Al rombo del cannone/Una Absburgo in Italia: Maria Carolina di Napoli

Una Absburgo in Italia: Maria Carolina di Napoli

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Una Absburgo in Italia: Maria Carolina di Napoli
Vigilia italica L'Austria nei giudizii d'un suo alleato

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Una Absburgo in Italia.

MARIA CAROLINA DI NAPOLI.


I libri della guerra non offrono ancora molto interesse: vuole la necessità che la storia non cominci se non quando gli attori e i testimonii dei grandi avvenimenti spariscono. Di qui a cent’anni si continueranno a pubblicare documenti delle conflagrazioni attuali, come anche oggi, dopo più d’un secolo, ne vengono fuori, e di prim’ordine, intorno a quelle della Rivoluzione, del Consolato e dell’Impero. Il carteggio di Maria Carolina col marchese di Gallo, edito a Parigi dal comandante Weil e dal marchese di Somma-Circello quando la voce dei cannoni echeggiò la prima volta, e forse perciò non osservato con l’attenzione che meritava, porta un contributo prezioso alla storia delle Due Sicilie dall’inizio dei rivolgimenti francesi sino alla seconda fuga della Corte borbonica da Napoli, cioè al 1806, e consente di aggiungere nuovi tocchi al ritratto morale di quel [p. 16 modifica]singolare personaggio che fu la figlia di Maria Teresa, sorella di Maria Antonietta, moglie di Ferdinando IV, amica di Guglielmo Acton e di Emma Lionna.

I.

Dice la cronaca scandalosa, e rammenta anche il Welschinger nella prefazione ai due grossi volumi, che la Regina di Napoli aveva accordato al Gallo, oltre l’amicizia, qualche altra cosa; ma chi pensasse di trovarne qui le prove resterebbe disingannato. Non c’è una sola parola che attesti l’intima natura dei rapporti della sovrana col vassallo; Maria Carolina si firma maîtresse, cioè padrona, non già amante del suo ambasciatore e ministro, e gli tiene bensì il linguaggio della massima confidenza, gli parla «a cuore aperto», lo mette a parte di tutti gli avvenimenti del regno e di tutta la cronaca della reggia, gli scrive in cifra e col succo di limone cose che divulgate le recherebbero molto pregiudizio e gli raccomanda perciò di bruciare queste sue lettere; gli professa anche un’amicizia «eterna», una stima «eterna» altrettanto; lo giudica amico «perfetto», spera di vivere ancora vicino a lui e di finire i proprii giorni accanto al «vecchio amico» a cui dice addio «sino alla tomba»; ma tutte queste, ed [p. 17 modifica]altre espressioni similmente ampollose ed enfatiche come vuole il temperamento della scrittrice, non mettono nessun sapore di romanzo nel succoso epistolario. C’è qua e là qualche nota salace: la Regina parla al ministro del male che le fanno le emorroidi e delle operazioni a cui è stata sottoposta per una fistola; gli manda anche la relazione dei medici accompagnata da disegni che ella stessa qualifica «molto indecenti»; ma questa mancanza di pudore potrebbe dimostrare non tanto l’abbandono dell’amante quanto l’ottusità e l’idiozia morale della donna. Si legga in quali termini ella parla della sensualità della nuora e della frigidità del genero, e il dubbio riescirà anche più legittimo.

La donna, appunto, è quella che noi cerchiamo nella Regina, e poche altre sovrane dimenticarono tanto la corona e lo scettro nel rivelare il proprio pensiero quanto Maria Carolina componendo queste sue lettere. Si dice che Napoleone Bonaparte la definisse: «il solo uomo delle Due Sicilie», e il giudizio potrebbe essere appropriato, considerando che razza d’uomo fu il Re suo marito e quali persone lo circondarono dopo l’allontanamento di Bernardo Tanucci; ma la virilità di Maria Carolina resta ancora da dimostrare, e in queste pagine, se mai, ne troviamo prove negative del tutto.

