Al rombo del cannone/L'Austria nei giudizii d'un suo alleato
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L’Austria nei giudizii d’un suo alleato.
Pietro Colletta, nel terzo Libro della sua classica Storia, narrando l’accortissima ritirata strategica compiuta nel 1798 da quella parte dell’esercito napolitano che obbediva al generale Damas, giudicò che la salvezza della legione fosse «frutto del dimostrato valore de’ soldati e del duce. I quali andarono lodati di que’ fatti; ma poche virtù fra molte sventure si cancellano presto dalla memoria degli uomini».
Più d’un secolo doveva passare prima che la diretta testimonianza dello stesso duce rinverdisse quegli allori, e le Memorie del conte di Damas, rimaste inedite nell’archivio della nobile famiglia, dovevano finire di pubblicarsi in sul divampare d’una nuova serie di guerre più sanguinose e tremende di quelle alle quali l’autore partecipò. Ma appunto per questa coincidenza il libro, che in altri tempi avrebbe interessato soltanto pochi studiosi, si raccomanda oggi ad un maggior numero di lettori ed ha pagine che parrebbero scritte per noi.
I.
Ruggero di Damas, discendente da una famiglia di prodi, ebbe da fanciullo una straordinaria vocazione per il mestiere dei suoi maggiori, «il più bel mestiere del mondo», ed entrò giovanetto nel Reggimento del Re; ma, per la pace che allora regnava nella sua patria, non potendo altrimenti sfogare l’umor bellicoso se non nei duelli, una bella mattina, letto un giornale che dava notizie della guerra combattuta in quell’anno 1787 tra Russi e Turchi, restò «asfissiato» dalla lettura, e senza porre tempo in mezzo, senza chieder licenza nè a parenti nè a superiori, partì per la Russia con pochi denari ottenuti in prestito e andò ad offrire la sua spada al principe Potemkine. Fu accettato, ed ebbe anche la fortuna d’incontrarsi col principe di Ligne, che conosceva da Parigi e che si trovava presso i Moscoviti come rappresentante dell’esercito austriaco loro alleato. Il volontario ed il generale si misero a studiare insieme la lingua russa, «ritenendo le parole baionetta e vittoria prima che pane e vino», e la vittoria ben presto rimeritò il suo ardentissimo alunno, in un combattimento più navale che terrestre contro il vascello ammiraglio ottomano ancorato sulla foce del Dnieper: la nave fu presa d’assalto dalle scialuppe comandate dal Damas, che ebbe in premio la croce di San Giorgio ed una spada d’oro da Caterina II. Ferito più volte, promosso al comando di reggimenti di cavalleria e di fanteria — aveva soli 23 anni — distintosi negli assedii e nelle espugnazioni, segnatamente ad Ismail, dove si guadagnò una commenda, l’ardito colonnello dimenticò quella guerra per le notizie d’un’altra, non solamente più grossa, ma più importante agli occhi ed all’anima di un Francese: la guerra originata dalla Rivoluzione.
Bisogna dir subito che, nato e cresciuto nella devozione al suo Re, offeso nelle opinioni, negli affetti e negli interessi dalle persecuzioni alle quali fu fatta segno la sua famiglia, Ruggero di Damas non corse alla frontiera di Francia per combattere con gli eserciti repubblicani contro lo straniero, bensì per combatterli nell’Armée royale, nell’esercito di emigrati capitanato dal Condé e alleato degli stranieri. Non fu dunque, questa volta, la bella guerra: fu la guerra civile, con tutti i suoi orrori — dei quali egli stesso ebbe piena coscienza, se chiamò «strazianti» le cause e i ricordi di quegli avvenimenti, se nessun godimento potè mai provare «che non fosse formato dalle memorie o dalla speranza della Francia, che non provenisse da lei od a lei non mi riportasse», se dichiarò che la sua mano si sarebbe irrigidita prima di dare a stranieri il consiglio di entrare in Francia «senza la certezza che aspirino soltanto ad una pace solida e che nessuna idea di conquista li governi», e se, cercando ovunque una nuova patria e non trovandola in nessun luogo, credendo di poter fuggire la lava dilagante dal vulcano francese via per il mondo, e sentendosi sempre raggiunto da quella, pensò e scrisse un giorno: «I piedi mi bruciano ovunque mi fermo; presto non mi resterà altro rifugio che nel cratere di Francia...».
Il militare di professione, del resto, non poteva non ammirare l’impeto straordinario e gli sforzi sovrumani dei generali della Repubblica, «l’ardore che conduce alla conquista del mondo»; e se, da legittimista convinto e inconvertibile, egli condannò in Napoleone l’usurpatore del trono di San Luigi, fu compreso anche di tanta meraviglia per le grandi cose compite dal capitano immortale, da esclamare con simpatica ingenuità: «Perchè non è egli Borbone!...»
