Alceste Prima (Alfieri, 1947)/Atto primo

Atto primo

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Euripide - Alceste Prima (438 a.C.)
Traduzione dal greco di Vittorio Alfieri (1797)
Atto primo
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ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

Apollo.

                    1 Pur ti riveggo, o reggia alma di Adméto,

giá mio ricovro un dí; quand’io soggiacqui
a servil vita, abbenché Dio: ma tale
di Giove allora era il volere. Ucciso
col suo fulmin tremendo egli mi avea
il mio figlio Esculapio: irato io quindi
poscia uccideva i rei Ciclópi, fabri
del folgore celeste: onde me in pena
ad esser servo a mortal uomo astrinse
l’alto mio padre. In questa terra io spinto,
gli armenti altrui quí pascolai: servata
da allora in poi sempr’ha il mio nume questa
santa magion d’ospite santo. Adméto,
prole del buon Feréo, perciò da morte
ebbi or sottratto: e le deluse Parche
mi promettean per or sua vita in dono,

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purché scendesse in di lui vece all’Orco

altr’alma. Adméto, indarno, iva tentando
e i varj amici, e il proprio padre, e carca
d’anni la madre, se al morir propensi
fossero in vece sua; sola ei trovava
presta a lasciare in eterno la luce
del dí per esso, la sua moglie Alceste.
Egra quindi ella, in su pietose braccia
per la reggia trasportasi, morente.
Giá il dí fatal di sua partita è sorto
irremissibilmente. Oimè! pur troppo
sottrarmi io debbo a questi amati tetti,
perché la Morte, ch’io veggo inoltrarsi,
contaminar mia deitá non vaglia
in questa reggia. Ecco, si appresta, fera
sacerdotessa, a strascinarne a Pluto
l’infelice sua vittima: al dí fisso
del fatal varco, vigile ella giunge.


SCENA SECONDA

La Morte, Apollo.

Morte Olá! che fai? perché ti aggiri, o Febo,

a questa reggia innanzi? ingiusto anch’oggi
segregar forse, o rattener ti avvisi
prede a Dite dovute? Or, non ti basta
l’a me furato Adméto, e defraudate
con nuova arte le Parche? Anco la destra
armi or di strali, a custodir pur questa
figlia di Pelia, che a sottrar suo sposo,
se stessa a Morte scambio oggi promette.
Apollo Non temer: giust’io sono.
Morte   A che pur l’arco,
se giusto sei?
Apollo   Quest’è il mio incarco usato.

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Morte Anco il prestar tu a questi ingiusto ajuto?

Apollo Mi accòra, è ver, questo infelice amico.
Morte E tor mi vuoi quindi anco l’altra?
Apollo   A forza
tel tolsi io forse Adméto?
Morte   Oh! non calca egli
co’ vivi piè la terra?
Apollo   E tu, in sua vece
non sei per trar la di lui sposa?
Morte   Al certo
trarrolla all’Orco.
Apollo   E tu la prendi; e vanne.
Ma pur, mi ascolta: or io non potrei forse
persúaderti?
Morte   A uccider chi mi spetta?
Venni a ciò fare appunto.
Apollo   Ah, no; piuttosto,
di uccider quei, che giá invecchiaro.
Morte   Intendo
il tuo desir, da questi detti.
Apollo   Alceste
2 incanutir può dunque?
Morte   No, nol puote:
sappi, ch’io pur gloria ricerco.
Apollo   Eppure
sola una preda quí per or ti avrai.
Morte Ma giovin preda, è a me piú gloria.
Apollo   Eppure
matrona ottien piú ricco onor di tomba
morendo.
Morte   Ai ricchi, o Febo, assai tu mite.3
Apollo Filosofessa anco tu sei? nol seppi.

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Morte Con tal riscatto, in gioventú niun ricco

morriasi mai.
Apollo   Dunque tal grazia indarno
chiegg’io da te?
Morte   Per certo, indarno: il sai
qual sia l’indole mia.
Apollo   So, che ai mortali
ostile sei, come odíosa ai Numi.
Morte Nulla otterrai fuor del dovere.
Apollo   E cruda
sii pur quanto il vuoi piú, sí cangeratti
tal uom, che in questa reggia di Feréo4
tosto verrá; cui nella Tracia algente
a conquistar nobile equestre carro
manda Euristéo. Raccolto ospite ei fia
da quest’Adméto; e a te saprá ben egli
ritor per forza Alceste: e sí il farai,
vieppiú da me abborrita, allor costretta.
Morte Che che tu dica, è vano il tutto. A Pluto
scenderá la tua Alceste. E giá ver essa,
per consecrarla col mio brando a Dite,
io men vo. Questo ferro agli Infernali
dei sacra il capo di color, cui pria
lustrando ha tronche le fatali chiome.


SCENA TERZA

Coro di cittadini di Fere.

Coro Qual mai silenzio in questi atrj regali?

