Andrea Conti Matematico ed Astronomo/Biografia
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Nel discorrer la vita e le opere de’ valentuomini, due fini sommamente utili possono raggiugnersi: l’uno di onorarne la memoria, l’altro d’animar que’ che rimangono a seguitarne la virtù ed il sapere. Argomento opportuno a ciò ne porge quell’illustre Andrea Conti testè rapito alle scienze. Ed in vero all’eminente suo merito ben si conviene un tributo d’ammirazione e di lode: e la sposizione di una vita passata tutta ne’ buoni studi, e in far fiorire le matematiche, e massimamente l’astronomia, potrà esser forse all’animo de’ giovani di alcuno stimolo per coltivare gloriosamente sì nobili e sì utili discipline. Abbiamo quindi cagione a sperare che queste notizie di lui e de’ suoi scritti non torneranno discare a’ nostri lettori.
Andrea Conti nacque nel 1777 in Riofreddo, piccola terra della diocesi di Tivoli. Inviato a Roma fino da’ primi suoi anni, fu affidato alle cure di un prete suo zio, il quale veggendo oltremodo vago di dottrina l’animo del giovanetto, non mancò d’avviarlo alle scuole del collegio romano, affinchè ivi desse opera ai consueti studi di grammatica e di belle lettere. Iniziato quindi alle matematiche, mostrò un amor caldissimo a queste scienze: e l’abate Calandrelli, che lo ebbe fra i suoi disciepoli, conobbe meglio d’ogni altro quanto a tal maniera di occupazioni potesse riuscire atta la mente del Conti. Perciò pose in lui un affetto singolare: e sovente lo aveva seco, piacendosi d’introdurlo nelle più sottili ricerche dell’analisi; talchè in pochi anni il Conti non pur lasciò dietro a se di lungo intervallo i suoi coetanei, ma fu innanzi altresì a molti che aveano consumato lunghissima età in siffatti studi. E però quando nel liceo gregoriano vacò la cattedra di fisico-matematica, i superiori di quello non videro persona di lui più acconcia al grave incarico. Egli lo tenne per ben quarant’anni: e con sì profonda dottrina, e con sì piacevoli modi, che lasciava ne’ giovani allievi il più vivo desiderio di se, allorchè si dipartivano dalla sua scuola. Infatti ebbe il Conti nell’insegnare quell’arte ammirabile che sovente si desidera in uomini di gran fama e di vasto sapere: e per essa si cattivò la stima e l’affetto de’ suoi discepoli, molti de’ quali or vivono chiarissimi in questa città ed altrove.
Ma ad altro ufficio, non meno importante che si fosse quello di professore, venne poscia chiamato il Conti, quando l’ab. Calandrelli desiderò nella nuova specola averlo a compagno delle sue fatiche. Cominciò allora tra il Conti ed il Calandrelli quell’amicizia, che fiorì poi tra loro per ben quarant’anni, e per cui il Conti non dubitò di ricusare uffici ed onori ben più lusinghieri, siccome quello di presidente all’osservatorio di Bologna, e l’altro di educatore d’un giovane principe ereditario del trono in una delle principali corti d’Europa. Se non che ebbe egli a tanto affetto la ricompensa da lui bramata, quella cioè di esser corrisposto dall’amico con soavissima benevolenza. Laonde in questi due uomini chiarissimi trovossi assai ben avverato l’ammirabil detto di Tullio, che nell’animo deesi veder quasi l’immagine di se medesimo.
In sì felice unione poterono essi in pochi anni condurre a termine i più ardui lavori d’astronomia. Appena infatti l’osservatorio potè avere le principali macchine, il Conti ivi diessi a stabilire gli elementi necessari alle operazioni da eseguirsi. E conoscendo come principal cura di un astronomo dev’esser quella di determinare esattamente la latitudine del suo osservatorio, con un circolo moltiplicatore costruito in Parigi dal Bellet intese il Conti a quest’importante lavoro, servendosi delle stelle circumpolari α e δ dell’orsa minora. L’Oriani, che allora dimorava in Roma e che fu sempre legato di dolcissima amicizia col nostro astronomo, si occupò anch’egli di questo elemento, osservando nella medesima specola la polare ed il B dell’orsa minora ad un celebre circolo ripetitore di dodici pollici di diametro. Potè quindi il Conti paragonare il risultamento delle proprie osservazioni tanto con quello ottenuto dall’Oriani, quanto colla ultima cifra trovata dal Calandrelli in molte osservazioni fatte ad un settore zenitale del Boscovich: e così la latitudine dell’osservatorio venne fissata di 41.°53,’54,"32. Sicchè prese il Conti a dedurne una tavola, mediante la quale potesse ottenersi l’altezza e longitudine del nonagesimo: stimando co’ più illustri astronomi cosa essenzialissima, chi voglia aver più agevoli agevoli ed esatti risultamenti, l’aggiungere alle tavole generali calcolate dal Leveque e da molti altri quelle del luogo dell’osservatore. E veramente il lavoro del Conti, mandato a stampa nel 1806, nulla lascia a desiderare per chiarezza e per precisione.
