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Naldo, il fratellino di Arabella, un ragazzo sugli undici anni, vivo come il fuoco, pieno di fame, picchiava una musica disperata sulla scodella vuota, seduto davanti alla tavola rustica, dove diverse mani andavano preparando le forchette, i piatti e i cucchiai d’ottone per la cena.
Arabella entrò con papà Paolino, e sedette presso al fratellino per farlo tacere. Il diavoletto, che aveva battuta la campagna tutto il giorno in caccia di uccelli e di rane, non aveva un filo pulito. Le scarpe scalcagnate, sporche di fango, lasciavano uscir i diti dei piedi, mostrando delle calze color di fango; e il fango saliva al naso, agli orecchi, dappertutto, dando a quel caro monello l’aspetto d’un pezzente pescato in una gora. Ove mancavano i bottoni, s’era aiutato da sè con lacci di corda e con spini di robinia.
Arabella, che aveva il cuore aperto, si sentì a un tratto molto colpevole di quel disordine, di quell’abbandono. Naldo era suo fratello giusto, il ritratto in piccolo del suo povero papà, gli stessi occhi neri, la stessa carnagione bianca e delicata. Se cresceva un monello e se portava intorno i segni della pezzenteria, la colpa non era soltanto della povera mamma, stanca, abbattuta sotto il peso di tante cose e di tante disgrazie, ma ancora un poco di una certa monachella che colla scusa di contemplare gli eterni misteri del paradiso, non si curava dei bottoni e delle calze della sua gente.
Domani, come una fata benefica delle leggende, essa avrebbe potuto con una parola trasformare quella rovina in una casa ordinata, ricondurre la pace, la speranza, la volontà nel lavoro e nel bene; prendere essa l’autorità, l’iniziativa, il comando, che viene dalla