Al rombo del cannone/Vigilia italica
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Vigilia italica.
Il regno d’Italia è dunque in guerra ad oltranza contro l’impero d’Austria: dall’Adige all’Isonzo, dalle vette delle Prealpi tridentine agli anfratti del Carso il bombardamento imperversa, la battaglia infuria. Soldati italiani veleggiano per l’Adriatico, battaglioni di bersaglieri operano in Val Sabbia; i nomi di Gorizia, di Tolmino, di Malborghetto, di Monfalcone, di Plava, di Asiago, di Arsiero, della Val Sugana, della Vallarsa, della Valle Lagarina ricorrono nei bollettini quotidiani; Trento, Trieste, l’Istria, la Dalmazia sono oggetto della gran contesa. La Francia è col giovane Regno contro il decrepito Impero, che ha dalla sua i Prussiani e le altre genti tedesche; l’Inghilterra e la Russia.... ahimè, l’Inghilterra e la Russia non sono - non erano con noi quando una guerra simile alla presente si combatteva tra il regno d’Italia avente per metropoli Milano e per vicerè il figlio di Giuseppina di Beauharnais, e l’Austria di Francesco II.... Come oggi contro l’impero teutonico ed i suoi dipendenti, l’Europa si era allora collegata contro l’impero napoleonico ed i suoi satelliti; e il Regno Italico, trasformazione monarchica della Cisalpina, doppiamente odiato perciò, come opera iniziata dalla Rivoluzione francese e compita dall’uomo che aveva vòlto a proprio profitto quel cataclisma, non doveva, non poteva trovar grazia presso i futuri negoziatori di Vienna, preparatori della Santa Alleanza, restauratori della legittimità.
Ma proprio allora, quando alla difesa d’Italia cooperavano veri reggimenti italiani ed i primi soldati designati col nome più tardi glorioso di bersaglieri, proprio allora furono proferite la prima volta tra i popoli e nei Gabinetti le espressioni di indipendenza italiana, di unità italiana, e la storia di quei tempestosissimi giorni ha per noi un interesse profondo ed un irresistibile fascino. Un ufficiale francese studiosissimo delle imprese guerresche e degli avvenimenti politici di quel tempo, il comandante Weil, la narrò in un’opera colossale che è tornata oggi d’attualità: i cinque grossi volumi, di circa tremila pagine complessive, intitolati Le prince Eugène et Murat, dove si descrivono giorno per giorno e quasi ora per ora, con una infallibile e inesauribile documentazione, le operazioni militari dirette dal figliastro e dal cognato del gran Côrso, e si riferiscono tutti i contemporanei negoziati diplomatici svolti dalla primavera del 1813 a quella del ’14, cioè fino al primo tracollo dell’impero francese ed alla definitiva rovina dei due regni italiani che gli erano infeudati.
I.
Nelle grandi linee, la campagna d’Italia del 1813-14, combattuta per la difesa del nostro paese sugli stessi campi dove si è iniziata per la sua integrazione quella del 1915, procedette sciaguratamente al contrario dell’odierna. Oggi il nostro Comando ha preso l’offensiva nell’impresa di liberazione delle Alpi Giulie; allora Eugenio di Beauharnais, possedendole dopo che Campoformio era stato corretto a Presburgo ed a Schönbrunn, doveva soltanto difenderle contro la rinnovata cupidigia austriaca; noi miriamo alle rive della Sava e della Drava, entrambe allora tenute - e perdute - dal Vicerè. L’occhio d’aquila di Napoleone aveva, fin da parecchi anni innanzi, antiveduto in quale situazione il figliastro si sarebbe trovato venendo alle prese con l’Austria e quale via avrebbe dovuto tenere per ridurla alla ragione. «Voi concentrerete il vostro esercito nel Friuli». gli aveva scritto da Parigi il 12 aprile 1809 «e disporrete una divisione alla sbocco di Pontebba per minacciare continuamente di marciare su Tarvis.... Secondo il mio calcolo, le principali forze del nemico si troveranno a Tarvis; così essendo, esso non si porterà su Gorizia, ma si accentrerà a Lubiana. Lasciate dunque sull’Isonzo una parte della cavalleria e una dozzina di migliaia di fanti ed avanzate con tutto l’esercito su Tarvis, nulla concedendo al caso. Tenete bene unite le vostre forze.» Invece Eugenio, subordinando le proprie mosse alla manovra austriaca, della quale ebbe troppo tardi notizia, abbandonava a sè stessa la sua ala sinistra per portarsi con tutte le truppe disponibili su Adelsberg e Lubiana, perdendo il vantaggio dell’iniziativa e contromandando poi la marcia, con deplorevole effetto, per procedere da Gorizia, Canale e Caporetto verso la Carinzia. Il buon successo di Feistritz parve per un momento avergli ridato il vantaggio dell’offensiva; ma poi l’inferiorità numerica, l’incapacità dei luogotenenti, la deficienza dello stato maggiore – era composto di soli sei ufficiali! – la diserzione degli Illirici e dei Dalmati, lo mettevano nella penosa necessità di retrocedere sull’Isonzo.
