Al rombo del cannone/Un profeta del pangermanesimo: Edgardo Quiuet
Questo testo è incompleto. |
◄ | Thiers, Bismarck e la guerra | L'Imperatore liberale: Federico III | ► |
Un profeta del pangermanesimo:
EDGARDO QUINET.
Mathieu de Mirampal, al tempo della Rivoluzione francese, propose di far viaggiare gli adolescenti in Germania, "per ritardare, grazie ai rigori del clima, l’età della pubertà". La stravaganza del consiglio, e quella dei molti contemporanei giudizii intorno all’indole delle popolazioni teutoniche, può dare un’idea della ignoranza degli scrittori che li proferirono. Un giorno ci si mise una scrittrice, colei che fu chiamata Imperatrice del Pensiero per far dispetto a Napoleone Bonaparte, Imperatore di Francia - e l’Allemagne della signora di Staël riuscì un’apologia, anzi un’apoteosi. Il bello fu questo: che gli stessi Tedeschi non vi si riconobbero, e dissero che l’autrice "nulla ha visto, nulla ha udito, nulla ha capito....".
Corinna meritò quest’accoglienza, perchè non fu sincera: ella esaltò la Germania per combattere Napoleone che l’aveva sottoposta. E mentre il suo libro era male accolto tra le genti che portava al cielo, lo applaudirono invece con gran calore quegli stessi Francesi che festeggiarono le truppe della Coalizione accampate a Parigi nel 1814. Perchè Bonaparte era stato dispotico, quei cittadini dimenticarono che nel despota, intanto, era impersonata la patria, e in odio a lui gioirono della disfatta, e accettarono come articoli di fede le lodi tributate dalla Staël ai loro secolari nemici.
È vecchia sentenza che la passione acceca. E la passione politica continuò ad offuscare la vista dei Francesi durante la Restaurazione ed al tempo della monarchia di Luglio; per il disagio sofferto sotto quei regimi, gli spiriti insofferenti si volsero a cercare oggetti di ammirazione oltre confine. Il romanticismo letterario contribuì anch’esso a mettere in voga i costumi alemanni; gli stessi progressi compiuti dalla scienza tedesca accrebbero quel fervore, a segno che il Michelet scriveva nel 1828: "la mia Germania, il mio Lutero, il mio Grimm" - e non chiamava suo Giambattista Vico, a cui doveva pur tanto, e di cui aveva tradotto l’opera. Un altro giovane scrittore amico del Michelet e destinato anch’egli alla celebrità - Edgardo Quinet - si recava tre volte in Germania con l’ardore d’un pellegrino, sposava una Tedesca, chiamava "nostra" Eidelberga, e leggendo e traducendo e presentando ai suoi connazionali la Filosofia della storia del genere umano, dichiarava d’aver trovato nel libro tedesco "una fonte inesauribile di consolazione e di gioia: mai, no, mai mi è accaduto di chiuderlo senza avere un’idea più nobile della missione dell’uomo su questa terra; mai, senza credere più profondamente al regno della giustizia e della ragione; mai, senza sentirmi più devoto alla libertà, alla mia patria, e più capace di buone azioni".
I.
Quel filosofo esordiente sarebbe rimasto molto stupito se gli avessero detto che il suo entusiasmo per la Germania avrebbe, di lì a poco, dato luogo ad un sentimento molto diverso. La prima impressione di doccia fredda fu da lui provata quando, innamoratosi di Minna Morè e scambiata con lei la promessa nuziale, conobbe da vicino i fratelli della sposa, Tedeschi fanatici, inconciliabili nemici della Francia, i quali indussero la giovanetta a ritirare la parola data. Molto penosa fu la crisi del disinganno, ma potè essere superata, e qualche anno dopo Minna sposò Edgardo, e lo rese felice; ma il velo attraverso il quale egli aveva visto la patria di Arminio gli era intanto caduto dagli occhi: egli si guardò intorno, prestò attentamente l’orecch io, e vide e udì ciò che a tutti gli osservatori sfuggiva allora, e doveva ancora sfuggire per lungo ordine d’anni: "segni in fondo alle cose, come un mormorio che partiva non si sa donde, indistinto e indefinibile; conversazioni rare, parole interrotte, improvvisi entusiasmi che scoppiavano e svanivano come lampi: la grandezza della Germania....".
