Al Polo Australe in velocipede/19. L'ultima goccia di petrolio

19. L'ultima goccia di petrolio

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CAPITOLO XIX.

L’ultima goccia di petrolio.

Quella catena che tagliava la immensa pianura dal sud-est al nord-ovest, seguendo il 73° di latitudine, formava una barriera gigantesca, che pareva insuperabile per gli esploratori polari. Era un accatastamento enorme di monti coperti di neve e di ghiacci che alzavano i loro picchi aguzzi come coni o come piramidi per parecchie migliaia di piedi, divisi gli uni dagli altri da profonde vallate, i cui margini parevano tagliati a picco.

Nel centro, un cono colossale, rivestito di ghiaccio dalla base alla cima, lanciava la sua punta a sette od ottomila piedi d’altezza e le sue vallate, trasformate in ghiacciai, vomitavano nella pianura, con boati continui e con sorde detonazioni, degli ice-bergs del peso di migliaia di tonnellate, i quali scivolavano per lungo tratto, abbattendo sul loro passaggio i ghiacci minori.

— Fin dove si prolungherà questa catena? si chiese Wilkye che gettava sguardi corrucciati su quei monti. Troveremo un passaggio noi o saremo costretti a retrocedere, vinti dagli ostacoli di questa regione maledetta?

— Noi siamo pronti a tentare tutto, dissero i due velocipedisti.

— Lo so, amici, ma non vi nascondo che la nostra situazione sta per diventare critica assai. Eccoci arrestati a mille miglia dal polo, con viveri per tre sole settimane e colla provvista di petrolio quasi esaurita. È bensì vero che ci siamo molto inoltrati in questo continente, ma non basta, quantunque io sia convinto di avere preceduto il mio rivale di parecchi gradi. [p. 177 modifica]

— Altri esploratori, si sono inoltrati più di noi? chiese Peruschi.

— Sì, poichè Weddell ha superato il 74° di latitudine e Giacomo Ross è giunto al 75° 4'.

— Allora bisogna superarli, signore.

— E senza perder tempo, amici. Sono assai inquieto per la nostra situazione ed anche pei compagni che abbiamo lasciati alla costa.

— Cosa temete per loro?

— Che tardando noi a ritornare, s’imbarchino sulla Stella Polare.

— Bisby non ci abbandonerà, signore.

— Lui no, ma gli altri? E poi cosa volete che faccia quell’uomo che non sa far altro che mangiare?

— Ma credete che il signor Linderman ritorni?

— Colla sua nave non s’inoltrerà in questo continente che sembra formare una massa sola. Questa immensa catena di montagne dimostra che queste terre non sono isole raggruppate attorno al polo.

— Lo sapremo presto con maggior sicurezza, disse Blunt.

— Non siamo ancora al polo, amico.

— Ma ci andremo, signor Wilkye, disse Peruschi.

— Ma questi monti?

— Li supereremo, quand’anche dovessimo trasportare sulle nostre spalle il velocipede.

— Sì, signor Wilkye, disse Blunt.

— Grazie, compagni: tentiamo la sorte. Vedo laggiù una vallata che mi pare salga tortuosamente presso quel ghiacciaio e che non mi sembra troppo erta. Forse ci permetterà di raggiungere la cima.

— Tentiamo, signore, dissero i due velocipedisti.

Risalirono sulla macchina e ripresero la corsa verso il [p. 178 modifica] sud-est, in direzione del cono colossale, da loro chiamato monte Bisby, e presso il quale s’apriva la valle notata da Wilkye.

Colà infatti s’apriva come una profonda spaccatura che pareva prodotta da qualche tremenda convulsione vulcanica e saliva verso i piani superiori lambendo due immensi ghiacciai. Il velocipede che procedeva con una velocità di venti miglia all’ora, s’addentrò nella valle che era sparsa qua e là di lastroni di ghiaccio, ma che però aveva dei lunghi tratti che permettevano alla macchina di passare.

