo della Chiesa cattolica, mentre svanì qualunque dubbio sulle disposizioni della maggioranza dei cattolici francesi e sulla loro decisa volontà di mantenere il diritto ereditario. Sisto quinto rimaneva perplesso. Di nuovo gli si affacciava la speranza di salvar la fede senza annientare la Francia a pro di Spagna. L’antica sua politica riacquistò terreno. Al cardinale Gesualdo, il quale aveva condotto il negoziato coll’Olivares, diede risposte evasive. L’insistere dell’ambasciatore, il quale ammonì il papa di far il suo dovere, il re avendo fatto il suo, chiedendo l’allontanamento di Lussemburgo, l’esclusione del re di Navarra, la scomunica dei suoi aderenti cattolici, provocò una di quelle scene, che così vivamente dipingono il carattere di questo pontefice.

Siffatta scena riesci d’una violenza tale, da minacciare di rottura tra la Santa Sede e la Spagna, mentre poco prima erano giunti al termine medesimo gli affari di Venezia. Leggendo le parole da Filippo II nel dì 12 giugno indirizzate a Sisto quinto, risulta chiara la situazione. «Il contegno di Vostra Santità, così il re, non è menomamente in armonia con ciò che il più ubbidiente figlio della Chiesa doveva aspettare da lei. V. S. torna a parlare di quel che ha fatto riguardo agli affari di Francia, e sulla fattami offerta di denaro e di truppe. V. S. vede che io sono venuto al suo incontro, accettando le sue proposte, e facendo da parte mia ciò che al mondo è noto. Io non voglio se non una sola cosa, cioè che ciascuno si metta ad operare, giacché secondo le opere saremo giudicati e nel mondo presente e nel futuro. Dopo di avere, con atto ispirato da Dio, al principio del suo regno pronunciata l’esclusione di Béarn, V. S. con estrema mia sorpresa, ha lasciato alle eresie agio di gettar radici in quel paese, senza nemmeno comandare ai cattolici di abbandonare Béarn. La Chiesa è minacciata di perdere un membro come la Francia; il mondo cristiano ha da temere d’essere invaso dagli eretici riuniti; l’Italia è esposta ai medesimi, e intanto si sta [p. 120 modifica]contemplando e temporeggiando al cospetto dei nemici di Dio! E contro di me si lanciano accuse, perchè, trattando tutte queste cose quasiché fossero interessi miei propri, accorro verso V. S. come padre riverito ed amato, rappresentandolo, da buon figlio, gli obblighi e della S. V. e miei! Per la misericordia di Dio, dove nell’intero corso della mia vita ha potuto trovar motivo V. S. a pensare e a parlare di me come fa, e con qual diritto me lo scrive? Iddio sa, e il mondo vede, quale è stata mai sempre la mia venerazione per la Santa Sede, da cui niente potrà sviarmi, né anche il grave torto della S. V. a mio riguardo. Ma quanto è maggiore la mia devozione, tanto meno consentirò a lasciarla S. V. mancare ai doveri suoi culla Chiesa e con Iddio, il quale le ha dati i mezzi d’agire. A rischio d’importunare V. S. e di dispiacerle, insisterò perchè Ella metta mano all’opera. Ecco quel che desidero: se Ella non lo fa, mi dichiaro non colpevole dei mali che sono per risultarne. Lo scopo della mia protesta e della presente lettera si è il bene della Chiesa. Vedo il bisogno, eppur nulla si fa. Se la S. V. agisce conforme ai suoi doveri e alle sue ripetute offerte, l’assisterò da divoto figlio. Non ammetto il caso contrario, ricusando di credere che Iddio abbia dimenticata la Chiesa sua al punto di permettere, che essa venga abbandonata dal suo vicario».