Paolo Gautier, raccogliendo oggi tutti gli articoli nei quali, dal 1831 al 1870, il Quinet avvertì la Francia di ciò che si preparava nell’animo della nazione rivale, ci dà modo di apprezzare la singolare chiaroveggenza dello scrittore. Mentre il popolo tedesco pareva ancora, come era parso a lui stesso nella prima fase dell’ammirazione, e come forse era stato in altri periodi della sua storia, contemplativo, meditabondo, rifuggente dalla realtà, incapace di passare dalle idee agli atti - "annegato nell’infinito", aveva detto la Staël - il Quinet colse i sintomi del mutamento, dell’orientazione dello spirito pubblico verso l’attività pratica e politica, dell’aspirazione all’unità nazionale, dell’ambizione di farsi largo nel mondo: sentimenti e movimenti già così profondi, "che non resta più a quel popolo se non afferrare la corona universale".
Queste parole sono del 1842. Undici anni innanzi, scrivendo al Michelet, Edgardo Quinet annunziava all’amico che le cose erano molto mutate in Germania dacchè entrambi avevano lasciato quel paese, "e l’unità tedesca si prepara in modo così minaccioso, che non ho resistito al bisogno di descriverne i progressi inevitabili". Nella sua descrizione - un articolo intitolato: La Germania e la Rivoluzione - il Quinet nota che l’antica imparzialità e serenità, che l’apatia politica e la tendenza al cosmopolitismo hanno dato luogo in Germania ad una "nazionalità irritabile e collerica"; che la libertà non è tra i più urgenti bisogni di quel popolo; che il partito democratico, ed anche il demagogico, hanno fatto pace col Governo della Prussia dopo che questo ha dato al paese ciò di cui esso è ora cupido: "l’azione, la vita reale, l’iniziativa sociale", appagando "il repentino infatuamento per la potenza e per la forza materiale". Tra i governati e i governanti "c’è una secreta intesa per rimandare l’avvento della libertà e mettere in comune l’ambizione di conseguire la fortuna di Federico II". Il dispotismo prussiano è più minaccioso dell’austriaco, perchè non risiede soltanto nel Governo, "ma nel paese, nel popolo, nei costumi e nel portamento da parvenu dello spirito nazionale". Benchè preparati ad apprezzare l’efficacia delle idee, i Francesi si sono addormentati per quanto concerne "il moto dell’intelligenza e del genio tedesco": lo ammirano ingenuamente, credendolo immune dall’ambizione "di passare dalle coscienze nelle volontà, dalle volontà agli atti, e di aspirare alla potenza sociale ed alla forza politica". Ma ecco: quelle idee che dovevano restare incorporee "fanno come tutte le altre idee apparse nel mondo, e si sollevano contro di noi con tutto il destino d’una razza, e questa razza si pone sotto la dittatura di un popolo - il prussiano - non già più illuminato, ma più avido, più ardente, più esigente, meglio addestrato agli affari. Essa gli affida le sue ambizioni, i suoi rancori, le sue rapine, le sue astuzie, la sua diplomazia, la sua gloria, la sua forza.... La Germania è dunque intenta oggi a sostituire, come suo agente, la Prussia all’impero d’Austria? Sì: e se sarà lasciata fare, la spingerà lentamente, da tergo, all’assassinio del vecchio regno di Francia".