Nulla ancora era perduto. La linea dell’Isonzo era naturalmente designata per una strenua difesa: nove anni innanzi Napoleone aveva suggerito al figliastro: «Percorrete a cavallo le rive dell’Isonzo; sono quelle le vostre frontiere. Un giorno sarete chiamato a difenderle. Bisogna che il più piccolo sentiero e l’infima posizione siano da voi conosciute. Coteste ricognizioni sono importantissime e vi riusciranno preziose. Credo che abbiate visto quei luoghi quando eravate molto giovane, ma che non li abbiate esaminati tanto minutamente quanto occorre....» Nè la perdita dell’Isonzo sarebbe riuscita fatale. In una lettera del maggio 1808, da Baiona, all’inizio dell’avventura spagnuola, e in previsione di nuove ostilità dell’Austria, il grande stratega aveva riscritto ad Eugenio: «Quand’anche il nemico occupasse tutto il paese tra Isonzo e Piave, non terrebbe ancora nulla: insino al Piave il paese nulla offre di molto importante». Il corso di questo fiume era, a suo giudizio, più vantaggioso che non quello del Tagliamento; ma l’estrema linea della difesa, quella che la «spregevole fanteria austriaca» non avrebbe dovuto nè potuto oltrepassare, consisteva sull’Adige, «di cui Verona è il centro e il punto principale».
Per mala sorte, mentre il Vicerè era costretto a retrocedere dal confine orientale, anche quell’altra parte del suo esercito cui aveva affidato la difesa del redento Tirolo era costretta a ripiegare fino a Trento ed a Rovereto: l’insurrezione fomentata dal nemico tra quegli alpigiani e la defezione della Baviera favorivano il còmpito assegnato al feldzeugmeister Hiller. Molto probabilmente il piano dell’offensiva del Trentino, della cosiddetta «spedizione punitiva», concepito la scorsa primavera dallo stato maggiore austriaco, fu ispirato da quello che un secolo addietro il barone Hiller effettuò: allora come oggi i nostri nemici pensarono di compiere una gran mossa avvolgente dall’Alto Adige per la Valsugana, con lo scopo di sboccare nella pianura veneta e di cogliere alle spalle le truppe operanti sull’Isonzo; tranne che, mentre oggi le ondate dell’assalto si sono infrante contro i petti dei nostri soldati, allora i Franco-Italiani furono costretti a una serie di continue ritirate, da Primolano, da Cismone, da Folgaria, da Montebaldo, da Ala, dinanzi alle colonne avversarie discendenti da Borgo di Valsugana e da Feltre e collegate da corpi volanti per i Sette Comuni, la Vallarsa e la Valfredda. A Bassano Eugenio compiva uno sforzo e conseguiva un’effimera vittoria, costringendo i fanti dell’Eckardt a retrocedere su Cismone e quelli del Brettscheider su Gallio, Asiago e Levico; ma poi il Vicerè doveva a sua volta abbandonare la linea del Piave e della Brenta ed avviarsi a Vicenza ed a Verona, talchè Bassano era rioccupata dal nemico, che procedeva da Castelgomberto verso Vicenza, dove le divisioni scese dal Trentino dovevano congiungersi con quelle avanzanti dall’Isonzo e concorrere così all’investimento di Venezia. Ancora una volta il Vicerè tentava un ritorno offensivo per la Valle Lagarina verso Rovereto e Trento; ma, espugnata Caldiero, non poteva mantenervisi per insufficienza di forze e tornava a ridursi a Verona.
II.
Una delle principali cagioni del cattivo esito della campagna era il voltafaccia di Gioacchino Murat. L’ambizioso sergente di cavalleria sospinto sul trono di Napoli dall’inaudita fortuna del grande cognato, temeva d’esser travolto nell’imminente disastro, e volendo assicurarsi sul capo la malferma corona, bramando anzi d’ingrandire il suo regno e di ridurre sotto il suo scettro tutte le genti italiane, cercava alleati tra i nemici di Napoleone, si offriva invano agli Inglesi, si stringeva da ultimo all’Austria, affidandosi «senza riserva alla fiducia che deve ispirare la lealtà dei suoi principi, segnatamente quella del sovrano che oggi la governa». Singolare speranza davvero, cotesta, di divenir sovrano dell’Italia unita mediante la «lealtà» di quegli Absburgo che a null’altro aspiravano nè lavoravano, con tutte le arti e tutte le armi, fuorchè a recuperare Venezia e Milano, l’Istria e la Dalmazia, il dominio dell’Adriatico e l’egemonia sulla penisola!