Pochi documenti al pari di questa lettera dimostrano l’indole del re e la situazione momentanea. Non vennero già rotte le relazioni diplomatiche; ma dalla parte di Spagna rapidamente succedettero quelle manovre, le quali, se non giunsero ad intimidire il pontefice, pure ne avvelenarono il rimanente dei giorni. Di tal numero furono laminacela dell’Olivares di far presentare al Concistoro protesta legale contro la presenza in Roma dell’inviato di Enrico IV; la riunione di truppe spagnuole su i confini dello Stato romano; l’azione continua sul cardinale Gaetani, tutto preso nei lacci della Lega e degli Spagnuoli, nell’intento di vicolare, pel di lui procedere, la libertà del papa; finalmente la missione del Duca ’li Sessa, a fine di astringere, di concerto coll’Olivares, Sisto quinto a concludere l’alleanza, senza la quale il re non credeva poter conseguire lo scopo. D’altra parte si aveva la resistenza attiva e passiva del pontefice, gli sforzi suoi per [p. 121 modifica]guadagnar tempo, la speranza viepiù salda di un cambiamento di religione nel re di Navarra, ma anche le sue incertezze, esitazioni, apprensioni, accresciute dai vivi rimproveri di Filippo, dalle continue querele degli ambasciatori, dalle accuse dei fanatici della Lega, dai discorsi d’oratori, i quali dai pulpiti di Madrid e di Parigi insultavano il Papa qual fautore d’eresia, anzi qual eretico! Certo, il contegno del medesimo dal re di Spagna e dal di lui partito non poteva se non tacciarsi di manifesta incoerenza. Verso la metà di luglio, i cardinali d’Aragona e di Santa Severina, dal papa incaricati di trattare con Olivares e Sessa, conclusero coi medesimi una specie di capitolazione, per la quale stabilivasi la solidarietà di vedute tra il pontefice e il re nell’intento di salvare e di assicurare la fede cattolica. Allorquando però, dopo molte difficoltà, i negoziatori credettero esser giunti ad un accomodamento, il quale nelle parti essenziali somigliava a quello progettato sei mesi prima, Sisto quinto rimise tutto in forse, col voler sottomettere alla congregazione incaricata degli affari di Francia la quistione, se nel caso di vacanza del trono spettasse alla Santa Sede l’elezione? («An electio regis Franciae, vacante principe ex corpore sanguinis, spectet ad pontificem»). Gli ambasciatori spagnuoli, i quali di già eransi lusingati di tenere il papa, s’avvidero che esso non cercava altro se non di trarre l’affare in lungo.

Tornarono all’assalto; ma il pontefice non si lasciò muovere, nemmeno dalla loro dichiarazione, emessa il dì 19 agosto, che essi avrebbero lasciata Roma. Ormai si sapeva, che egli non avrebbe concluso verun trattato tale da legare la Santa Sede con Spagna, onde, sotto il colore della religione, procurare la vittoria degli interessi spagnuoli in Francia. Quanto fosse giusta la di lui opinione della Lega, risulta dalle parole indirizzate agli ambasciatori di Filippo II. Butterebbe piuttosto, così disse, i suoi denari nel Tevere, anziché mandarli al duca di Mayenne. Il legato aver mancato alle sue istruzioni, consegnando al medesimo cinquantamila scudi. Essere risoluto a non prestar aiuto alla Lega, la nemicizia delle case di Guisa e di Borbone risultando da antiche rivalità e non avendo che fare cogli interessi della religione. Perciò cardinali, principi e signori, inimicati con Mayenne [p. 122 modifica]essersi accostati al re di Navarra; perciò appunto egli non voler avere l’aria di essere partigiano della Lega, e protettore di Mayenne. Solo conservandosi neutro tra le fazioni, solo dichiarando l’intervento pontificio e spagnuolo non mirare ad altro so non a dare alla Francia un sovrano cattolico, non già a favorire i disegni della Lega, potersi sperare di riunire i Francesi cattolici. Ma gli interessi spagnuoli erano concatenati con quelli della Lega, l’indebolimento della Francia stava nei reconditi pensieri di Filippo II, il quale voleva escluso quel re cattolico desiderato da Sisto quinto. Tale essondo la divergenza d’opinioni e di mire, l’accordo riesciva impossibile. Il grave errore di Sisto quinto era consistito in primo luogo nel suo non ravvisare le vere disposizioni della nazione francese, poi nella lusinga d’indurre Filippo II ad adottare il proprio punto di vista.