Scritte nel 1831, queste parole tolsero il riso al Michelet, come confessò egli stesso, "per dieci anni". Al loro paragone, le pagine sull’Arte in Germania, composte l’anno appresso, fanno meno impressione, ma sono anch’esse degne di nota, perchè l’ansia dello scrittore cerca e trova più sottili ma non meno fondate ragioni d’inquietudine nella stessa attività fantastica del popolo nemico. Finora, in Germania, l’arte è stata senza patria; il più grande scrittore tedesco, Volfango Goethe, si è mantenuto superiore a questa come a tutte le altre passioni umane; ma già i buoni cittadini sono sconcertati dalla sua olimpica impassibilità; già i nuovi artisti, nella musica, nella pittura, in poesia, si accostano al popolo, attingono alle tradizioni, celebrano i fasti della razza. Se Uhland è "il Béranger tedesco", Goerres "ha ricevuto la missione di gettare una volta per sempre nell’arena la massa inerte della Germania e di scatenare il mostro": quel Goerres che, per punire l’infedeltà commessa dall’Alsazia nel farsi francese, proponeva di bruciare la cattedrale di Strasburgo eretta nel secolo XV dal genio tedesco, e di lasciare intatta la sola guglia "per l’eterna vendetta dei popoli germanici".
II.
Più il Quinet conosce la Germania nuova, più ne diffida. Nel quinto articolo, composto nel 1836, egli denunzia il dissolvimento dell’antico spiritualismo tedesco, ammonisce la Francia di non rappresentarsi la rivale "come un Eden popolato da poeti, e l’intera nazione come la Bella addormentata nel bosco: immagine vera cinquant’anni addietro, ora non più". La Giovine Germania ha "scoperto" che l’uomo è di carne e d’ossa, e si è quindi mes sa a sciogliere inni al corpo. Ubbriacati dalle lodi che il mondo aveva loro tributate, i Tedeschi hanno preso coscienza di sè, e la febbre dell’orgoglio li ha assaliti. Ma, dopo la prima ebbrezza, si sono guardati attorno: hanno visto che il loro paese è chiuso, in terra, tra la Francia e la Russia, e che l’Inghilterra lo blocca dal mare. "Hanno cercato allora quale grande pensiero portassero in sè per rinnovare il mondo, e hanno trovato la teutomania...." La parola è pronunziata dal Quinet nel 1842, e gli serve per intitolare il nuovo articolo, nel quale l’autolatria, già entrata nel cuore della Germania prima ancora di aver conseguito l’unità politica ed ottenuto il predominio militare, è denunziata con parole gravi. Ma più gravi di tutte, veramente terribili, sono quelle che il polemista scrive dall’esilio, nel 1867, dopo Sadowa.
In questo nuovo studio, intitolato Francia e Germania, egli comincia con l’avvertire che la vittoria prussiana non è soltanto il segno d’una crisi, che è anzi la rivelazione "di un nuovo stato del mondo". L’unità tedesca non può più essere impedita da nessuno, ma essa non si viene conseguendo "con la giustizia e la libertà, bensì con l’ingiustizia e l’arbitrio". I Tedeschi sono ora convinti di aver conquistato il dominio degli spiriti in Europa, "e tengono per fermo che tutto emana da loro: scienza, poesia, arte, filosofia, e che il mondo è divenuto loro discepolo. A cotesta presunta sovranità che cosa manca ancora? La forza. Ecco che se ne sono, ora, impadroniti. Per loro, non c’è soltanto un impero di più nel mondo, è avvenuta senz’altro la sostituzione dell’êra germanica all’êra dei popoli latini, relegati in un piano inferiore". Rivolto al popolo tedesco, lo scrittore francese gli fa osservare: "Fino ad oggi il dispotismo prussiano è stato violento, iniquo, ma non si è data la pena d’esser falso. Si è servito di armi palesi: l’audacia, la temerità, la sfida, senza avvelenarle con la menzogna, e la menzogna è quella che corrompe l’avvenire. Fin qui, dunque, il principio del diritto, della vita morale, può ancora essere restaurato e salvato. Ma badate che il momento decisivo non è ancora giunto. Sarà quello in cui cotesto dispotismo avrà bisogno di travestirsi, di mutar nome e linguaggio, di mettersi la maschera della libertà e della democrazia. Allora tutto minaccerà di falsarsi e snaturarsi. Che faranno quel giorno i Tedeschi? Sarà l’ora dei tranelli. Vogliono essi cadervi? Quando il dispotismo si travestirà da democrazia, la democrazia, sempre compiacente, sposerà il dispotismo? Se mai coteste nozze si celebreranno, dite per sempre addio a quanto avete conosciuto della vita tedesca: probità dell’intelligenza, acume, grandezza dello spirito, genio, gloria; tutto sparirà, tutto naufragherà nella confusione del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto, del vero e del falso": avvenimento inevitabile, perchè già "la democrazia tedesca si è riconciliata con chi la calpestava". Non mancano i liberali, in quel paese, e credono anche d’esser padroni dell’avvenire; ma s’illudono. Non lasciano essi che l’unità della patria si compia con la violenza e le conquiste? Come possono dunque prometter nulla, "dopo la fatalità a cui si rassegnano?". Se questa fatalità dovesse un giorno ripresentarsi, "nulla impedirà che essi vi si rassegnino con più filosofia e più pazienza".