Ma già ad impresa più vasta egli ed i suoi compagni davano opera: e questa era la costruzione delle tavole di parallassi d’altezza e di longitudine: lavoro utilissimo, di cui gli stranieri calcolatori ben debbono a’ nostri saper grado per aver essi tanto agevolato una via e lunga e difficile. Nel fine delle tavole aggiunse il Conti il loro uso, qualora si calcolino le occultazioni delle fisse secondo il Metodo suggerito dal Carlini nelle effemeridi di Milano. Di questo metodo in una memoria pubblicata due anni dopo espose molti importanti applicazioni: mostrando come le occultazioni delle fisse dietro la luna fornissero un mezzo semplice ed esatto di calcolare le eclissi solari, quando non si conoscono le posizioni del lembo del sole nell’immersione e nell’emersione.
Appena questo scritto fu condotto a termine, egli dal nuovo strumento de’ passaggi ebbe materia di altro lavoro. Allontanate le due cagioni di errore, che con mezzi meccanici voglion correggersi nell’uso di quest’istromento, intese il Conti a costruire alcune tavole per determinarne la deviazione dal piano del meridiano: e mentre negli osservatorii sogliono collocarsi due mire, che si fanno corrispondere al filo di mezzo del micrometro, e da cui coll’aiuto del telescopio si deducono le deviazioni dell’istromento1, al Conti piacque piuttosto di determinare col calcolo per ciascuna derivazione la correzione opportuna. Fermati così tutti gli elementi necessari a ben condurre le astronomiche operazioni, il Conti, se più lungamente avesse avuto la direzione della specola, immaginava di costruire una tavola di rifrazione media, per la quale i nostri osservatori più non fossero costretti di ricorrere a quella costruita dal Carlini per clima di Milano. Essa avrebbe servito altresì a render ragione d’alcune anomalie notate dai suoi colleghi in molte osservazioni, le quali essendo fatte co’ medesimi stromenti e dai medesimi osservatori, facevano sospettare dell’esistenza di qualche causa alteratrice, di cui non si fosse ancora tenuto conto2.
Nè queste, di cui finora abbiamo parlato, furono le sole fatiche del nostro astronomo. Egli calcolò con somma esattezza le eclissi solari del 1804, 1811, 1816; le opposizioni di Giove e di Urano nel 1809: stabilì co’ metodi dell’Oriani e del Legendre gli elementi delle comete apparse nel 1807 e nel 1811; e dopo aver determinato le correzioni da usare nelle tavole d’Urano, costruite nel 1781 dall’Oriani pei cento gradi che il pianeta aveva percorso della sua orbita da quell’anno fino al 1806, per mezzo di altre osservazioni sulle opposizioni di questo pianeta costruì le nuove tavole pel meridiano di Roma. Volle anche mostrar l’uso di un piccolo teodolite moltiplicatore di Reinchbach nelle geodetiche operazioni: e avvenne allora che si pensasse all’esecuzione di quell’utilissimo divisamento immaginato fino dal 1802: che fu di stendere una rete di triangoli sui principali edifizi di Roma e dei dintorni, per determinarne colla maggior esattezza possibile la geografica posizione. L’illustre Linotte, ispettore de’ lavori idraulici nello stato pontificio, misurò la base, cioè il lato del primo triangolo: e le tre principali stazioni furono l’osservatorio, il casino dell’Aurora nella villa Ludovisi e la croce collocata sulla cupola di S. Pietro. Il Conti espose i risultamenti, a cui egli ed i suoi colleghi erano pervenuti, in un opuscolo pubblicato nel 1824 col titolo di Posizione geografica de’ principali luoghi di Roma e de’ suoi contorni.
Merita finalmente tra gli scritti del nostro astronomo peculiar menzione quella dotta memoria, inserita nel tomo XX degli atti della società italiana, in cui prende validamente a difendere una osservazione del celebre padre Audifredi domenicano sul passaggio di Venere, che il Pingrè aveva esaminato con poca giustezza, consigliando all’autore di sopprimerla totalmente3. Il Conti provò con molta dottrina che quel lavoro, in luogo di manifestare gli essenziali difetti che l’astronomo francese pretendea di avervi scoperto, meritava piuttosto l’attenzione e la stima di tutti gli scienziati.
