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Parte prima - 11 Parte prima - 13


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XII.


Il tiranno


Un giorno, poco prima dell’ora del pranzo, il signor Tognino, entrando lentamente e cautamente nella camera della malata, la trovò addormentata, più seduta che stesa sul letto, avvolta in parte in uno scialle di lana, colla bella testa sprofondata nel candore del cuscino e delle guarnizioni, la bocca dischiusa a un lieve respiro, avviluppata dal candore niveo del letto, colle mani abbandonate sul libro delle preghiere.

Il suocero collocò delicatamente sul tavolino un fiaschetto di vecchio Xeres, che aveva acquistato apposta, si avvicinò pian piano al letto, posò leggermente la mano sulla fronte della malata, la sentì umida e fresca, e si ritrasse leggermente, mettendosi a sedere in un angolo oscuro, dietro la finestra, da dove poteva sorvegliarla senza essere veduto.

Partita la mamma, era lui l’infermiere e il padrone di casa. Per essere più pronto aveva portato da scrivere nella stanza vicina e vi rimaneva tutte le ore che poteva rubare agli affari. Su Lorenzo non c’era da fare un gran conto; si vedevan di rado; si sarebbe detto che i due uomini da qualche tempo si sfuggissero.

[p. 152 modifica]Qualche cosa di forte e di duro come un grosso martello da fabbro era caduto sul cuore del vecchio affarista, che non batteva più col battito lento e sommesso d’un cuore in regola col tempo, ma aveva degli scatti, delle corse affannose e precipitose, delle strane immaginazioni, che riempivano la notte di fantasmi, quando voltandosi e rivoltandosi nel letto, il padrone cercava invano di riattaccare il sonno.

E non da ieri, ma da un pezzo, se cercava indietro, era cominciata questa sua palpitazione, che gli ultimi avvenimenti, la rabbia e lo spavento, non avevano fatto che incrudelire. L’uomo non era più l’uomo di prima fin dal giorno che s’era parlato di dar moglie a Lorenzo, e che, andando verso le Cascine, s’era incontrato per caso, o per destino, o per disgrazia - chi sa come si muove il mondo? - nella figliuola adottiva del signor Paolino. Era quella stessa figura elegante, bionda e delicata, che ora dormiva nel molle abbandono della stanchezza, che una donnaccia aveva osato toccare, che una masnada di pezzenti voleva trascinare nel fango, che lui però avrebbe difeso, ringhiando e mordendo, se ciò era necessario come un cagnaccio, di più, come un leone.

Se il nostro affarista fosse stato un filosofo, capace di frugare in mezzo ai ferravecchi della sua vecchia e ingombra coscienza, forse avrebbe trovato che in questo accanito furore di difesa era in giuoco anche un interesse nuovo e curioso, poco chiaro allo stesso interessato, ma che dava alle sue ragioni una forza nuova e premurosa.

Salvare Arabella voleva anche dire salvare quanto di meno disprezzabile era rimasto in lui e insieme quanto di veramente prezioso sentiva ancora di possedere [p. 153 modifica]nell’affezione e nell’opinione di questa sua figliuola. Il castigo non poteva essere che questo: il resto... che cosa gl’importava del resto? Ecco perchè sospirava l’ora e il momento di vederla fuori dal letto, completamente ristabilita, non solo per sottrarla alle congiure, alle pressioni, alle vessazioni di gente cattiva, ma per collocarla in qualche luogo lontano e sicuro, dove non potessero arrivare le voci dei volgari interessi, dove soffrisse meno con lei qualcheduno o qualche cosa che viveva di lei. Più che vederla e intenderla questa necessità, egli la sentiva con un sollevamento d’animo tutte le volte che poneva il piede nella stanza della malata, tutte le notti che si avvicinava sommessamente al suo letto e che procurava di consolarla, di rassicurarla, di fornirle delle spiegazioni.

Curvo, rannuvolato in una oscura commozione, in cui alla pietà mescolavasi un senso irritato d’odio e di vergogna, sollevava di tempo in tempo lo sguardo sulla persona dell’addormentata, che nella placida e lenta quiete pareva morta.

