Arabella/Parte prima/13
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XIII.
Prime scaramucce
Quando uscì dalla stanza provò il senso di chi cammina al buio per anditi sconosciuti. Egli doveva fare qualche cosa per mettere Arabella al sicuro; era pronto anche a perdonare a’ suoi nemici, se il perdonare poteva condurre più presto a una pacificazione: la primavera non era lontana e il dottore prometteva che per la fine di febbraio la malata avrebbe potuto senza pericolo intraprendere un viaggio. Como non è in capo al mondo, e una volta sul lago, non si sente più di viaggiare.
Occorreva ch’egli facesse una corsa a questa villa, di cui da un poco gli parlava il Botola, posta in una bellissima posizione, in pieno mezzodì, già ammobigliata, con un giardino ombroso fino al lago; e avrebbe potuto andarci, quando Arabella cominciasse ad uscir dal letto. Egli non voleva trovare una casa in disordine, esposta al vento, a rischio di esporre sua nuora, già indebolita, a un colpo d’aria.
Scendeva le scale senza veder i gradini, ravvolto come in una nuvola in questi pensieri, quando arrivato sull’ultimo pianerottolo, s’incontrò faccia a faccia in Sidonia, l’amatissima sorella cantante, che vestita come una Maria Stuarda, andava su.
— Si può vedere Arabella? — domandò la buona zietta.
— Nossignora! — rispose il fratello, sentendo ribollire il sangue.
— Non è mica più aggravata...
— Niente affatto, ma non riceve nessuno.
— Neanche i parenti?
— Non conosco per parente chi fa lega coi miei nemici — scattò a dire il fratello, che nella guerra era sempre in timore di lasciarsi prendere la mano.
Sidonia arrossì un poco sotto la cipria e il belletto; ma non abituata a far scene fuori delle scene, recitò con tono pacato:
— Credevo di far onore a tua nuora: anch’io non conosco per fratello chi mi manca di rispetto.
— Ah! voi volete il rispetto... — cominciava a strillare l’ometto sanguigno, agitando le sue mani magre sotto il viso di Sidonia.
— Ti prego — disse costei, arrestandosi con una solenne occhiata di Norma, sacerdotessa dei Druidi. — Io non sono abituata ai pettegolezzi di Baltresca, e non mi lascio insultare dai vagabondi. Se hai delle ragioni, c’è mio marito e sai dove sto di casa.
— Ciò che voglio è che non mi si venga tra i piedi.
— Oh, s’immagini!
— Non voglio spie in casa...
— I ladri vedono spie dappertutto...
Con questi complimenti pronunciati in modo da non dar scandalo, coll’intonazione quasi sorridente che usano gli amanti in collera, arrivati alla porta, i due fratelli si fecero un bell’inchino e si divisero, andando ciascuno per la sua strada, carichi tutti e due di rabbia compressa, pronti a saltar in aria come due barili di polvere alla minima scintilla. Giunta a casa, Sidonia, trovato il marito, gli dimostrò tutta l’enormità dell’oltraggio ricevuto. Colei che l’imperatrice Eugenia aveva ricevuta alle Tuileries come una sorella, che papà Rossini soleva chiamare sa chère petite Malibran, era stata messa alla porta come una pezzente da un indegno fratello.
Mauro Borrola gonfiò le ganasce, ingrossò gli occhi, bestemmiò mezz’ora in padovan, girando per la casa in pantofole e in veste da camera: avrebbe voluto uscir subito a chiedere una soddisfazione d’onore a suo cognato o a Lorenzo; ma il nuovo Rosetter inglese ha questo difetto, che alle prime pennellate dà alla barba uno spiccato color violetto e la ricetta consiglia qualche giorno di chez soi, finchè i bulbi non gli abbiano assorbito per capillarità il liquido ristoratore. Pensò di rimandare la cosa a un altro momento e di rifarsi in qualche altra maniera. La sua prima visita fu per l’avvocato Baruffa. Gli elementi della causa erano raccolti. Presto si sarebbe tenuta un’adunanza di tutti gl’interessati per procedere d’accordo contro il signor Tognino.
