Arabella/Parte prima/8
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VIII.
I gioielli della sposa
Accesa la lucerna annerita dal fumo e dagli sciami di mosche che vi si posano la sera, il Pirello, con un ginocchio sulla pietra del camino e una mano stretta al paiolo, stava rimestando una grossa polenta davanti a una fiamma spropositata. Mamma Beatrice, vicina ai fornelli, sollecitava colla ventola un certo stufato del giorno addietro a scaldarsi. Uomini e donne entravano e uscivano, urtandosi sulla soglia, chi con un sacco di melica sulle spalle, chi con un cesto o con due secchi d’acqua che lasciavano sull’ammattonato un pattume di fango.
La vasta cucina inondata da quella gran fiamma d’oro, pareva ancor più disordinata del solito coi suoi sacchi ammonticchiati alla parete, colle sedie scompagnate, che perdevano la paglia, cogli zoccoli, gli sgabelli, le scarpuccie dei bimbi seminate dappertutto, che nessuno pensava di raccattare o almeno di portar via.
Era il sistema della casa, aiutato dalla pigrizia di mamma Beatrice che la morte di Bertino aveva reso più indifferente, dalla sfiducia di papà Paolino, che vedeva le cose andare a rotoli, dall’abitudine che avevano tutti di comandare, nessuno di obbedire.
Naldo, il fratellino di Arabella, un ragazzo sugli undici anni, vivo come il fuoco, pieno di fame, picchiava una musica disperata sulla scodella vuota, seduto davanti alla tavola rustica, dove diverse mani andavano preparando le forchette, i piatti e i cucchiai d’ottone per la cena.
Arabella entrò con papà Paolino, e sedette presso al fratellino per farlo tacere. Il diavoletto, che aveva battuta la campagna tutto il giorno in caccia di uccelli e di rane, non aveva un filo pulito. Le scarpe scalcagnate, sporche di fango, lasciavano uscir i diti dei piedi, mostrando delle calze color di fango; e il fango saliva al naso, agli orecchi, dappertutto, dando a quel caro monello l’aspetto d’un pezzente pescato in una gora. Ove mancavano i bottoni, s’era aiutato da sè con lacci di corda e con spini di robinia.
Arabella, che aveva il cuore aperto, si sentì a un tratto molto colpevole di quel disordine, di quell’abbandono. Naldo era suo fratello giusto, il ritratto in piccolo del suo povero papà, gli stessi occhi neri, la stessa carnagione bianca e delicata. Se cresceva un monello e se portava intorno i segni della pezzenteria, la colpa non era soltanto della povera mamma, stanca, abbattuta sotto il peso di tante cose e di tante disgrazie, ma ancora un poco di una certa monachella che colla scusa di contemplare gli eterni misteri del paradiso, non si curava dei bottoni e delle calze della sua gente.
Domani, come una fata benefica delle leggende, essa avrebbe potuto con una parola trasformare quella rovina in una casa ordinata, ricondurre la pace, la speranza, la volontà nel lavoro e nel bene; prendere essa l’autorità, l’iniziativa, il comando, che viene dalla forza e dai mezzi, cambiare il bianco in nero, impedire che la rovina menasse la disperazione, e che i suoi fratelli andassero per il mondo come veri vagabondi.
— Senti, Ara, — disse Naldo, parlando sottovoce alla sorella — c’è stato due ore fa il sor Tognino, che ha lasciato un magnifico astuccio per te. Vedessi! è pieno di perle e di diamanti.
— Dov’è?
— La mamma voleva che ti chiamassimo, ma papà Paolino non ha voluto, perchè dice che tu non hai ancor detto di sì. L’astuccio è di sopra nella tua stanza.
— Sta zitto, vado a vedere.
Arabella uscì senza dir altro. Il Pirello rosso e scalmanato agitò tre volte la polenta nel paiolo, riempiendo la cucina d’un buon fumo caldo. La famiglia era quasi tutta raccolta. La Pirella col secchiello in mano e la tazza nell’altra, versava il latte spumoso nelle scodelle di terra allineate sulla tavola. Gli uomini, che lavoravano in casa, prendevan posto sui sacchi, dove s’era messo in guardia anche Brill, un cane ricciuto che non si ricordava più di essere stato bianco. Mario, tornato da pochi giorni dal collegio, entrò colle gabbie e colla civetta e cominciò a litigar forte con Naldo, come al solito. Le donne che avevan fatto il bucato sedevano sotto il portico, al piccolo chiaro del crepuscolo, ciascuna colla sua scodella in grembo; e già tutti ormai avevano trovato il loro posto, il loro piatto, il loro cucchiaio, e le bocche cominciavano a essere occupate, quando l’uscio che mette sulla scala si spalancò e apparve Arabella col lume in mano, coperta il collo, i polsi, il petto, i capelli, di perle, di diamanti, di braccialetti d’oro con grosse pietre di rubino e di smeraldo, una vera apparizione miracolosa della Madonna santissima, che sulle prime incantò tutti gli occhi, poi trasse un grido di meraviglia e di giubilo; tutti gridarono:
— Viva la sposa!
Mamma Beatrice, a cui il marito aveva sussurrata una parolina in disparte, tocca nella parte più sensibile del suo orgoglio materno, corse verso la figliuola, se la prese nelle braccia, la baciò a lungo sui capelli, la condusse nel mezzo della cucina, dove uomini e donne e ragazzi, colla scodella in mano, si raccolsero ad ammirare quel non mai visto splendore di gemme. Accorsero altre ragazze dal cortile, il portico si affollò e Arabella dovette farsi vedere anche a quelli di fuori.
— O santa, se l’è mai bella!
— L’è un splendor che scùriss la vista.
— Non se ne vede...
— L’è la Madonna della Salètta, Delaida.
— Con vùn de quist — disse il Pirello, indicando colla punta del cucchiaio un grosso brillante dello spillone, — se pò mung la vacca anca al scùr...
Tutti vollero dire qualche cosa. Le bambine scalze e spettinate a cui Arabella soleva far la dottrina in chiesa, eccitate anch’esse da quell’apparizione, le baciavano il vestito e le mani.
Papà Paolino scivolò via e si nascose nello stanzino della pesa al buio. Aveva bisogno di piangere forte e che nessuno lo sentisse.