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Arabella, agitata da un piccolo fremito, corrugava la fronte collo sforzo di chi mira a liberarsi da una dolorosa oppressione. Egli allora, quasi per liberarla dall’incubo, le prese dolcemente la mano e se la tirò a sè, dolcemente, chinandosi sopra di lei per dimandarle che cosa si sentisse: e in quella Arabella aprì gli occhi pieni di lagrime, li fissò, come chi stenta a orientarsi, in faccia al suo premuroso infermiere.
Lo sforzo che essa fece di sorridere al di sotto del velo di lagrime che le copriva gli occhi e l’abbandono inerte della sua persona non abbastanza ridesta suscitarono nel vecchio uomo una violenza di affetti, di tenerezza, di sgomento e di selvaggi rancori, una tremenda paura di sè, una così oscura oppressione, che per un istante non vide innanzi a sè che un gran bianco, un gran bianco...
— Perchè piangi?
— Non so, un brutto sogno.
— Non si sente mica più male?
— Non mi pare.
— Devo aprire le imposte?
— Sì: ho dormito un pezzo?
— Forse un’ora.
— Lorenzo, dov’è?
— È stato qui: ha visto che dormiva...
— Povero papà! — uscì a dire Arabella, non ancora ben uscita dalla sua dolorosa visione, continuando, per un meccanismo nervoso, il discorso accalorato, che stava facendo in sogno al suo papà morto.
Il suocero attribuì a sè la tenera espressione di un nome così affettuoso, che egli non aveva mai osato chiedere per sè e che sua nuora non era mai stata