Ma erano esaurite le forze del pontefice. L’agitazione continua procuratagli da questi combattimenti ed alterchi, le difficoltà della sua posizione due volte accresciute mediante errori politici, gli scrupoli di coscienza inseparabili dallo questioni religiose, la vivacità del suo carattere avevano infranti la robusta sua costituzione. Era di già ammalato di febbre quando combatteva ancora cogli ambasciatori di Spagna; allorché due giorni dopo convocò di nuovo la congregazione per gli affari di Francia, la sua vita era minacciata. Mori nella sera del 27 agosto 1590. «L’accidente sopravvenuto a Sua Santità - tali sono le parole dal conte d’Olivares la medesima sera indirizzate al re - è stato così violento da farla morire senza confessione, e peggio, peggio, peggio. Iddio gli usi misericordia!» - «Il papa, scrive il Sessa, è morto senza confessione, e un cardinale dice che da più anni non si è confessato. L’accolga Iddio nella sua gloria! Non sarebbe potuto morire in momento più funesto alla sua riputazione, giacché lascerà memoria peggiore di qualsiasi papa da lungo tempo. Piaccia al Signore dargli un successore come conviene». La rabbia spagnuola si manifesta in questi dispacci. Al contrario Alberto Badoer: «Alle 23 hore (il pontefice) spirò lasciando i suoi suoi tutti sconsolati e gli altri buoni in gran timore, che tal accidente non sia occorso in tempo poco opportuno, per il misero stato delle cose del mondo; Io sento [p. 123 modifica]grandissimo dispiacere per il servizio della Serenità Vostra, perchè sebbene la Santità sua haveva quella severità de natura, si poteva nondimeno, por la buona sua voluntà verso la Serenissima Repubblica, sperar con il tempo e con la destrezza, ogni buon esito delli negoti suoi».

Delle disposizioni della corte di Madrid rende conto un dispaccio dell’ambasciator veneto Tommaso Contarini di 22 settembre. «La morte del pontefice, quanto più si considera, tanto più si gusta in questa parte, parlando ogn’uno con tanta libertà, quanto che essendone ragionato con poco rispetto, stimandosi che non possa succedere alcuno nel pontificato, che non sia men contrario alli pensieri di questa corona, et che non favorisca più la parte della Lega di Francia».