Quantunque la pendenza fosse rimarchevole, pure le ruote, dentellate come erano, non scivolavano e procedevano con sufficiente rapidità, trasportando in alto gli esploratori. Ben presto però cominciarono gli ostacoli: i ghiacci senza dubbio scivolati colà dai piani superiori o rovesciati dai vicini ghiacciai, diventavano più numerosi, costringendo Wilkye ed i suoi compagni a discendere per aprire la via al velocipede.

Quelle frequenti fermate facevano perdere un tempo prezioso agli esploratori, i quali vedevano, con grande inquietudine, consumarsi la già tanto scarsa provvista di petrolio ed avvicinarsi quindi il momento in cui sarebbero stati forzati a dividere quel capolavoro della meccanica.

Alla sera non avevano superato che quattro miglia e con infiniti stenti. S’accamparono sui fianchi della montagna, su di una specie di piattaforma che aveva a loro permesso di rizzare la tenda, e dopo una magra cena si addormentarono strettamente avvolti nelle loro pelliccie, essendo lassù il freddo assai pungente.

Tutta la notte però i ghiacciai vicini tuonarono incessantemente, svegliando parecchie volte Wilkye il quale temeva che dall’alto piombassero dei massi di ghiaccio. [p. 179 modifica]

Il mattino seguente riprendevano con lena la salita. Per economizzare il petrolio, avevano spento la macchina spingendo innanzi il velocipede che era più d’impiccio che di utilità su quelle chine, le quali diventavano più ripide e più scabrose.

I loro sforzi però non davano che scarsi risultati. Gli ostacoli crescevano ad ogni passo, la pendenza aumentava, i massi di ghiaccio si accumulavano per ogni dove costringendoli ad aprirsi una via con le scuri ed il freddo diventava così intenso da intirizzirli.

Non fu che verso la sera del 18 dicembre, cioè dopo otto giorni d’incredibili sforzi, che poterono finalmente giungere sulla cima di quella catena, dopo d’aver affrontato cento volte il pericolo di scivolare negli abissi o di farsi schiacciare dai ghiacci che precipitavano dall’alto.

Di lassù, a cinquemila piedi d’altezza, la vista spaziava su un immenso tratto di quella regione del gelo e delle nevi. A destra ed a sinistra si estendevano due immensi ghiacciai, due veri fiumi di ghiaccio in movimento, i quali scintillavano sotto i raggi del sole e che tuonavano sordamente e quasi senza interruzione. Al nord si estendeva la grande pianura che gli esploratori avevano percorsa nei giorni precedenti, e al sud un’altra immensa pianura ondulata, interrotta qua e là da alcuni picchi isolati, imporporati dal sole.

— Laggiù vi è il polo, disse Wilkye, che fissava avidamente quella nuova pianura. Ah! potessi giungervi presto e spiegare ai confini del mondo la bandiera della nostra patria!...

— Domani scenderemo su quella pianura, signore, disse Peruschi. Ho scoperto un passaggio che ci permetterà di effettuare la discesa e senza accendere la macchina. Basterà chiudere i freni e lasciarci scivolare. [p. 180 modifica]

— A domani, disse Wilkye.

Stavano per rizzare la tenda, quando udirono a breve distanza un rauco urlo, che pareva emesso da un animale.

— Avete udito, signor Wilkye? chiese Peruschi.

— Sì, rispose questi, che pareva assai sorpreso.

— Che ci siano delle foche?

— Non è il ruggito d’un leone marino, e poi delle foche qui, fra i monti, a cinquecento miglia dalla costa?

— Gli esploratori che visitarono le sponde di questo continente, hanno mai fatto menzione di animali feroci?

— Mai, ma si sono limitati a visitare solamente le coste. Chi può dire che non ne esistano nell’interno?

Il rauco urlo si fece udire più vicino. Pareva che uscisse da un profondo crepaccio che formava una specie di caverna, addentrantesi nel fianco della vicina montagna.

— Andiamo a vedere, disse Wilkye, armandosi di fucile. Sono curioso di sapere quali animali popolano questo continente.

S’appressarono tutti al crepaccio ma con precauzione, non sapendo ancora con quale avversario avevano da fare; ma percorsi soli pochi passi, videro comparire sette od otto animali che avevano l’aspetto di lupi, senza però aver l’aria feroce di quei carnivori delle regioni boreali. Avevano il pelame eccessivamente folto e lungo, le orecchie corte, le gambe magre ed emettevano dei rauchi urli.