Ella adopera una violenza, una virulenza di [p. 18 modifica]linguaggio che non è, come pare, espressione di forza. Un odio profondo, istintivo, tenace, la infiamma contro la Francia democratica che ha rovesciato la monarchia nazionale e minaccia le straniere, che le ha ucciso il cognato e la sorella. I segni verbali di questo sentimento cieco e inestinguibile si moltiplicano sotto la sua penna: i Francesi sono «birbanti, briganti, miserabili, scellerati, maledetti, canaglie, pazzi, forsennati, pirati, assassini, vandali, tigri, mostri»; il suo augurio è che quella «infame nazione sia tagliata a pezzi, annichilita, disonorata, ridotta a nulla per almeno cinquant’anni»; ella non vede altro rimedio che armarsi in massa contro di lei, «col crocifisso in mano» — l’espressione è del 1793, e il cardinale Ruffo se ne rammenterà sei anni dopo in Calabria — nè giudica che vi possa esser salvezza per il mondo se Parigi non sarà «rasa al suolo»; la sua ultima speranza è riposta in 50 mila Turchi che «saccheggino ogni cosa» - solo i Turchi sono, a suo giudizio, «franchi e leali» — oppure in 20 mila Albanesi ai quali direbbe: «Amici miei, saccheggiate, mangiate, rovinate....»; ma, con tanta sete di vendetta, ella è tutt’altro che sorda ai consigli della moderazione quando giunge il momento di agire, e se lavora a cementare la coalizione dei potentati contro la «scelleraggine francese», ordina all’ambasciatore di tener nascosto questo [p. 19 modifica]maneggio, perchè non vuol essere «compromessa», e se i detestati Francesi appariscono nelle acque di Napoli per imporsi alla città ed al regno, ella non tenta di opporsi, di far valere comunque la qualunque sua forza; al contrario: si piega, e piegandosi, vantandosi «onesta nel cuore», dichiara che aspetta di cogliere la prima occasione per mostrare il vero suo animo....

Questa potrebb’essere prudenza, e non sarebbe perciò da confondere con la viltà, tanto più che verrà la volta quando la Regina sarà temeraria e spingerà la monarchia alla rovina; ma nella mancanza di misura, precisamente, nel procedere così per pavide sottomissioni ed aggressioni spavalde, si rivela la mancanza di forza vera, di energia schietta e durevole, di resistente e indomabile coraggio. «Paura, paura e ancora paura», scrive nel giugno del 1794; «è orribile a dirsi, ma vero». Di questa paura che addebita ai circostanti, ella stessa è partecipe. Quando afferma: «Se dobbiamo perire, bisogna che ciò avvenga per disgrazia, e non per mancanza di energia e di coraggio»; quando dice che ha deciso di contendere il regno a palmo a palmo, di ritirarsi da Gaeta a Capua, a Napoli, a Salerno, a Cosenza, a Calanzaro, a Reggio, a Messina, a Palermo, ad Augusta, e che, sopraffatta in questo estremo rifugio, getterà con le proprie mani i suoi sette figli in mare e si precipiterà da ultimo dietro di loro, [p. 20 modifica] le parole sono belle, ma i fatti non le confermano. Nella sconfitta si smarrisce, si avvilisce, si prostra: dopo la pace del 1796 dichiara che le grandezze non le importano più, che ha perduto tutte le sue illusioni, che vede le cose «con gli occhi della verità», che aspetta di finire i suoi giorni «non solo senza pena, ma con una specie di godimento», e protesta e giura che non intende più «impacciarsi di nulla»: parole, parole, e ancora parole: appena stima giunto il momento della rivincita, fa il colpo di testa del 1798 - salvo, dopo la catastrofe, a gemere, a lagrimare, a dichiarare che la sua «scena è finita», che non chiede altro se non di ridursi a Linz, a Graz od a Presburgo, «sia pure in Valacchia», dove si contenterà di «pane e cipolle», maledicendo il «falso eroismo» che l’ha spinta alla perdizione: ancora parole, ancora menzogne; perchè, insieme con queste espressioni del pentimento, si alternano quelle del furore impotente, dell’odio impenitente, del delirio isterico: vengano, esclama, gli stranieri: «quali che siano, le forze potrebbero scendere in Puglia, sciabolare, avanzarsi. Non potranno far male se non ai possidenti: la terra già non potranno distruggerla». Ma se anche la terra potesse andarne distrutta, ella non esiterebbe a dar l’ordine: "la stessa peste è meno temibile che la Repubblica stabilita ed afforzata in Napoli.... Un massacro generale non [p. 21 modifica] mi farebbe la minima pena.... Ve ne prego, in nome del Re e mio: se mai gli Austriaci o i Russi scendessero dalla parte di Roma a Napoli, niente accordo, niente convenzione, niente tregua, niente perdono....» E queste, ora, non sono più sole parole: queste espressioni della ferocia, sì, ricevono piena conferma dagli atti, quando la capitolazione dei Repubblicani, offerta e sottoscritta dal luogotenente del Re, firmata e garantita dai rappresentanti di tre grandi potenze europee, sarà da lei lacerata e la «scellerata Repubblica tricolore» andrà per suo ordine sommersa nel sangue....