Perché sí muta è la magion d’Adméto?
semicoro primo
Olá; quí niuno aggirasi, che amico
ci narri, se omai morta pianger dessi

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la Regina; o se pur del Sol la luce

miri ella ancora? Alceste, egregia figlia
di Pelia; ottima moglie, a parer nostro;
e, in ben amar suo sposo, infra mai quante
ne furo al mondo, unica e prima.
semicoro secondo   Udito
alcun di voi fors’ha pianti, ululati
entro la reggia, o batter palme a palme,
di morte indizj?
semicoro primo   Nulla: e in su la soglia
niun de’ ministri stavvi.
semicoro secondo   In tal tempesta,
deh tu apparissi, o fugator sovrano
d’ogni periglio, Apollo!
semicoro primo   Ove pur morta
fosse ella giá, silenzio tal non fora
nella magion; donde sparito a un tratto
esser non può il cadavere.
semicoro secondo   Onde il sai?
In che ti affidi or tanto? io, non m’affido.
semicoro primo
Come a sí egregia moglie esequie muta
avria mai dato Adméto?
semicoro secondo   Eppur, non veggo
or davanti alle porte il fonte usato
dell’acqua mortuaria, onde si asterge
ogni defunto in su la propria soglia:
né veggo io quivi, qual si suole, alcuna
recisa ciocca di capelli; e grida
di femminile giovine drappello
non odo.
semicoro primo   Eppure, il dí prefisso è questo.
semicoro secondo
Il dí? che parli?
semicoro primo   Ah, sí, pur troppo, in cui
vuol morta Alceste l’implacabil Fato.

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semicoro secondo

Oimè! la mente mi attristasti, e il cuore.
semicoro primo
Su via, conviene, chi di buono ha fama,
pianga, qualora afflitti sono i buoni.

STROFE

Coro int.            Non, perché al mare il dorso

     preman veloci navi,
     dal Licio Apollo o dall'Ammonio Giove
     ad implorar soccorso,
     nulla fia mai che giove
     a involar questa ai gravi
     Fati, giá pronti a darle il crudo morso.
     Vane omai tutte appo ogni altar le prove;
     né Sacerdote resta,
     onde aíta impetrar dai Numi chiesta.

ANTISTROFE

           Solo di Apollo il figlio,

     ov’ei quest’alma luce
     ancor mirasse, or la potria sottrarre
     dal tenebroso esiglio
     delle Plutonie sbarre.
     Quei, che di Morte truce
     togliea le prede, infin che irato il ciglio
     Giove il fe’ da un suo stral di vita trarre.5
     Or, chi mia speme avviva,
     che possa Alceste rimaner pur viva?
Tutte i Re nostri (ahi tutte!) omai tentaro
le vie dei Numi: all’are tutte, a rivi
sangue di sacre vittime trascorre:
ma indarno il tutto, a irremediabil danno.

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SCENA QUARTA

Coro, Ancella di Alceste.

Coro Ma, dalla reggia ecco un’ancella uscirne

lagrimosa: or qual sorte ne udrem mai? —
Il pianger, sí, de’ suoi Signori al pianto
laudevol è: ma, parla; Alceste ancora
respira, o no?
Ancel.   Viva puoi dirla, e estinta.
Coro Come ciò mai?6
Ancel.   Tanto è vicina a morte,
che dubbio quasi è il suo fievol respiro.
Coro Misero sposo, ahi qual consorte or perdi!
Ancel. Né prova ancor l’alto suo danno Adméto,
fin ch’ella pure esiste quasi.
Coro   E speme
niuna piú resta di salvarla?
Ancel.   Ah! giunto
è il fatal giorno inesorabil.
Coro   Forse
si apprestan giá le usate pompe?
Ancel.   Appresta
giá la funerea pompa a lei lo sposo.
Coro Concia a se di se stessa, or l’alta donna
muor gloríosa, e prima sovra quante
mai ne mirasse il Sole.
Ancel.   Infra le donne,
prima ella sol? io l’unica la chiamo:
e chi negarmel’osa? altra qual mai
si amò il suo sposo, da morir per esso?
Puossi far piú, da chi che sia? Ben tutta

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la Cittá il vede. Ma i di lei sublimi

privati fatti, e detti estremi, ascolta
maravigliando. — Ella, il fatal suo giorno
tosto che vedea sorgere, nell’acque
del puro fiume il bel candido corpo
lavava; e quindi adornamenti e vesti
fuor delle prezíose arche traendo,7
con bel decoro sen fregiava. All’are
innanzi poscia standosi, esclamava:
«O Dea d’Averno e mia, poich’ivi scendo,
«l’ultima volta ch’io quí mi ti prostro,
«supplicherotti, o Dea, che protettrice
«sovrana tu degli orfani miei figli,
«l’un poi di sposa, e di marito l’altra,
«lieti tu renda; e non, come lor madre,
«vittime cadan d’immatura morte;
«ma nel patrio lor suol gioconda vita
«compian felici.» — E a quanti eran gli altari
nella reggia d’Adméto, a tutti e preci
ella recava, e di sfrondati mirti
corone sacre: né ululati mai
mandava ella, né gemiti; né il bel volto
pur scolorava pel futuro danno.
Quindi alla stanza maritale, e al letto,
correndo, al pianto ivi dá sfogo; e dice:
«O letto, in cui giá il fior virgineo mio
«donava a tal, cui la mia vita or dono;
«letto, addio: te non odio; eppur me sola
«perduta hai tu: per te, pel fido sposo,
«muojomi: e te possederá qualch’altra,
«piú fedel no, ma piú felice moglie
«forse di me.» — Cosí dicendo, il letto
stesa all’ingiú baciava, e l’inondava
di un mar di pianto. Alfin, del pianger lungo