Era uno sguardo perplesso, che non osava più, come una volta, penetrare e guardar fisso in faccia alle cose, qualunque fossero, sicuro di sostenerle; ma ritraevasi dal letto colla mortificata e lenta tristezza, con cui l’occhio dell’analfabeta si toglie da uno scritto, che suscita in tutti gli altri una viva e potente commozione e non dice nulla a chi non sa leggere.

Forse era già troppo tardi per mettersi da capo a imparare a leggere quel che vi può essere di bello e di santo nel cuore d’una buona creatura. Forse non gli avevano mai insegnato a decifrare questo [p. 154 modifica]alfabeto: e se nella prima giovinezza aveva sentito a parlarne, troppo tempo, troppe cose eran cadute in mezzo. Peggio per lui! ma peggio ancora se Arabella avesse letto nel suo, di cuore!

Ogni suo sforzo, ogni sua ambizione doveva mirare a una cosa sola: impedire che Arabella diventasse il ludibrio di Milano. Qualche avvertimento in questo senso gliel’aveva dato anche il notaio Baltresca, che considerava la questione coll’occhio pratico del mestiere. Un processo è sempre uno scandalo, si sa dove si comincia, non dove si finisce. Preti, monache e avvocati vi potevano pescar dentro il loro interesse. E anche supposto che l’ortolana venisse condannata a qualche mese di prigione, chi poteva impedire, per esempio, che Arabella fosse chiamata in Tribunale a deporre in qualità di testimonio, in mezzo a quella marmaglia, tra uscieri, sbirri, scribi e farisei, per sentirsi ripetere sul viso infamie di ogni colore?... Se ciò fosse accaduto - e la sola idea gli mozzava il respiro - da qual parte sarebbe stato il reo? e da qual parte il giudice più terribile? Chi avrebbe impedito all’avvocato Baruffa di rifare a modo suo la storia del testamento, e alla stampa di aggiungere i soliti pizzi? E Arabella avrebbe dovuto assistere a una bega di questa sorta, bersaglio a Dio sa quali infamità? no, no.



Questi pensieri, solamente col passare, gli facevano corrugare la fronte e gli tiravano il capo all’ingiù. Temeva quasi che avessero a turbare e a funestare il riposo dell’addormentata.

[p. 155 modifica]La bega era grossa e bisognava uscirne al più presto, nel miglior modo possibile.

Di cosa in cosa si ricordò d’aver ricevuta una lettera nella quale il Botola gli parlava di avvocati, di processo, di Lorenzo.

Col Botola i Maccagno erano legati da un’amicizia che risaliva fino al quarantotto, fino ai tempi che il padre di Tognino, detto il Valsassina, cominciava a guadagnare i primi quattrini in una botteguccia di liquori fuori di porta. Venute le grosse brighe della rivoluzione, mentre gli «italianoni» facevano alle barricate, Botola e Valsassina introducevano in città molte brente di spirito di contrabbando, mettendo in questo modo la base alla fortuna.

Nell’agosto tornarono i castigamatti, ma la gente aveva tutt’altro per la testa che di verificare le bollette di dazio. Poi eran passate molte altre cose. Chi andò sulla forca, chi emigrò, chi tornò a portare il baldacchino. Annegò chi non seppe nuotare. E per poco non annegò anche il Botola, troppo corto d’ingegno e d’istruzione, per saper resistere ai tempi nuovi, bianchi, rossi e verdi. Fallito un paio di volte, il vecchio disgraziato vivacchiava meschinamente, facendo il pignoratario su piccoli prestiti.

Che cosa gli scriveva il vecchio amico? Cercando nelle tasche, trovò in mezzo a una mano di cartaccie un cencio con su disegnati certi scarabocchi grossi e sgangherati, che volevan dire parole, quantunque somigliassero più ai pali di una vigna battuta dalla tempesta, che non ai segni inventati da Cadmo. Il pignoratario riferiva d’aver parlato col Mornigani, il mezzo avvocato, e d’aver saputo che i parenti Ratta, Maccagno, Borrola, con altri diseredati, intendevano [p. 156 modifica]infirmare il testamento e intentare una causa, perchè fosse tenuto valido il testamento anteriore del ’78.