Il Weil, pur tessendo una finissima analisi delle esitanze, delle tergiversazioni, delle contraddizioni di Gioacchino, afferma che, senza l’opposizione implacabile di lord Guglielmo Bentinck, messo britannico presso i Borboni di Sicilia, l’improvvisato Re di Napoli sarebbe riuscito nell’impresa di liberare e ricomporre l’Italia. È lecito dubitare di questa, come di qualche altra affermazione del diligentissimo storico. Quando, per esempio, egli dà torto a Napoleone per avere rifiutato, sul principio del 1813, le «accettabili e onorevoli» condizioni di pace offertegli dal Metternich, non tiene conto del grande equivoco, scoperto e documentato da Alberto Sorel, che si celava nelle proposte del cancelliere austriaco e di tutta la Coalizione. Quanto all’Italia, affinchè Gioacchino Murat riuscisse allora a resuscitarla, occorrevano due cose: che la coscienza dei suoi cittadini fosse formata, e che i potentati europei consentissero a lasciarla rivivere. Ma se la grande idea era stata concepita da alcuni generosi, essa non era ancora divenuta, come occorreva, sentimento e passione comune; e se nei consigli dell’Europa si cominciava a considerare il problema italiano, non gli si voleva ancora dare, pure annunziandola e promettendola, la sola soluzione che comportava. L’Inghilterra lasciò sperare che avrebbe dato mano a liberare la Penisola dalle influenze rivali dell’Austria e della Francia. Il Bentinck, acerrimo avversario del Re Gioacchino, ne ostacolava con ogni possa i piani, ma scriveva a lord Castlereagh, ministro inglese degli affari esteri, che se la Gran Bretagna avesse estesa la sua protezione ed assistenza agli Italiani, avrebbe provocato tra loro «un gran movimento nazionale, simile a quello che ha sollevato la Spagna e la Germania: un gran movimento in favore dell’indipendenza; e quel gran popolo, invece che lo strumento d’un tiranno militare o di qualche altro individuo, invece che lo schiavo dolente di alcuni miserabili principotti, sarebbe divenuto una formidabile barriera eretta tanto contro la Francia quanto contro l’Austria. La pace e la felicità del mondo avrebbero ottenuto un possente aiuto di più. Temo molto, però, che l’ora sia trascorsa....» L’ora, per dire esattamente, doveva ancora giungere: tant’è vero, che lo stesso Bentinck non si faceva scrupolo di difendere, nello stesso tempo che proferiva così belle parole, gl’«imprescrittibili» diritti borbonici.... Impegnata nel duello a morte contro la Francia di Napoleone, l’Inghilterra aveva troppo bisogno di ottenere l’aiuto dell’Austria, e per ottenerlo rinunziava al magnifico disegno di fare dell’Italia unita un pegno dell’equilibrio europeo ed un freno alle contrastanti ambizioni austriache e francesi, contribuendo invece a consegnarne gran parte agli Absburgo: mentre il Vicerè manovrava tra l’Adige e l’Isonzo, difendendosi del suo meglio sulle due frontiere, i vascelli britannici comandati dall’ammiraglio Freemantle cooperavano dal mare con le truppe del maresciallo austriaco Nugent per ridare a Francesco II Fiume, Pola, Capo d’Istria, Rovigno; favorivano le operazioni del Tomasich e del Danese in Dalmazia; prendevano parte all’assedio ed all’espugnazione di Trieste, di Zara, di Ragusa; e se pure aiutavano i Montenegrini nell’impresa di Cattaro, lasciavano poi che le Bocche fossero riprese ed annesse dall’Austria e tenevano per conto di lei, consegnandogliele alla pace, Lissa, Lesina, tutte le isole adriatiche.