Ma ella non crede d’aver commesso nulla di male; se mai, soffre «mortalmente» delle violenze e della severità: il suo cuore «ne geme». Prima ancora di lordarsi le mani, dichiara preferibile «esser vittima, piuttosto che farne»; dopo l’immane tragedia, continua a protestare che la sua «morale» le consiglia di anteporre «l’esser vittima allo scatenare un flagello», e che sarebbe farle gran torto giudicarla «arrabbiata energumena». Non crede possibile la salvezza, ha detto, se non «con la forca e il carnefice a fianco e le orecchie turate, col cuore indurito e le leggi stracciate»; e quando ha eseguito puntualmente il programma, vanta la propria «purezza», esalta la propria «bontà», si duole che «la bontà non è la virtù occorrente alla conservazione dei troni», benedice [p. 22 modifica] Dio d’averla fatta giungere alla fine della carriera, perchè altrimenti si sarebbe «guastata», sarebbe divenuta «despota» e «scellerata....» Lei ed i suoi sono «gente onesta: questo e certissimo»; gente che non comprende nè ammette «se non i procedimenti della politica onesta e retta dei buoni tempi antichi»: lo dichiara nel 1803 al marchese di Gallo dandogli «parola d’onore», la sua parola «sacra», che resterà neutrale se la Francia le accorderà la pace - salvo a chiamare, di nascosto, i Russi e gl’Inglesi; salvo a porre il suo ambasciatore e confidente nella necessità di dimettersi quando vedrà che la Regina gli ha giurato il falso. Ella che prende il servitore ed amico a testimonio della propria lealtà, non sa che costui bollerà un giorno la «leggerezza» e l’«inconseguenza» di lei: eufemismi ai quali il diplomatico e suddito ricorre per non poter dire «tradimento» e «viltà».

II.

Si potrà sostenere, almeno, che questa impudenza è incosciente come forse è incosciente l’impudicizia? Neanche. Molte cose, troppe cose mancano a Maria Carolina, fuorchè l’intelligenza. La sua immaginazione «fermenta», ella [p. 23 modifica] «sente» tutto, «prevede» tutto; vive molto «con sè stessa» ed è capace di esaminarsi «senza onta nè repugnanza». Lampi di verità, allora, la abbagliano: «Vorrei punire il delitto e perdonare gli individui; ma, come tutti i paurosi e codardi, noi crediamo che la crudeltà premunisca, e quella che esercitiamo, da cui repugnano gli stessi giudici che vi sono costretti, finisce con l’alienarci i pochi cuori rimasti affezionati». Paura e codardia: ella stessa pronunzia la sentenza tremenda: ma conoscersi, avere coscienza dei proprii vizii, non è il primo, il più gran passo sulla via dell’emenda? Sì, quando la passione non è più forte; e le passioni della Regina sono tutte più forti: l’orgoglio e la superbia prevalgono, il bisogno della vendetta è irresistibile, l’appetito del potere, la sete del dominio, la voluttà dell’intrigo, la vanità regale, il fanatismo feudale, l’odio contro la libertà dissipano i buoni propositi, i consigli della prudenza, le velleità di rinunzia.