Come avvisaglia di guerra, qualche giorno dopo, la Augusta consegnava in gran segretezza alla sua padrona la seguente lettera:
- «Illustrissima Signora,
«Le molte pie persone che mi parlano bene del suo cuore e della sua pietà mi fanno animo a rivolgermi a Lei, illustrissima signora, per una questione in cui son persuaso Ella vorrà prendere la parte dei deboli e dei sacrificati. Per quanto sia difficile giudicare sulle apparenze intorno alle umane cose, pure voglio ritenere che il signor Tognino suo suocero sia veramente nel suo pieno diritto quando trattiene tutta per sè un’eredità di quattrocentomila lire, che ogni segno faceva sperare sarebbe andata ripartita non solo in pie istituzioni di carità, ma a sollievo eziandio di molti e bisognosi parenti che ne avevano ugual diritto.
Ma il sommo diritto bene spesso si riduce a ingiuria, a ingiustizia, e ciò accade tutte le volte che al bene di un solo si sacrificano i bisogni di cento e cento poverelli sofferenti, tutte le volte che si suscitano ire, odii, male passioni, querele che amareggiano la stessa ricchezza, turbano le coscienze, e caricano la responsabilità nostra di gravissimi conti.
Allo scrivere queste parole mi muove la persuasione che nulla è noto ancora alla S.V. Illustrissima di tutto ciò che si dice intorno alla eredità Ratta; ma poichè mi risulta da varie parti che nelle querele e nelle amare recriminazioni dei diseredati è ripetuto spesso anche il suo nome come quello di una complice dell’ingiustizia, a nome di antiche sue maestre venerabilissime, vengo, sebbene a malincuore, a interessarla in una questione, in cui la sua non può essere che una parola di giustizia e di carità.
Io non so vedere quel che Ella potrà fare e dire a vantaggio dei poveri: ma già fin d’ora mi lusingo di trovare in Lei una di quelle anime zelanti del bene, che non si acquietano nel dubbio e nell’incertezza. Parlando col suo signor marito e col suo signor suocero, Ella potrà mettersi in grado di ben giudicare se convenga per un eccessivo zelo del proprio diritto affrontare le conseguenze dell’odio e della vendetta, turbare le coscienze dei buoni cristiani, crearsi un fasto che riposa sui dolori altrui. Io non posso giudicare quanto vi sia di vero nelle voci che corrono, le quali accuserebbero il signor Maccagno di aver carpito quasi colla violenza un testamento che avrebbe dovuto sonare ben diverso. Solo l’occhio di Dio può scendere nell’oscurità e illuminarla. Ma posso quasi esser certo che la buona e pia allieva delle madri canossiane non vorrebbe accettare un soldo che non fosse consacrato dalle ragioni della giustizia e che nella contingenza in cui si trova, vorrà prestare l’opera e l’autorità della sua posizione di consorte e di figlia per avviare delle trattative, le quali conducano a una più giusta soluzione e ripartizione dei beni.
Posso fin d’ora comunicarle che a quest’atto di conciliazione è vivamente interessato anche S. Eminenza l’arcivescovo di Milano, quale supremo tutore di tutte le pie Case che da una siffatta eredità credono d’essere state, non che danneggiate, ingiustamente lese nei loro diritti: e l’autorità di un tal nome dev’essere per l’animo suo pio e cristiano arra di giustizia e quasi uno stimolo di più a zelare l’opera della giustizia e della conciliazione, dalla quale essa non può ritrarre che benedizioni e frutti di santa edificazione.
Tosto che la sua preziosa salute glielo permette, io riceverò di buon grado una risposta a questa mia e meglio ancora gradirò una sua visita al mio domicilio, ove potrò fornirgli quegli altri schiarimenti che sarebbe troppo lungo esprimere per lettera. Intanto le raccomando la massima discrezione su questa mia ingerenza in una questione che non mi tocca, se non in quanto mi toccano tutte le questioni in cui è in giuoco il bene dei poveri e quello delle anime.
Col più profondo rispetto mi sottoscrivo
pr. Felice Vittuone, pr. parr.»