VIII. La presente succinta esposizione delle relazioni di Sisto quinto coi partiti politico-religiosi di Francia, nell’epoca dopo lo guerre inglesi più funesta e gravida di maggiori pericoli pel regno, si è ingegnata di far conoscere al lettore il contenuto più notevole della parte più importante dell’opera del barone Hübner e dei documenti alla medesima aggiunti. I particolari dei fatti e delle considerazioni, cui essi danno luogo, siccome è naturale, non possono ricercarsi se non nel testo e nel bel codice diplomatico che gli serve di corredo. L’attitudine da Sisto quinto presa negli affari della Lega, nel suo insieme era ben nota, e il conte d’Olivares è un gran personaggio presso tutti gli storici del papa. I nuovi documenti però, quanto numerosi giudiziosamente scelti, palesano maggiormente i reconditi pensieri e gli intimi motivi del papa, mentre servono a corroborare ciò che si sapeva dei maneggi degli agenti spagnuoli a Parigi, del Mendoza, del Tassis e d’altri. Più che non ha fatto, l’autore avrebbe potuto servirsi di fonti francesi contemporanei, benchè esso possa obiettai, aver voluto comporre non la storia della Lega ma quella di Sisto quinto. Mi rincresce però che il barone Hübner non abbia giudicato opportuno, anzichè di rompere il filo della narrazione colla morte del papa, di esporre almeno succintamente lo sviluppo della crisi sin alla riconciliazione di Enrico IV colla Chiesa, a mio giudizio complemento necessario dell’opera rimasta come in tronco. Era preceduta alla morte del papa [p. 124 modifica]la battaglia d’Ivry, 14 marzo 1590, la quale pareva dovesse aprire al re le porte di Parigi di cui principiò l’assedio e dove il cardinal Caetani di già masticava erba: ma era anche succeduta l’invasione del regno, per Filippo II, dei duchi di Savoia e di Parma. Effimeri furono i regni dei primi tre successori di Sisto quinto. Sotto il secondo di ossi, Gregorio XIV (Niccolò Sfondrato) la parte dalla S. Sede nelle operazioni militari in Francia le procurò tutt’altro che onore, le soldatesche papali essendo poco agguerrite e peggio disciplinate, facendo inoltre larga breccia nel pontificio tesoro. Il momento favorevole d’intervenire era passato ancora per Filippo II. Il re aveva giudicato bene dell’occasione opportuna, allorchè fece di tutto onde spingere Sisto quinto ad unirsi a lui, coll’autorità del suo nome e colle sue risorse pecuniarie. Forse allora egli avrebbe raggiunto l’intento suo: ora nell’istessa Lega manifestatisi la scissura. Quanto importasse in quel tempo la resistenza del papa, è manifesto a ognuno.

Sisto quinto era morto da un lustro, allorchè avvenne la solenne assoluzione di Enrico IV per Clemente VIII, destinato a cogliere i frutti di quel che il celebre predecessore suo aveva preparato tramezzo alle esitazioni ed incertezze dell’agitato suo regno. Quattro mesi in poi definitivamente si sciolse la Lega, e nel dì 2 maggio 1589 venne conclusa a Vervins la pace tra Francia e Spagna, il cui re presto scese nella tomba, nella quale erangli preceduti i suoi giganteschi disegni, lasciando la monarchia grandemente indebolita malgrado la colossale estensione dei suoi territorj3. La S. Sede partecipò a questa pace, le cui principali condizioni rinnovarono quelle del trattato di Castel Cambrese del 1559. Nella basilica di S. Pietro, il rilievo sul sarcofago di P. Leone XI rappresenta la comunione, da lui, allora cardinale Alessandro de’ Medici e legato in Francia, data ad Enrico IV. Non [p. 125 modifica]solo pel re, anche per Clemente VIII la riconciliazione era politica necessità. Solo col ritorno nel grembo della Chiesa, Enrico IV poteva guadagnarsi stabilmente l’opinione moderata vie più rinforzata, la quale non disgiungeva l’attaccamento alla fede cattolica dall’adesione alla legittima successione; solo con tal ritorno gli veniva fatto di sciogliere la Lega. Solo col riconoscere il re legittimo, il papa assicurava la posizione del cattolicismo in Francia, mantenuto in tal modo sul terreno cattolico un contrappeso alla potenza spagnuola anche pel pontificato minacciosa. Malgrado i vacillamenti, tale era stato il pensiero fondamentale di Sisto quinto.