Dieci, cento, mille volte, nella previsione delle catastrofi, in mezzo alle rovine, assicura che tutto è finito per lei, che un convento l’aspetta, che senza la religione si darebbe la morte, che «aborre e detesta» il suo mestiere di Regina esercitato malamente, che vuole rinunziare a quel «cane di mestiere», che intende d’ora innanzi vivere da privata compiendo «gli atti di virtù [p. 24 modifica] di cui sono capace», che ha bisogno di farsi «dimenticare», che invidia chi «zappa la terra», che non chiede altro se non «una pensione, un giardino, qualche libro, i pennelli, le matite, un pianoforte», per vivere meditando e componendo le sue memorie, e che farà incidere sul portone della sua casa: «Qui non si parla nè di monarchi, nè dì governi, nè di politica, e neanche delle notizie delle gazzette»; ma tutte le volte, ed ogni volta più ostinatamente, riprende, vuole riprendere, muove cielo e terra per riprendere il suo posto, e giura che sosterrà la sua parte «finchè ci sarà olio nella lampada», che lotterà «finchè avrò una goccia di sangue nelle vene», che compirà il suo dovere «fino alla tomba»!

Ella stessa dà la chiave di questa continua e stridente contraddizione. «Se fossi soltanto privata cittadina, mi piegherei facilmente.... ma Regina!... Parlerò, e il mondo intero mi restituirà la sua stima. Sono la figlia di Maria Teresa!...» Il male è che, essendo figlia di Maria Teresa, volendo levarsi all’altezza della madre, non le tocca i ginocchi. I suoi disegni politici sono un arruffio, un guazzabuglio di assurdità. Arriva ad avere una singolare visione: l’Italia fiorente, rifiorente, affidata ai posteri uniti e concordi in modo da rendere impossibile che «la bella contrada» sia soggiogata mai più: ma sono idee «inutili», riconosce, che non [p. 25 modifica] potranno effettuarsi «se non quando la nostra esistenza sarà dimenticata». Di tradurre in realtà la visione, di fare almeno qualche tentativo, di scernere se non altro la via per la quale ci si potrà arrivare, ella non possiede la capacità. Si contenta di pensare che se Gustavo di Svezia o Giuseppe II vivessero ancora, direbbe loro: «Osate, affezionatevi l’esercito, i baroni ricchi e potenti, lanciate ai popoli nobili manifesti, parlate il linguaggio dell’intelligenza, dell’amor proprio, guadagnatevi i cuori e procurate con ogni mezzo di divenire Re d’Italia....»; ma quei sovrani sono morti e sepolti, e non avendo «nè l’energia, nè la potenza, nè il carattere, nè la perseveranza, nè i mezzi loro, bisogna piegare sotto il giogo....» L’amore di sè soffre, assicura - e non è difficile crederla! - «nel fare questa confessione che mi è costata molte lagrime»; ma la sincerità non ritorna, come non tornano i lampi della verità; torna invece la presunzione, ricominciano le smanie, le manie, le insanie, l’impossibilità di accettare le lezioni della vita, di sottostare alle leggi della realtà.

Da Palermo, dove si è rifugiata, giudica preferibile «entrare in un monastero piuttosto che vedermi insultata nei miei Stati»; ma poi l’idea di vivere da semplice privata in Germania le riesce intollerabile «per punto d’onore»; ed a Vienna, dove si ritrova «Regina di nome e cittadina di fatto», dove la resistenza alla [p. 26 modifica] Francia non è ostinata quanto ella vorrebbe, dove i parenti e la figlia non la trattano come pretende esser trattata, a Vienna rigurgitante di generali «da sputarci sopra», le è impossibile vivere; sennonchè, quando torna a Napoli e trova che le cose vanno ancora peggio di prima, riprende a dichiarare che preferirebbe «zappare la terra al mio paese, piuttosto che vivere qui....» Non si accorge di portare con sè, dovunque, le ragioni dello scontento. Si sdegna contro l’ambasciatore francese Alquier che la giudica affetta da «demenza convulsiva», ma ella stessa non confessa che si sente «ammalata di rabbia», in «uno stato violento», e che teme di morire - come infatti morrà, nove anni dopo - «d’un colpo apoplettico»? I freni morali non funzionano in lei: scatta al minimo impulso, avventa giudizii spaventevoli contro i suoi più prossimi, contro il Re che poi protesta di voler rispettare e di «non voler porre in ridicolo»; contro i suoi parenti austriaci, contro l’Imperatore che ha precipitato la monarchia d’Absburgo «nell’obbrobrio» e che ne ha assicurato «lo sprofondamento»; contro i parenti di Spagna, la cui Corte è un «infâme tripot», la cui Regina è una «vieille catin»; contro il Papa, che dice di rispettare come discendente di San Pietro, ma che «come sovrano è infame e merita il disprezzo universale»; contro gli Inglesi e i Russi, che ha portati al cielo [p. 27 modifica] quando si è alleata con loro, ma che, non appena la scontentano, diventano «infami, saccheggiatori, egoisti, vili, implacabili e perfidi nemici».