«Faccian pure la causa! — rispondeva mentalmente colla solita asprezza il signor Tognino, come se qualcuno fosse lì a sentirlo. — In quanto ai signori Borrola, che vantano delle pretensioni, son curioso di sapere su che cosa appoggiano le loro speranze. È tutta rabbia, è tutto veleno, perchè ho scoperto il loro giochetto e ho strappato Lorenzo ai loro intrighi. Faccian pure, ma non si lascin trovare da me in un momento cattivo.»

Arabella mormorò qualche parolina dolente e mosse leggermente la mano sul libro aperto abbandonato sul letto.

Il vecchio si scosse da’ suoi pensieri, come se quelle voci rispondessero in qualche modo a ragionamenti che egli faceva dentro di sè e sentì che, se gli bastava il cuore di sfidare mezzo mondo, pure di fronte a sua nuora avrebbe avuto tutte le paure. E come se istintivamente si mettesse sulle difese, socchiuse un poco una imposta e si tirò meglio nell’angolo oscuro.

La stanza s’immerse ancor di più nella penombra, il fascio di luce che entrava dalla finestra socchiusa andava a stento fino a rischiarare il guanciale e una parte del letto, dove Arabella, di sogno in sogno, di imagine in imagine, percorreva la storia della sua vita.

Nei sogni le impressioni tornano spesso sfigurate, sconnesse, più grandi o più piccole della verità; ma non perdono mai il significato che le fa nascere. Avviene non di rado che nell’ingrandimento grottesco ed esagerato o nella riduzione che sopportano, si [p. 157 modifica]manifesti a chi sogna, analizzato o riassunto, il significato che inutilmente aveva cercato ad occhi aperti. Il senso è più libero a percepire ciò che la ragione o non osa o non sa, o non vuole intendere: e dai sogni qualche volta s’intende la vita come dal commento il poema.

Arabella, ritornando sulle sue memorie, ritornava a soffrire e a godere più vivamente d’impressioni non bene afferrate la prima volta, come se in sogno germogliassero i piccoli semi caduti nei luoghi più oscuri dello spirito.

Di cosa in cosa le parve di tornare ai primi giorni del suo matrimonio e precisamente al suo primo entrare nella casa nuova. Suo suocero aveva fatto degli inviti. La casa era come quella sera piena di gente nuova e sconosciuta che la salutavano, si congratulavano, la soffocavano di parole e di baci non chiesti e non desiderati. Una specie di nausea dallo stomaco saliva al capo, effetto forse d’un forte vin brulé, che alcuni servitori in guanti bianchi portavano intorno sui vassoi.

Parevale che tutta quella gente fosse lì per saziarsi in qualche maniera di lei, coi baci, cogli occhi, coi commenti, come fanno i bimbi, che trovato un pezzo di zucchero in un cantuccio, se lo succiano un po’ per uno.

La zia Sidonia, in un vestito di raso rosso color brace, scollata in una foggia indecente, se la stringeva sul seno morbido e caldo, chiamandola il suo bell’angiolino, mentre lo zio Mauro, seduto al pianoforte, tempestava sopra una canzonetta veneziana di sua invenzione, che faceva ridere tutte le bocche. Sì, ridevano tutte quelle faccie sconosciute di parenti, [p. 158 modifica]di mezzi parenti, di agenti di cambio, di amici di suo marito, di cui sentiva ripetere i nomi senza afferrarli in mezzo al frastuono. Solamente papà Paolino colla schiena appoggiata allo stipite dell’uscio guardava in su per non farsi vedere a piangere. C’era la mamma, la più bella donna in mezzo a molte signore brutte, magre, dal tipo volgare, che ripetevano il colore terreo e le mandibole pronunciate della famiglia, che seguitavano a guardarla come se dicessero in cuor loro:

— Povera diavola, dove sei capitata!

E stava in mezzo alla folla coll’animo addolorato, quando vide entrare con un passo lesto senza suono, in abito nero anche lui, rigido e smorto come tutti i morti che camminano, il suo povero papà.

Come fosse vivo, come venisse alla festa, che cosa le dicesse sottovoce non riusciva a capire. La rimproverava d’essere venuta meno al suo voto? era malcontento anche lui di vederla in questa casa? L’immagine dell’infelice rimasta impressa negli anni in cui la memoria è più viva, mantenuta viva e presente per tutti gli anni successivi da un generoso desiderio di riparazione morale, era troppo famigliare ai pensieri della figliuola perchè essa si sgomentasse di rivederla in mezzo a gente viva; anzi se lo strinse sul cuore, forte, teneramente, e cominciò a parlargli con calore per dimostrargli che tutto era proceduto secondo la volontà di Dio, che l’aveva fatto per amore e per compassione della sua mamma; e nell’abbracciarlo sentiva una così profonda compassione, che cominciò a singhiozzare davvero...