Fermiamoci un momento ancora, per raffigurarci quest’uomo, straordinario quanto la di lui vita. Nella magnifica cappella del Presepio, da lui aggiunta alla basilica di Santa Maria maggiore, Sisto quinto giace sepolto dirimpetto al pontefice che gli schiuse l’arringo, S. Pio V. I rilievi del vasto monumento rappresentano vari fatti del di lui regno, tra i quali i soldati che corrono con teste di briganti recise sono ornamento stranissimo d’un pontificio sepolcro. Nel centro vedesi la statua del papa, in ginocchioni, il capo alquanto abbassato, le mani giunte. Non è di scultura insigne, ma vera e viva; vediamo il «cordelier qui est en très-bon prédicament», quale l’ambasciatore francese lo fece conoscere al tempo del conclave, allorquando all’infuori di Roma poco si sapeva di lui. Giovanni Gritti ambasciator veneto, cui spesso incontriamo nei volumi del suo collega tedesco del decimo nono secolo, ci ha lasciato un buon ritratto del papa. «È di carne bruna, di statura mediocre, con barba castagna, e la vita, come affermano, tutta coperta di pelo. Ha guardatura sicura, e discerne così bene senza occhiali, che subito giunto in Concistoro con una sola fissata d’occhi s’accorge chi vi è e chi manca.... Ha natura collerica e sanguigna, onde s’accende di sdegno con grand’impeto: vero è che facilmente s’acquieta» (Relazioni Ven. II, 4, 340). «Se i pensieri continui e molto più la collera non lo molestassero assai, tali sono le parole di Lorenzo Priuli, tornato da Roma nell’anno secondo di Sisto quinto (ibid., 310), si potria credere che dovesse superare gli anni di papa Gregorio. Ma mette gran pensiero alle cose, si affeziona, si affligge, e [p. 126 modifica]la collera è in lui tanto gagliarda, che alcuna volta gli tremano le mani quando è preso da essa. Tuttavia gli passa assai presto, e vivendo una vita assai regolata, comunemente si tiene, che sia per vivere qualche anno, se bene lui medesimo all’erma che non crede di poter vivere lungamente».

Sotto un aspetto solo, egli somigliava perfettamente al suo predecessore, nella passione cioè per l’architettura. I lavori per la stazione centrale delle strade l’errate romane, i quali di giorno in giorno vanno cambiando maggiormente l’altopiano tra il Quirinale e l’Esquilino, danno occupata una porzione troppo vasta della villa, colla quale il cardinale di Montalto, negli anni di ritiratezza dai negozi, aveva mutato l’aspetto di quella contrada allora del tutto abbandonata, tra la sua prediletta chiesa di Santa Maria Maggiore e le Terme di Diocleziano, la cui parte meglio conservata da Pio IV era stata dedicata al culto qual tempio di Santa Maria degli Angeli. Chi però è stato a Roma prima di quest’ultimo decennio, dalla sommità del così detto Monte della Giustizia, punto più elevato dell’aggere di Servio e dell’intera città di cui presentavasi il magnifico panorama, ha osservata questa villa, di già priva della maggior parte dei suoi bei viali e monumenti d’arte, ma nel suo insieme ancora conservata; villa la quale, un quarto di secolo prima di venir guastata, ebbe la sorte di descrizione storica diligentissima del principe Camillo Massimo, nella cui famiglia essa pervenne nello scorso secolo. A chi consideri quanto il papa in poco più di cinque anni di regno agitatissimo operasse in ogni ramo, con sicurezza, prontezza, energia, ordine metodico da fare stupire, non parrà inverosimile l’opinione del nostro autore, il cardinale, nell’involontario suo ritiro, essersi in questo bel luogo occupato di progetti, i quali allora erano castelli in aria, eppure un giorno ebbero da effettuarsi. Le istituzioni politiche di Sisto quinto sono state portate via dai turbini dei secoli. Le di lui creazioni nel campo dell’arte portano i contrassegni della decadenza del gusto del tempo, oltre a mostrare i difetti in li dal far presto. La mancanza d’intelligenza e di sentimento per le fabbriche antiche era, reso vie più manifesto in lui perchè l’attività sua era immensa. Ma del pari che la città di Roma [p. 127 modifica]continua tuttora a portar l’impronta ricevuta da lui, le istituzioni ecclesiastiche e della curia sono rimaste nel loro insieme quali da lui vennero ideate. Niun pontefice degli ultimi secoli ha lasciate traccie pari alle sue.