III.

L’improvviso mutamento d’opinione e l’alternarsi di atteggiamenti diametralmente opposti non è tanto sintomatico quanto nel caso di Napoleone Bonaparte. Giudica lui solo degno d’esser «ministro della guerra in Italia», perchè lui solo sa trasformare «gl’Italiani in soldati»; dice che «lui solo, solo, SOLO in tutta Europa sa governare, maneggiare, dirigere i popoli e gli affari», e gli vorrebbe quindi affidare il proprio regno durante un anno affinchè glielo restauri, e gli professa «vera stima» e «profonda ammirazione» e «sincera venerazione», e se il grand’uomo morisse, vorrebbe che lo riducessero in polvere, «per darne una cartina a ciascun sovrano e due a ciascuno dei loro ministri, e allora le cose andrebbero meglio»; ma poi, anzi contemporaneamente, egli è «il bastardo incestuoso, il mitragliatore, l’avvelenatore di Giaffa, quello dei prigionieri infermi precipitati nel Po, mussulmano in Egitto, cattolico a Parigi, scellerato dovunque....». [p. 28 modifica]

L’accusa che gli rivolge con maggiore compiacimento è d’essere un «parvenu», un imperatore «di nuova fabbrica»; ma il peggio, ancora, è che, giudicandolo tale, gli si umilia, lei, la figlia di Maria Teresa! Quante volte ha dichiarato preferibile «perire piuttosto che disonorarsi», quante volte ha promesso al suo confidente ed a sè stessa di non voler «mendicare misericordia da nessuno»? Orbene: ella la mèndica dall’«arci-Imperatore», da «Bonaparte I»; gli scrive una lettera d’umile implorazione, si espone a riceverne una risposta ironica e minacciosa, leggendo la quale — «io, la figlia di Maria Teresa!» — per poco non crepa di rabbia. Ma la rabbia, l’umiliazione, la mortificazione non le impediscono di tornare a piatire: «L’Imperatore è tanto grande! Ha tanta gloria che potrebbe acquistarne un’altra, una vera, mostrandosi generoso, lasciandoci tranquilli a casa nostra, sicuro che mai più» — dopo tre impegni spezzati, e nello stesso punto di infrangere il terzo! — «ci lasceremo sedurre!... Non ho più fiducia in nessuno, e mi sottometterei al tiranno, se mi trattasse bene....» Ha giurato che «mai, mai, MAI» consentirà che il Re di Napoli si riduca alla condizione di tributario o prefetto del proprio regno: e, meno di tre mesi dopo, accatta per suo figlio il posto «di re o di prefetto....» E nel chiedere che l’ambasciatore interponga i suoi [p. 29 modifica]buoni ufficii per ottenerle questa elemosina dal padrone del mondo, avvilendosi fino ad offrirglisi in ostaggio, dimentica d’averlo chiamato «bestia feroce, animale ruggente, mostro morale, vendicativo, furente....»

In verità, il «piccolo Côrso» non dovrebbe fare altro se non risponderle come rispondeva a lui stesso il granatiere della leggenda: «Après vous, s’il en reste!...»

28 maggio 1916.