La Francia della Repubblica e dell’Impero potè credere d’aver fatto molto per l’Italia, e qualche cosa realmente fece; ma la diffidenza che doveva trattenere allora, e per lungo tempo ancora, i reggitori di quella nazione, era espressa limpidamente nel rapporto del Caulaincourt, ministro degli esteri di Napoleone, al suo padrone: «L’Italia dichiarata indipendente avrebbe senza dubbio un più diretto interesse a difendersi. Era formata di popoli divisi: Vostra Maestà ne ha fatta una nazione, e le forze che quel paese ha acquistate sotto l’amministrazione della Maestà Vostra hanno accresciuto la sua fiducia in sè stesso. La maggior parte degl’Italiani desiderano ottenere l’esistenza politica. Il Re di Napoli se n’è accorto. Egli si servirà d’ogni mezzo per dare sfogo a questa tendenza e riunire, potendo, le sparse membra d’Italia. Ma se Vostra Maestà consentirà all’indipendenza di quel paese, ora oppure al momento della pace, sarà anche nel vostro interesse formarne una sola monarchia? L’Italia ha 16 milioni d’abitanti e tutti i vantaggi d’un suolo fertile e d’una felice situazione marittima e commerciale. Un buon governo potrà, in una sola generazione, aumentare di metà quella popolazione. I suoi arsenali, il suo commercio, la sua marina, si sviluppano a poco a poco. Essa porta via alla Francia il commercio del Levante e la preponderanza nel Mediterraneo; e, forte della sua posizione fra una catena di montagne e i due mari, diventa la prima potenza del Mezzogiorno....»
Alla pregiudiziale della rivalità nazionale si aggiungeva l’ostacolo della rivalità delle persone. Chi dei due, tra Eugenio di Beauharnais, Vicerè del regno settentrionale, e Gioacchino Murat, Re del regno napolitano, avrebbe ottenuto lo scettro dell’Italia una? L’invidia contro il Beauharnais, la paura di vedersi soppiantato da lui, la certezza che Napoleone lo preferisse, facevano titubare il Murat, rendevano doppio e perfido quel soldato nativamente franco e leale. L’uno accorrendo da Napoli verso i campi lombardi, occupando Roma, la Toscana, le Marche; l’altro battagliando tra l’Adige e l’Isonzo, parlavano agl’Italiani di libertà, d’unità, d’indipendenza; ma Eugenio confessava candidamente di non avere sposato la causa italiana se non «come leva per ottenere nuovi sacrifizii» dai suoi sudditi; e Murat presumeva di fare l’Italia gettandosi in braccio all’Austria, annunziando che la coalizione nella quale egli entrava aveva la «magnanima intenzione di ristabilire l’indipendenza delle nazioni....»
III.
Dell’indipendenza italiana osava parlare la stessa Austria! Il proclama del conte Nugent, disceso con gli Austro-Inglesi dalla vinta ed asservita Trieste alle foci del Po, e procedente verso Ferrara e Ravenna, portava l’intestazione: Regno indipendente d’Italia, e diceva alle genti: «Voi avete sofferto sotto il giogo di ferro dell’oppressore. I nostri eserciti sono venuti per liberarvi del tutto. Un nuovo ordine di cose, destinato a restaurare la vostra felicità, vi si offre.... Coraggiosi e bravi Italiani, è vostro interesse prendere le armi per conseguire la vostra rigenerazione e la vostra felicità.... Voi dovete divenire una nazione indipendente....» Il generale austriaco, come il Vicerè francese e l’ambasciatore britannico, teneva quel linguaggio per trarre dalla sua le popolazioni: quattro mesi dopo, caduto Napoleone, l’ultimo tricolore sventolante ancora in Italia era ammainato, l’esercito italiano cessava d’esistere, e un nuovo proclama del Bellegarde, ornato in testa dell’aquila bicipite, partecipava ai Lombardo-Veneti il «felice destino» che era stato loro concesso: l’annessione alla Monarchia absburghese....
Buon profeta, tra i molti illusi, era stato Gabriele Pepe, quando, biasimando i portamenti di Gioacchino e la sua entrata nella Coalizione, si dichiarava ignaro delle condizioni del trattato, ma «certo che l’Italia non avrà nè l’indipendenza nè l’unità». La menzogna di quelle promesse fu grave di conseguenze funeste. «La condotta degli Alleati verso l’Italia è un peccato che, al pari dello smembramento della Polonia, costerà molto caro all’Europa. Occorreranno ancora una ventina d’anni d’espiazione....» A parte l’errore di calcolo, perchè l’espiazione durò molto di più, anche queste parole furono profetiche: le pronunziò quel goriziano Catinelli che, mezzo secolo prima di Garibaldi, tentò un’impresa garibaldina al rovescio: salpò con mille soldati da Milazzo per tentar di sollevare la Toscana, prendere alle spalle il Vicerè sul Mincio e concorrere alla «liberazione» della Penisola, auspici gli Austriaci e gl’Inglesi.... Gli Alleati del 1813-14, dichiarando di combattere una crociata per la «libertà» d’Europa, per la causa del «diritto» e della «giustizia», ridussero bensì all’impotenza il grande perturbatore dell’antico equilibrio, ma non compirono l’opera, diedero ai popoli false speranze e ribadirono le catene ai polsi degl’Italiani. La presenza dell’Italia risorta fra gli Alleati odierni è la maggiore e migliore garanzia contro il ripetersi di simili errori.
12 ottobre 1916.