All’opera di cui si è fatto parola nella presente analisi, spetta il merito di aver posto sotto il vero e proprio aspetto il carattere di quest’uomo singolare, dimostrandone con prove nuove e sincere l’ingerenza nell’andamento delle cose del suo tempo. L’insigne storico alemanno, più di qualunque altro dell’epoca attuale benemerito della storia dei pontefici del decimosesto e decimosettimo secolo, qui, come spesso altrove, aveva indicata la retta via: ora i documenti dal barone Hùbner raccolti, dei quali abbiamo copiosa scelta nel secondo e terzo volume, e maggiormente quegli spagnuoli, sono venuti a convalidare viepiù, completandolo, il giudizio sopra Sisto quinto. Nell’esporre le condizioni4 interiori, amministrative ed altre, dello Stato romano, e nel qualificare l’indole e le tendenze religiose quanto letterarie dell’epoca, la quale tiene il mezzo tra il dominio delle idee riformatrici del tempo del Concilio Tridentino e i cambiamenti risultati dalla lunga lotta col protestantismo, l’opera lascia da desiderare. Non voglio stancare il lettore entrando nell’esame dei particolari e di questa parte e dell’altra spettante alle cose locali, e storiche e topografiche, particolari non esenti d’errori di vario genere, e di sviste sfuggite e alla diligenza dell’autore e a quella del correttore non sempre troppo attento. Non consiste in tali parti il pregio intrinseco del lavoro, bensì nel quadro che dal medesimo ci viene presentato delle relazioni [p. 128 modifica]politiche, intimamente collegate colle religiose, del pontificato coll’Italia e coll’Europa cattolica. Siffatto quadro è ampio e colorito: i giudizj sono coscienziosi e pieni d’equità, l’attitudine è dignitosa, lo sguardo abbraccia quel vasto orizzonte, il quale, sinanche nei tempi dell’inferirsi di molte mediocrità conta tra i distintivi della Santa Sede.


Alfredo Reumont.          



Note

  1. L’autore dell’opera ne ha procurata una edizione tedesca, Lipsia 1871, 2 vol. 8vo, senza le Appendici e i Documenti dell’originale. Se ne è annunziata ancora una versione inglese.
  2. Il Leti morì in Amsterdam nella primavera del 1701. Una di lui figlia divenne sotto-governante alla Corto di Berlino; essa è «la Letti» delle Memorie della Margravia di Baireuth, sorella di Federigo il Grande, la quale non ne giudica troppo bene.
  3. Le condizioni e politiche ed interiori della Spagna alla morte di Filippo II, già molto bene decritto da C. Weiss nell’opera: L’Espagne depuis le regne de Philippe II jusqu’à l’avènement des Bourbons (Parigi 1844). vengono nuovamente esposte coll’aiuto di molti materiali sin ad oca non adoperati, nel primo volume dell’opera: Heinrich IV. und Philipp III. Die Begründung des franzosischen Uebergewichtes in Europa, 1598-1510. Von Dr. M Philippson, Berlino, 1870.
  4. Credo non dover passare sotto silenzio la menzione delle misure prese da Sisto quinto riguardo agli Ebrei, contenuta in una cronaca gindea (Emek Habacha von R. Joseph ha Cohen übersetzt von M. Wiener, Lipsia 1858’, la quale contrapponendo a pag. 127 la mitezza, dimostrata da questo potefice ai seguaci dalla legge mosaica, alle severità di altri e segnatamente di P. Paolo IV, ne fa grandissimo elogio. Una petizione da presentarsi al papa riguardo alle sacre scritture e al Talmuld non ebbe luogo, non essendo rimaste d’accordo le comunità giudee con tale intento riunite a Padova. L’autore della sopraccitata cronaca, di famiglia spagnuola ma nato in Avignone, esercitò la medicina nel Monferrato, dove morì verso il 1575, dimodochè quel che spetta a Sisto quinto proviene da un continuatore anonimo.