Venuta nel 1824 l’università gregoriana e con essa la specola astronomica, per ordine del sommo pontefice Leone XII, in potere de’ padri gesuiti, il Conti passò gli ultimi anni di sua vita in onorevol riposo. Nè perciò si rimase di cooperare al progresso delle scienze, massimamente coll’intendere all’educazione di que’ giovani che vedeva bramosi di coltivarle: non pure a ciò confortandoli con opportune lodi e con parole amorevoli, ma aiutandoli eziandio con utili ammaestramenti. Nulla quindi a’ buoni studi poteva tornar più utile, che l’essere stato promosso l’uomo chiarissimo alla presidenza di quella veneranda riunione di dotti che ha nome di collegio filosofico, ed a cui tra molti importanti incarichi quello pur s’appartiene di esaminare i giovani destinati a ricevere i gradi nella romana università. In sì onorevole ufficio, che tenne per circa dieci anni, egli usò una integrità e diligenza maravigliosa: e seppe co’ suoi be’ modi rendersi caro a que’ medesimi, le cui brame non poteva far paghe senza venir meno a’ propri doveri.
Erano già tre anni che il Conti aveva lasciato la specola, quando perdette il suo dolcissimo amico, l’ab. Giuseppe Calandrelli. Nè qui credo dover andare in molte parole narrando il dolore acerbissimo che questa perdita dovè recare al cuore di lui: perocchè a giudicarne basterà quanto si è detto intorno all’unione strettissima, nella quale vissero questi due illustri uomini. Rammenterò solamente come l’affetto, che il Conti ebbe tenerissimo al suo collega, non fu già spento dalla morte: ma in lui anzi durò sì vivo, che da indi il più soave suo ricreamento fu quello di narrare le belle azioni dell’amico, ripeterne i detti, lodarne la virtù e la dottrina. Nè il Calandrelli potea lasciargli più piacevole incarico, quando lo elesse depositario di tutti i suoi scritti. Imperocchè non è a dire qual diletto prendesse il Conti nel riveder le fatiche di quell’uomo dottissimo, molte eziandio illustrandone colle proprie meditazioni. Così fu di quel problema meccanico che il sommo geometra Riccati aveva proposto al Pessuti ed al Calandrelli. Consisteva esso nel determinare in un circolo, il cui piano è normale all’orizzonte, un arco, la cui corda possa percorrersi nello stesso tempo che due corde uguali sottendenti ciascuna la metà di quest’arco. Egli, partendo da nuovi principii, pervenne a stabilire alcune formole più semplici, applicabili altresì al caso di un numero qualunque di corde: del che niuno prima di lui aveva trattato.
Non molti anni il Conti sopravvisse all’amico. Nella state del 1839 fu minacciato da un idrope di petto; e ben presto i sintomi tanto si raggravarono, che tolsero ogni speranza della sua vita. Conservò serena la mente e placido il volto fino agli estremi suoi giorni: e tra le braccia di molti amici e discepoli, che ad assisterlo e sollevarlo eran solleciti, la mattina del 12 di febbraio 1840 rendè l’anima al suo creatore. Il suo passaggio fu quello dell’uomo giusto: così i conforti della religione e la rimembranza d’una vita incolpabile vengon sempre dolcissime a temperare le angosce di morte! Molti furono che piansero la sua perdita, perchè a molti fu utile, molesto a nessuno. Il suo vivere fu quello del vero saggio: ed i suoi modi, leali a semplici, sommamente piacevano a quanti avevano occasione di star con lui. Invidia ed ambizione mai non turbaron la pace del suo animo: ed in altro non trovò maggior diletto che in beneficare altrui. Manifesta prova volle anche morendo lasciar di ciò, chiamando il più povero tra’ suoi nipoti ad ereditare que’ pochi beni che le sue fatiche ed il temperato vivere gli aveano procurato. Altre somme poi ed altri oggetti da lui posseduti legò alle persone che lo avevano assistito, ed agli amici, de’ quali niuno fu a cui non rimanesse di lui qualche cara memoria. Giace il suo corpo nel cimiterio al campo verano, ove vedesi decorato di modesto monumento colla seguente iscrizione:
HEIC. IN. PACE. COMPOSITVS. EST
ANDREAS. CONTI. CIVIS. ROM.
VIR. AETATIS. SVAE
VIRTVTE. ET. DOCTRINA. PRINCEPS
PRAESES. COLLEG. PHILOSOPHORVM. VRBIS
ADLECTVS. IN. COETVM. ITALICVM. XL. VIR
DISCIPLINIS. ET. ARTIBVS. CONFORMANDIS
QVI. IN. LICEO. ROM. DOCTOR. PHYSICES
INGENIO. ET. SCRIPTIS. CLARVIT
IOSEPHO. CALANDRELLI
AVCTORI. ASTRONOMIAE. IN. VRBE. COLENDAE
STVDIORVM. SOCIETATE. PAR. FAMA. PROXIMVS
DEC. PRID. ID. FEBR. A. MDCCCXL. A. N. LXXIII
KAROLVS. RICCHEBACH. HAER. FID. T. P. EX. ASSE