Quando si pensa come i Tedeschi si accordarono nel volere la guerra, sembra propriamente che Edgardo Quinet abbia letto nell’avvenire. Ma non c’è in lui, come non c’è in nessun uomo, la capacità di antivedere il futuro: c’è soltanto, come bene avverte il Gautier, "un senso più intimo delle realtà e delle grandi leggi storiche che si governano". La riprova è questa: che quando lo studioso non tiene conto di tutti i fatti, o quando le leggi sono troppo complesse, le sue previsioni non riescono altrettanto sicure. Fin dal 1842, ad esempio, egli preannunziava l’alleanza franco-russa: "Gli scrittori tedeschi vogliono proprio inimicare i due paesi - Francia e Germania - trascurando di pensare che una sola stretta di mano della Francia e della Russia potrebbe bene, all’occorrenza, stringere oltre misura i fianchi di Teutonia?". Ma il Gautier, ponendo in evidenza l’accortezza di questo giudizio, non avverte che un altro ragionamento porta il Quinet ad una conclusione contraria: "Avete dimenticato che la Russia era con la Prussia e con la grande Germania a Lipsia? Ecco, senza parlare degli interessi comuni, il legame sacro tra loro....". Quando scrive queste parole, lo stesso Quinet ha dimenticato d’aver detto che la gran rivale della Germania è la Russia, perchè - e qui ha indovinato - "i Tedeschi sono fatalmente attratti verso l’Oriente".
Queste ed altre esitazioni e contraddizioni sarebbero tuttavia trascurabili senza quelle che concernono il principale argomento delle indagini e delle inquietudini del pubblicista francese. Il quale, dopo avere denunziato con parole tanto concitate i pericoli dell’autocrazia prussiana inebbriata dalle sue fortune guerresche, scrive che "del resto, fra i Tedeschi, la gloria militare non degenera in superstizione, perchè è dominata dalla gloria dei riformatori, dei poeti, degli artisti". Lutero, Goethe e Schiller, soggiunge, "passeranno sempre prima di Blücher. Lo splendore dell’uniforme, che affascina gli altri popoli, non è la principale magia dall’altra parte del Reno". E allora egli stesso non teme più ciò che lo ha tanto spaventato: "Io posso dunque concepire un impero fondato sul fucile ad ago, e nondimeno incapace di far tutto consistere nel militarismo. Gli resterebbero, a suo dispetto, forze molto diverse da quelle della spada".
III.
La verità è che il Quinet aveva troppo amato la Germania, un tempo, perchè potesse poi odiarla. La detestò certamente quando, tornato dall’esilio alla caduta del Secondo Impero, vide avverarsi la disfatta e la mutilazione della patria che egli aveva predette; ma, prima dello scempio, serbò sempre in cuore qualche cosa della fede nutrita negli anni più belli.