Il vecchio Maccagno, a sentire la malata singhiozzare, uscì dal buio e dalla tempesta de’ suoi pensieri, si accostò al letto.

[p. 159 modifica]Arabella, agitata da un piccolo fremito, corrugava la fronte collo sforzo di chi mira a liberarsi da una dolorosa oppressione. Egli allora, quasi per liberarla dall’incubo, le prese dolcemente la mano e se la tirò a sè, dolcemente, chinandosi sopra di lei per dimandarle che cosa si sentisse: e in quella Arabella aprì gli occhi pieni di lagrime, li fissò, come chi stenta a orientarsi, in faccia al suo premuroso infermiere.

Lo sforzo che essa fece di sorridere al di sotto del velo di lagrime che le copriva gli occhi e l’abbandono inerte della sua persona non abbastanza ridesta suscitarono nel vecchio uomo una violenza di affetti, di tenerezza, di sgomento e di selvaggi rancori, una tremenda paura di sè, una così oscura oppressione, che per un istante non vide innanzi a sè che un gran bianco, un gran bianco...

— Perchè piangi?

— Non so, un brutto sogno.

— Non si sente mica più male?

— Non mi pare.

— Devo aprire le imposte?

— Sì: ho dormito un pezzo?

— Forse un’ora.

— Lorenzo, dov’è?

— È stato qui: ha visto che dormiva...

— Povero papà! — uscì a dire Arabella, non ancora ben uscita dalla sua dolorosa visione, continuando, per un meccanismo nervoso, il discorso accalorato, che stava facendo in sogno al suo papà morto.

Il suocero attribuì a sè la tenera espressione di un nome così affettuoso, che egli non aveva mai osato chiedere per sè e che sua nuora non era mai stata [p. 160 modifica]animata a concedere. Colto in un momento di debolezza, s’intenerì ancor di più, e mettendosi con moti frequenti a carezzare i capelli della malata, si abbandonò anche lui, per la prima volta, a darle del tu:

— Guarisci, guarisci presto, e andremo in campagna. Vedrai che bel sito! Non sei mai stata in Tremezzina? In primavera è il paese delle rose. Rose dappertutto... Anch’io ho bisogno d’andar fuori dei piedi della gente, sono un poco stracco e malato anch’io e non vedo l’ora di collocarmi in campagna a coltivare le rape e le verze...

E cercò di ridere per combattere la molle malinconia che l’assaliva da tutte le parti. Questa malinconia montava come un’acqua che scaturisce improvvisamente da una vena sconosciuta al rompersi di una roccia. Da dove derivano queste acque fredde e limpide che il passeggero incontra sulla sua strada polverosa in mezzo a un paese brullo, riarso dal sole? La natura ha i suoi misteriosi serbatoi, che mandano rigagnoli ai più lontani strati e non di rado spiccia l’acqua pura anche al disotto del fango. Sentendo che insieme all’onda refrigerante saliva qualche cosa di amaro, messo in paura o in sospetto d’una mestizia che lo conduceva a cantare delle arie di gioventù col falsetto del vecchio, spaventato all’idea che egli potesse dire una sciocchezza od una meschinità, accomodò con una certa furia distratta le pieghe del letto e soggiunse, mutando tono:

— Ho trovato un vin vecchio sincero che le farà bene: lei ne deve bere un bicchierino. Il dottore raccomanda il vin vecchio. Lo assaggi. Questo è sangue.

[p. 161 modifica]Versò il vino nel calice e si accostò di nuovo, tenendo il bicchiere colle due mani, per resistere a un tremito convulso, che faceva vibrare tutto il corpo.

Arabella si sollevò un poco, colla sinistra mandò indietro i capelli folti che scendevano scomposti, e coll’altra mano aggradì il calice, in cui brillava un vino secco color dell’ambra.

— Beva, questo è sangue... — ripetè il suocero con un tono monotono d’uomo distratto, socchiudendo gli occhi.