Vedendo i tre esploratori, s’arrestarono sorpresi, non avendo forse mai, prima di allora, veduto degli uomini, poi fecero un brusco voltafaccia e s’allontanarono con grande rapidità, salutati da una triplice scarica che gettò a terra i due più grossi.

— Sono lupi, disse Peruschi, che si era affrettato a raccogliere le prede. [p. 181 modifica]

— A me sembrano invece warrak, disse Wilkye, che li osservava con curiosità.

— Cosa sono questi warrak? chiese Blunt.

— Sono specie di lupi, ma non feroci, che si trovano nelle isole Falkland, rispose Wilkye.

— Li mangiano gl’isolani?

— Sì, e noi faremo altrettanto. Questa carne giunge a proposito per ingrossare le nostre provviste, le quali scemano rapidamente.

— Se ne troveremo degli altri, non li lascieremo fuggire, disse Blunt.

Si ritirarono sotto la tenda, contando di mettersi in marcia per tempo. Infatti alle cinque del mattino cominciarono la discesa, lasciandosi scivolare lungo le valli dell’opposto versante. Quantunque quella discesa fosse facile, impiegarono nondimeno quattro giorni prima di giungere in quella pianura che pareva si prolungasse, senza altre interruzioni, fino al polo.

Il 25 dicembre, riaccesa la macchina, si rimettevano in viaggio verso il sud, con una velocità di trenta miglia all’ora. Bisognava affrettarsi, poichè il sole, dopo d’aver toccato la massima altezza, cominciava a scendere e verso la mezzanotte radeva l’orizzonte settentrionale. Era bensì vero che prima del 21 marzo non doveva tramontare per sei mesi interi, piombando quelle regioni in un’oscurità perfetta, in una notte cupa e paurosa, ma i primi freddi potevano sopraggiungere ben presto.

Ormai lo sgelamento si era arrestato, non essendovi sul continente australe che uno sgelo parziale e mai totale, e quando il sole s’abbassava il freddo aumentava rapidamente, rinsaldando gli immensi campi di ghiaccio. Già il termometro due volte aveva segnato 8° sotto lo zero e quello era un brutto indizio. [p. 182 modifica]

Guai se l’inverno polare avesse sorpreso gli audaci esploratori nella loro ritirata!... Forse nessuno avrebbe potuto raggiungere la costa ed i compagni che li attendevano nella capanna.

Il 27, cioè dopo due giorni di corsa rapidissima, gli esploratori passavano il 78° 9' 30" di latitudine, il punto più inoltrato verso il sud, toccato dai navigatori antartici che li avevano preceduti in quelle regioni. Lo stesso giorno, scorsero, con loro grande sorpresa, una grossa banda di Chloephaga antartiche, che filava rapidamente verso il sud.

Quei volatili che sono grossi come oche, di forme eleganti, colle penne candidissime nei maschi e nere ma listate di bianco nelle femmine, vivono in prossimità delle coste o presso i laghi. Come mai si dirigevano verso il sud, invece di fuggire verso il nord?

— Che al polo australe esista realmente il mare libero come si suppone che vi sia al polo artico? si chiese Wilkye. Ma allora questo continente dovrebbe avere dei canali interni.

— L’hanno mai veduto questo mare libero, gli esploratori antartici? chiese Peruschi.

— Come vi dissi, il baleniere Morrell asserì di aver scoperto un mare libero nel 1820, al 70° 14' di latitudine, ma nessuno ha prestato fede a ciò che lasciò scritto.

— Credete che esista voi?

— No, disse Wilkye, con profonda convinzione.

— Se esistesse, potremmo incontrare la spedizione inglese.

— Non speratelo, Peruschi. Lo sgelamento è mancato quest’anno e la Stella Polare deve trovarsi imprigionata fra i ghiacci.

— Ma quegli uccelli? Perchè si dirigono al sud? [p. 183 modifica]

— Lo sapremo se giungeremo al polo. Affrettiamoci, amici: la provvista di petrolio sta per terminare ed in questa regione, fra un mese, può ricominciare l’inverno.