C’è anche nei suoi giudizii un errore, grave di conseguenze: quello di procedere per distinzioni troppo radicali fra popolo e popolo, di assegnare a ciascuno di essi qualità diverse e discordi, e funzioni separate ed opposte. E sapete, fra parentesi, in che cosa consisterebbe la parte dell’Italia? "L’Italia ha per sè la libertà dei costumi, la vita facile, la felicità e l’esaltazione dei sensi, la noncuranza prodotta dall’abitudine delle rovine; ella ha segnatamente al suo servizio l’arte, che dovunque altrove è uno sforzo, ed in lei istituzione divina e naturale". Faremmo torto al nobile scri ttore se ci fermassimo su questa sentenza: non dimentichiamo la simpatia che egli accordò alla causa nostra, nè i rimproveri acerbi che mosse alla Francia di Napoleone III per averci abbandonati a Villafranca, nè l’esortazione che rivolse all’Austria, "di sollevare un momento la pesante zampa distesa sull’Italia". Ma, per tornare in argomento, tanto è ancora il credito da lui accordato alla Germania, che riconosce ai paesi di lingua tedesca "il senso della felicità domestica, le cure della famiglia, la calma dei costumi tradizionali, la vita religiosa, la vocazione per la scienza". L’Inghilterra si distingue per l’industrialismo; l’America del Nord per il culto della libertà; alla Francia resta riservato l’istinto e l’istituto della civiltà: "da due secoli la Francia ha posto il suo destino nel farsi organo dominante della civiltà".
Ora, come non osservare che, precisamente per questa volontà di dominio, riuscita un giorno troppo molesta alle altre nazioni, tutta l’Europa si collegò contro la Francia, e che al "sole di Campoformio" tennero dietro le nebbie della Beresina e le tenebre di Waterloo? Dopo Napoleone I, scrive il Quinet, è divenuto impossibile che, "per la stessa causa", si scateni la "gran guerra, la guerra universale". E qui non cogliamo in fallo il profeta? La guerra universale, oggi, non si è scatenata per la stessa causa, avendo la Francia saviamente deposta l’ ambizione di primeggiare, ma per una causa simile. "Da 15 anni", scrive il Quinet nel 1832, cioè dalla caduta del Primo Impero, "il posto della Francia resta vuoto; da 15 anni la corona della civiltà moderna si trascina con lei nel fango. Chiunque può raccattarla e prenderla a suo talento; non bisogna far altro che chinarsi: chi lo impedisce?...". Lo impedisce, appunto, una coalizione simile a quella formatasi contro l’impero napoleonico, e soltanto più vasta, perchè più forte è il popolo che non ha resistito alla pericolosa tentazione di raccattare quella corona. Il mondo non è più disposto a tollerare che nessuno se la ponga in capo; nessuna benevolenza verso la civiltà dà diritto ad egemonie. Lo stesso Quinet, con un’altra contraddizione che gli fa onore, dopo avere attribuito ad ogni nazione una parte distinta nel gran concerto umano, domanda a sè stesso: "Nel caos di opinioni, di idee, di poesia che si agita in ogni angolo d’Europa, come riconoscere l’elemento che ciascun popolo vi porta? Lo spiritualismo del Nord, il materialismo del Mezzogiorno, l’eguaglianza francese, l’industria inglese tendono a stabilirsi e coesistere ovunque contemporaneamente". Allora, che cosa concludere? Questo: che tra i voti - se non tra le profezie - dello scrittore francese, il più bello, il più degno di avverarsi è che il Reno diventi un giorno "il fiume di alleanza dove si mescoleranno il genio della Francia e della Germania", e che una nuova guerra tra le due nazioni debba considerarsi, come in cuor suo egli già la considera, "guerra civile". Fino ad oggi - oggi più che mai - "il genere umano è stato in guerra con sè stesso". Composti i dissidii, cessata "la solitudine dell’orgoglio", il posto degli uomini sia al focolare "non d’un popolo, ma dell’umanità".
1.° novembre 1917.