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sazíata, fuor balza ella e dal letto

e dalla stanza maritale: e tosto
poscia vi riede, e ad abbracciar ritorna
il letto; e di nuovo esce; e ancor vi torna.
Ma i figli intanto pendon dalle vesti
della madre, piangenti: ella a vicenda
or l’uno in collo recasi ed or l’altro,
l’estremo abbraccio di morente madre
dando ad entrambi. Un pianto lamentevole
su la lor donna entro la reggia udresti
dei servi tutti; mentre a ognun benigna
porge ella stessa l’amichevol destra,
anco ascoltando e parlando al piú vile. —
Della magion d’Adméto, ecco l’infausto
stato. Vero è, morir dovea; ma, salvo,
pur sará preda ei di perenne doglia.
Coro Certo, che a forza di tal moglie orbato,
tra pianti e guai vivrassi Adméto.
Ancel.   E i pianti
giá cominciaro. Infra sue braccia ei tiene
la sposa amata; e, l’impossibil chiede,
ch’essa non lo abbandoni. Giá dal tabido
suo morbo Alceste si consuma: sciolte
spossate giá cadon sue mani: eppure,
cosí mal viva, per l’ultima volta
furare ancora i raggi vuol del Sole,
il cui splendente globo, ah, non piú mai
poi le accadrá di rivedere. Ad essa
andronne io dunque, e la pietosa vostra
venuta annunzierolle. Ah! non son tutti
dei lor Sovrani i sudditi sí amanti,
da professarsi in sorte avversa fidi:
ma, del Re nostro, antichi amici voi.
Coro Deh, quando, o Giove, ed in qual guisa ai mali,
che a lor sovrastan, potran pur sottrarsi
i nostri Re! Ma, gente dalla reggia

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esce. Or, troncarci dobbiam noi giá il crine,

e l’atre vesti cingere?
Ancel.   Patente
la cosa ell'è: chiara è, pur troppo! Eppure8
noi pregherem gli Dei: massima sempre
è degli Dei la possa. O magno Apollo,
deh tu il ritrova un qualche almo soccorso
di Adméto ai mali: ah, sí; deh tu lo accorda;
deh, ce l’accorda tu! Salvo l’hai dianzi;
redimer puoi dunque da morte Alceste,
e al mortifero Pluto impor puoi freno.
Misero ahi tu, misero ahi quanto, o figlio
del buon Feréo! deh, come or vivrai privo
di tale sposa? ah, nel vederla in questo
giorno fatal su gli occhi tuoi morire,
non che amata, amatissima, tu stesso
ti ucciderai: laccio è tal vista orrendo. —
Ma, che veggio? ella vive? e a passo tarda
fuor della reggia col consorte inoltrasi! —
Piangi, o Feréa cittade, ulula, piangi:
da cruda tabe oppressa, a Pluto scende
delle consorti l’ottima. —
  Ah! no, mai,
non dirò mai, che il conjugale stato
abbia piú mel che assenzio; or, ch’io pur miro
a tal ridotto il Re. Qual vita poscia,
(quando ei pur viva) qual misera vita
orbo ei trarrá d’impareggiabil moglie!


  1. Pur ti riveggo: Le parole di carattere corsivo, accennano di essere o aggiunte, o alcun poco diverse dal Testo. Queste due libertá non si sono prese dal traduttore mai, senza una qualche ragione importante; e principalmente per conservar la chiarezza ed accrescerla anco. Queste prime parole in fatti si sono aggiunte, perché il Lettore non rimanesse in dubbio, se Apollo stesse tuttavia in servizio d’Adméto: benché i due verbi ἔτλην, e ἐβουφόρβουν, per essere l’uno aoristo, e l’altro imperfetto, non potrebbro denotare il presente: nondimeno fa piú chiarezza, ove Apollo dice di esservi ora tornato.
  2. Incanutir può dunque? Il Testo dice: Dunque ad Alceste lice di pervenire a vecchiezza?
  3. Il Testo dice: Legge agli abbienti piacevole, o Febo, tu imponi.
  4. Tal uom: accenna Ercole.
  5. Accenna Esculapio.
  6. Dice il Testo: E come può mai una stessa persona esser morta e viva? Si è serbato il senso, troncando le parole: e cosí forse il Traduttore è stato fedele ad un tempo ed amico ad Euripide.
  7. Dice il Testo: Dalle arche di cedro.
  8. Pare, che l’Ancella, nel dire, e ripetere, che la cosa è manifesta, voglia accennare ch’essa tiene Alceste per morta. Ma siccome neppure si sa, se l’Ancella rientrasse alla reggia, o se rimanesse col Coro, il tutto riesce oscuro.