Risalirono sulla macchina e ripresero la corsa verso il sud, salendo e discendendo le ondulazioni di quella gran pianura.

Il 28, dopo una marcia rapidissima e quasi mai interrotta, giungevano all’84° di latitudine, senza aver incontrata alcuna catena di monti, nè alcun essere vivente. Quella sera il freddo quasi all’improvviso scese a -22°. Durante le due ore che il sole stette nascosto sotto l’orizzonte scese di altri 5°, e sotto la tenda, non più riscaldata dalla macchina per economizzare il petrolio, regnò una temperatura tale che i due velocipedisti, non abituati a quei rigori invernali, penarono assai a dormire e batterono i denti lunghe ore, quantunque Wilkye avesse acceso la piccola lampada ad alcool.

L’indomani il freddo non cessò. I tre esploratori si videro costretti a coprirsi le mani con grossi guanti foderati internamente di pelo ed il viso col cappuccio di pelle d’orso, per evitare la congelazione.

— Siamo in estate e comincia già l’inverno, disse Blunt. Brutto segno, signor Wilkye.

— Lo so, amico mio, e da oggi vi raccomando di non levarvi più i guanti, se non volete perdere le mani.

— Nemmeno di notte?

— Mai, Blunt.

— Sono le mani le prime a soffrire, mentre sono così necessarie?

— La temperatura della pelle non è uguale in tutto il nostro corpo. Le parti più esposte all’influenza dell’aria, come l’estremità del naso, gli orecchi e le dita hanno una temperatura molto più bassa, cioè di soli 24° ed anche 22°. [p. 184 modifica]

— E la temperatura normale sarebbe invece?

— Per gli uomini dai venti ai trent’anni la temperatura della pelle varia fra i 29° 5 e i 32° di Celsio.

— C’è una bella differenza quindi fra quella delle mani e del naso e quella del corpo, disse Peruschi. La parte più calda quale sarebbe invece?

— La pelle di quelle parti del corpo sotto la quale si trovano i muscoli, mentre la più fredda è sempre quella che copre le ossa ed i nervi.

— Aumentando l’età dell’uomo, scema la temperatura della pelle?

— Sì, ed è per ciò che i vecchi amano più la stufa che i giovani. Basta, amici: una tazza di thè bollente e poi ripartiamo colla massima velocità, poichè il petrolio sta per finire.

La macchina era sotto pressione e pareva impaziente di ripartire. Sorseggiarono il thè per riscaldarsi, si calarono i cappucci sul viso per difendersi dall’aria freddissima che soffiava dal sud e si slanciarono attraverso alla interminabile pianura con una velocità di ventotto miglia all’ora.

Se nessun ostacolo veniva ad interrompere quella corsa, e se il petrolio non veniva a mancare, alla sera potevano rizzare le tende a breve distanza dal polo.

Disgraziatamente però la provvista di petrolio spariva rapidamente. A mezzogiorno non ne rimanevano che pochi litri e la macchina diminuiva di pressione.

Furono gettati tutti nel fornello. La macchina, che aveva cominciato a rallentare, riprese la corsa sbuffando e fischiando, salendo e discendendo a precipizio gli avvallamenti del suolo e scuotendo fortemente gli esploratori, che faticavano non poco a mantenersi sui loro sedili.

Ben presto la velocità divenne vertiginosa: filavano [p. 185 modifica]come veri uccelli, come un treno accelerato. Tutte le parti del velocipede fremevano con un lungo tintinnio metallico e pareva che da un istante all’altro dovessero spezzarsi.

Ahimè! erano gli ultimi sforzi! Alle tre pomeridiane la celerità cominciò a rallentare; alle tre e mezza la macchina non sbuffava che stentatamente e alle quattro meno dieci minuti le ruote s’immobilizzavano in un crepaccio del campo di ghiaccio.

Per quella splendida macchina, costruita con tante cure, per quel capolavoro della meccanica, era suonata l’ultima ora. Il Polo Australe l’aveva vinta!.....