tiche! Dov’è la lingua che non possa dirsi morta o morente? Ogni, non solo scrivente, ma parlante, tende a usare le parole del fondo comune in un modo suo proprio: una metafora è, per la sua parte, già la trasformazione d’una lingua. Comincia per uno e per pochi, poi per molti, infine per tutti, il trapasso ideologico per il quale una parola muore per Un senso e nasce per un altro. Non parlo de’ cambiamenti fonetici: noi non li avvertiamo, ma succedono con andare progressivo e continuo. Dove è il presente d’una lingua? Πάντα ῥεῖ. Come si potrebbe fissare l’espressione del pensiero, specialmente nei bisogni intellettuali, per la durata almeno di una generazione, se pur nell’andare avanti non ci volgessimo tratto tratto indietro? Letterature antiche! Antiche e pur sempre moderne e recenti; sempre una letteratura, anzi, sempre quella. Noi seguiamo il serpeggiare di novelline, di canti, di pensieri, d’imagini attraverso molti popoli e luoghi e tempi, finchè le smarriamo nella lucentezza uniforme del crepuscolo umano. Qual letteratura è antica, se il pensiero antico vive, con modi appena mutati, nella nuova; o, a dir meglio, qual letteratura non è antica, se quella che si dice nuova, agita a mano a mano ancora l’antica vita? Arrestare a un tratto il fiume tranquillo dei secoli, scindere il passato dall’avvenire, dire «secol si rinnova» a che porterebbe se fosse possibile? Si avrebbero presto lingue morte e letterature antiche cui le anime più umane vorrebbero conoscere e a cui vorrebbero iniziare i loro figli prediletti. E non si fermerebbero lì: attraverserebbero quella lingua e quella letteratura passata, a cercare quelle che passarono quando