Simpatica propriamente riesce la figura di questo singolarissimo campione della causa dei Re, il quale non si lascia intanto accecare dalla fede monarchica, ma critica lo stesso Re suo, pure servendolo, e, pur combattendo la Repubblica, domanda a sè stesso, considerata la nullità dei monarchi del suo tempo: «Perchè mai l’Europa dipende da cotesta genie? I regnanti attuali disgusterebbero per tutta la vita del principio monarchico!...» Con parola più mordace, attribuendo la fortuna politica del Bonaparte alla deficienza degli altri sovrani, dichiara che allora crederà al tramonto dell’astro napoleonico quando i troni saranno resi vacanti «da una epizoozia di tutte le famiglie regnanti....» È vero, tuttavia, che il mestiere del Re «dev’essere divenuto molto duro, se un Luigi Bonaparte se ne stanca e lo smette...»
Sebbene partigiano, Ruggero di Damas non ha peli sulla lingua. Il famoso manifesto del Brunswick, donde prende le mosse la reazione sulla quale egli fonda tutte le sue speranze, è da lui severamente criticato; e battendosi insieme col duca e con gli Austriaci durante la campagna di Francia che dagli effimeri successi di Longwy e di Verdun finisce a Valmy con la ritirata e la rotta, non risparmia i biasimi alla strategia del comandante supremo; e lodando l’esercito prussiano dove è da lodare, denunzia la barbarie di cui esso si macchia. «Come difendersi da un sentimento di pena e di terrore, vedendo cotesto esercito celebrare il suo primo passo nel territorio francese con la più arbitraria devastazione?...» Un colonnello è cancellato dai ruoli e due soldati sono impiccati per dare un esempio; «ma io non potevo supporre allora che, ad impedire il disordine, sarebbe stato necessario impiccare tutto l’esercito....»
II.
Un più profondo esame ed un più severo giudizio è quello del quale egli fa oggetto un’altra potenza coalizzata contro la Repubblica di Francia: l’Austria. Come stimarla capace di vincere, se a tutte le molle che il «giacobinismo» faceva scattare nei petti dei soldati repubblicani, essa non sapeva opporre altro che la «pedanteria»? Come credere al genio dell’idolo dei Viennesi, il Coburgo, dopo aver visto cotesto maresciallo, a capo di 15000 soldati austriaci, indietreggiare all’assedio di Giurgevo dinanzi a soli 4000 Turchi? Come credere all’ingegno dei generali di corte, dell’arciduca Giovanni, «adoperato a guisa di polverine del James all’agonia d’un infermo», od a quello dello stesso arciduca Carlo? «Chi si è condotto come costui, nelle circostanze in cui si è trovato, non ha pensato una sola idea giusta, non ha fatto nulla di raccomandabile, e se ha avuto qualche momento di fortuna, bisogna cercare fra coloro che lo circondano la testa che pensava per lui....»
Sarebbe certamente stolto, avverte il Damas, negare il valore di alcuni generali austriaci; ma essi non possono adoperarlo come i francesi, perchè «il genio della loro nazione li rende incapaci di rinnovarsi: gli Austriaci resteranno sempre un esercito d’altri tempi, teorico, coraggioso, ma lento e testardo nei suoi sistemi: essi agiranno contro i nostri nipoti come agirono contro i nostri avoli, e per conseguenza saranno battuti da quelli come furono battuti da questi.... La lentezza di concezione e di esecuzione nei generali, l’asservimento alla pedanteria nei preparativi nell’azione, l’inerzia e la svogliatezza nei subalterni, l’apatia dopo i buoni successi come dopo i rovesci, sono altrettanti vizii ed impacci». E, per esempio, a Wattignies il Cleyrfait «giudicò più semplice lasciar proseguire la ritirata vergognosa, anche quando le circostanze non l’esigevano più, che di fare indietreggiare le truppe il cui movimento era già cominciato, e solo per apatia non diede nessun contrordine. Il successivo passaggio della Sambra fu così compiuto e la battaglia più importante si trovò perduta, mentre i Francesi si ritiravano in tutta fretta sulla loro destra. Simili fatti si crederebbero difficilmente da chi non ne fosse stato testimonio; ma io garantisco che quanti hanno servito con gli Austriaci ne avranno una collezione....» Altro esempio: l’inutilità della vittoria di Essling, dopo la quale — ma prima di Wagram! — i soldati di Napoleone trovano un argutissimo modo di scusare la disfatta del loro duce, del loro papà: «Il nostro papà non fa più altro che sciocchezze dacchè è in Austria: il contagio del paese gli si è attaccato....»
