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cazione di que’ giovani che vedeva bramosi di coltivarle: non pure a ciò confortandoli con opportune lodi e con parole amorevoli, ma aiutandoli eziandio con utili ammaestramenti. Nulla quindi a’ buoni studi poteva tornar più utile, che l’essere stato promosso l’uomo chiarissimo alla presidenza di quella veneranda riunione di dotti che ha nome di collegio filosofico, ed a cui tra molti importanti incarichi quello pur s’appartiene di esaminare i giovani destinati a ricevere i gradi nella romana università. In sì onorevole ufficio, che tenne per circa dieci anni, egli usò una integrità e diligenza maravigliosa: e seppe co’ suoi be’ modi rendersi caro a que’ medesimi, le cui brame non poteva far paghe senza venir meno a’ propri doveri.
Erano già tre anni che il Conti aveva lasciato la specola, quando perdette il suo dolcissimo amico, l’ab. Giuseppe Calandrelli. Nè qui credo dover andare in molte parole narrando il dolore acerbissimo che questa perdita dovè recare al cuore di lui: perocchè a giudicarne basterà quanto si è detto intorno all’unione strettissima, nella quale vissero questi due illustri uomini. Rammenterò solamente come l’affetto, che il Conti ebbe tenerissimo al suo collega, non fu già spento dalla morte: ma in lui anzi durò sì vivo, che da indi il più soave suo ricreamento fu quello di narrare le belle azioni dell’amico, ripeterne i detti, lodarne la virtù e la dottrina. Nè il Calandrelli potea lasciargli più piacevole incarico, quando lo elesse depositario di tutti i suoi scritti. Imperocchè non è a dire qual diletto prendesse il Conti nel riveder le fatiche di quell’uomo dottissimo, molte eziandio illustrandone colle proprie meditazioni. Così fu di quel problema meccanico che il sommo geometra Riccati aveva proposto al