Quando era al servizio di Caterina II, il Damas aveva visto i Russi rallegrarsi e godere all’annunzio delle disfatte degli Austriaci, come se fossero loro nemici, mentre erano alleati contro il Turco, nemico comune: questo sentimento che lo stupì profondamente, e che poteva sembrare propriamente iniquo, fu da lui compreso quando studiò da vicino la psicologia austriaca. "Gl’individui di cotesto esercito aggiungono ai loro difetti disgraziatamente troppo noti, una presunzione ed una sufficienza indefinibili; essi non possono andare d’accordo con nessun alleato, non apprezzano altro che i sussidii in denaro, e questo genere di concorso non serve se non a farli perseverare nella guerra senza portare rimedio ai loro errori. Tutte le battaglie che hanno sostenute in lega coi Russi hanno messo a giorno la poca cordialità e la poca simpatia di cui sono suscettibili, e questo esempio recente fa tremare per l’avvenire. Quasi tutti i trattati conclusi dalla Corte di Vienna da un secolo a noi hanno dimostrato la sua abilità nel gravar la mano sugli alleati, e la potenza che contrae con lei si trova egualmente oppressa sui campi di battaglia e nei gabinetti diplomatici....» Ma la presunzione e la prepotenza finiscono il giorno delle sconfitte: allora gli altezzosi sono in preda ad un abbattimento che fa accettare le paci «disastrose», le paci «vergognose». Nei lunghi soggiorni dell’autore a Vienna, durante le grandi crisi dell’Impero, egli non ode «un solo proponimento che dimostri indipendenza e coraggio. Da che cosa dipende dunque l’avvenire d’uno Stato non sostenuto nè dalla coscienza della propria forza, nè elettrizzato dall’amore della gloria e della patria?...» Per conseguenza: «degenerazione, imbastardimento di ogni idea di onore e di morale», ed anche una irrimediabile «mostruosità di debolezza», per la quale i governanti non sono capaci di prendere altri provvedimenti fuorchè quelli in extremis e si sottopongono poscia al giogo «senza resistenza».
L’acuto ed equo osservatore non nega le buone qualità alla gente semplice, del popolo minuto; ma il congegno sociale è così fatto, che «per mantenere l’animo in pace, in questa metropoli (Vienna), bisognerebbe non incontrare personaggi ufficiali. La loro vista turba per tutto il giorno, tanto sono rappresentativi della decadenza». Ed anche fuori del mondo in divisa, c’è qui in tutti i procedimenti, in tutte le usanze, in tutte le feste e i divertimenti, un velo teutonico che toglie grazia ad ogni cosa.... L’edifizio morale di questo paese rammenta i monumenti costruiti nei tempi di decadenza dell’arte.... Immaginate la dissipazione senza godimento, la leggerezza senza garbo, la sciocchezza senza contegno, la fatuità senza conquiste, e avrete la misura della disgraziata differenza che passa tra la gioventù di Vienna e quella di Parigi».
Delle sciocchezze e delle goffaggini delle quali egli fu spettatore il Damas riferisce gustosi esempii. Quando Maria Luisa andò in Francia sposa di Napoleone, scortata dai generali francesi, due cittadini di Ens, obbedendo all’ordine di far luminaria, tirarono fuori, per economia, gli stessi trasparenti «di cui si erano serviti nei festeggiamenti prescritti in altre occasioni: si leggeva sull’uno Vivat Laudon, sull’altro Vivat Coburg, e le effigie di quei due generali» — i peggiori nemici dei Francesi — «prendevano parte a quell’infame e vergognoso baccano con un’espressione diametralmente opposta alle circostanze....» Il generale Bubna, pezzo grosso dell’esercito e della diplomazia, spedito a negoziare l’armistizio dopo Wagram, si vede offrire da Napoleone un anello del valore di ventimila fiorini, e senz’altro se lo passa al dito. «E che? In questo paese un generale va a conferire col nemico — tuttora nemico, poichè la pace non è per anco stipulata — e il nemico osa fargli un regalo, e il generale negoziatore lo accetta?...» In previsione di nuove ambascerie del Bubna, il Damas esclama: «Quest’altra volta egli tornerà indietro con una ricca tabacchiera, e poi all’ultimo viaggio riceverà un calcio nel sedere tempestato di diamanti....»
III.
La gravità di questa diagnosi dipende dal fatto che è compita da un uomo il quale non è già nemico dell’Austria, nè predisposto contro di lei; che è anzi suo amico ed alleato, che ha combattuto accanto ai suoi eserciti, che chiede un giorno di esservi ammesso, perchè vede in lei la maggior potenza impegnata contro l’aborrita Repubblica e capace di abbatterla. Il Damas vorrebbe ammirare, sarebbe felice se potesse ammirare l’Austria come la più fedele fautrice delle tradizioni che egli venera, e vorrebbe nascondere agli altri ed a sè stesso la verità cocente; ma la verità è più forte dell’interesse, e il suo sdegno contro la dappocaggine delle legittime dinastie fiaccate o travolte dal ciclone rivoluzionario si accentra sugli Absburgo. L’apparato imperiale dei sovrani apostolici, degli eredi di Carlo V, è imponentissimo e incute un senso di soggezione; «ma quando gli avvenimenti li forzano a togliersi da cotesto teatro d’illusioni e d’inganni, la scena sulla quale si rifugiano mortifica l’immaginazione e lascia che lo spettatore scorga in cotesti personaggi illustri altrettanti poveri istrioni di campagna....»
Si potrebbe ancora spigolare dell’altro nei due grossi volumi di queste Memorie, se non fosse ora di rammentare che, oltre alla diagnosi della mentalità austriaca, esse offrono un altro grande interesse; perchè, come si disse in principio, il Damas servì anche nell’esercito napolitano e direttamente partecipò alla storia nostra nei primi anni del secolo decimonono.
6 settembre 1917.