L'isola misteriosa/Parte terza/Capitolo X

Parte terza - Capitolo X

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Jules Verne - L'isola misteriosa (1874-1875)
Traduzione dal francese di Anonimo (1890)
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CAPITOLO X.


Harbert trasportato al Palazzo di Granito — Nab racconta l’accaduto — Visita di Cyrus Smith all’altipiano — Ruina e devastazione — I coloni disarmati dinanzi alla malattia — La corteccia del salice — Una febbre mortale — Top latra ancora.

Dei deportati, dei pericoli che minacciavano il Palazzo di Granito, delle rovine di cui l’altipiano era coperto, di nulla più si parlò. Lo stato di Harbert andava innanzi ad ogni cosa. Eragli forse stato funesto il trasporto, cagionando qualche lesione interna?

Il reporter non lo poteva dire, ma tutti erano disperati.

Il carro fu tratto al gomito del rivo. Colà alcuni rami disposti in forma di barella ricevettero i materassi sui quali riposava Harbert svenuto.

Dieci minuti dopo Cyrus Smith, Gedeone Spilette Pencroff erano ai piedi della muraglia, lasciando a Nab la cura di ricondurre il carro sull’altipiano di Lunga Vista. Fu posto in movimento l’ascensore, e poco dopo Harbert era coricato sul suo lettuccio del Palazzo di Granito.

Le cure prodigategli lo richiamarono in vita. Egli sorrise un istante trovandosi nella propria camera, ma a malapena potè mormorare qualche parola, tanto era grande la sua debolezza.

Gedeone Spilett visitò le piaghe. Egli temeva che si fossero riaperte, essendo imperfettamente cicatrizzate.... invece no. [p. 100 modifica]

Da che proveniva dunque quella prostrazione? Perchè lo stato di Harbert aveva peggiorato?

Il giovane fu preso allora da una specie di sonnolenza febbrile, ed il reporter e Pencroff stettero presso al suo letto.

Frattanto Cyrus Smith metteva Nab al fatto di quanto era accaduto al ricinto, e Nab raccontava al padrone gli avvenimenti di cui l’altipiano era stato il teatro.

Era soltanto nella notte precedente che i deportati s’erano fatti vedere sul lembo della foresta, vicino al rivo Glicerina. Nab, che vegliava presso il cortile, non aveva esitato a far fuoco contro uno di quei pirati, il quale stava per attraversare il corso d’acqua; ma in quella notte buja non aveva potuto sapere se avesse o no colpito il miserabile. In ogni modo, ciò non era bastato per allontanare la frotta, e Nab aveva solo avuto il tempo di risalire al Palazzo di Granito, dove, se non altro, si trovò al sicuro.

Ma che fare allora? Come impedire la devastazione di cui i deportati minacciavano l’altipiano?

Nab aveva egli un mezzo per prevenire il suo padrone? E d’altra parte, in quale condizione si trovavano essi medesimi gli ospiti del ricinto?

Cyrus Smith ed i suoi compagni erano partiti l’11 novembre, e si era al 29. Erano dunque diciannove giorni che Nab non aveva avuto altre notizie fuor quelle portategli da Top — ed erano disastrose notizie: Ayrton scomparso, Harbert ferito gravemente, l’ingegnere, il reporter ed il marinajo prigionieri, per così dire, nel ricinto. Che fare? si domandò il povero Nab.

Quanto a lui non aveva nulla a temere, perchè i deportati non lo potevano raggiungere nel Palazzo di Granito, ma gli edificî, le piantagioni, ogni cosa era alla mercè dei pirati. Non conveniva lasciar Cyrus Smith giudice di quanto egli dovesse fare ed avvertirlo almeno del pericolo che lo minacciava? [p. 101 modifica]

Nab ebbe allora il pensiero di adoperare Jup e di confidargli un biglietto. Egli ne conosceva l’estrema intelligenza tante volte messa alla prova. Jup comprendeva la parola ricinto che era stata spesso pronunciata davanti a lui e si ricordava d’avervi condotto il carro in compagnia di Pencroff. Non era ancora apparso il giorno; l’agile scimmia doveva pur sapersi cacciare nei boschi, dei quali, del resto, i deportati dovevano crederla un abitante.

Nab non esitò; scrisse egli il biglietto, lo attaccò al collo di Jup e condusse la scimmia alla porta del Palazzo di Granito, dalla quale lasciò scorrere una lunga corda fino a terra. Poi ripetè più volte queste parole:

— Jup, Jup; ricinto! ricinto!

L’animale comprese, afferrò la corda, si lasciò scivolare fino al greto e sparve nell’ombra senza aver destato l’attenzione dei deportati.

— Hai fatto bene, Nab, rispose Cyrus Smith, ma non avvertendoci avresti forse fatto meglio.

E così parlando, Cyrus Smith pensava ad Harbert, il quale sembrava aver patito tanto pel trasporto.

Nab compì il proprio racconto. I deportati non s’erano fatti vedere sul greto. Non conoscendo gli abitanti dell’isola, potevano supporre che il Palazzo di Granito fosse difeso da un grosso drappello. Dovevano ricordarsi che durante l’attacco del brik molte schioppettate li avevano salutati, tanto dalle roccie inferiori quanto dalle superiori, e, senza dubbio, non volevano cimentarsi; ma l’altipiano di Lunga Vista era aperto e non esposto ai fuochi del Palazzo di Granito. S’abbandonarono al loro istinto, saccheggiando, ardendo, facendo il male per il male, e se n’andarono mezz’ora prima dell’arrivo dei coloni, che dovevano credere ancora confinati nel ricinto.

Nab s’era precipitato fuor del suo ricovero, e salito sull’altipiano a rischio di buscarsi qualche palla, [p. 102 modifica]s’era dato a spegnere — l’incendio che consumava gli edifici del cortile; ma aveva invano lottato contro il fuoco, fino a che il carro era apparso sul lembo del bosco.

Tali erano stati i gravi avvenimenti. La presenza dei deportati era una minaccia permanente per gli abitanti dell’isola Lincoln, per lo innanzi così felici e che potevano aspettarsi maggiori sciagure.

Gedeone Spilett stette al Palazzo di Granito presso ad Harbert ed a Pencroff, mentre Cyrus Smith, accompagnato da Nab, andava a giudicare in persona la gravità del disastro. Egli era lieto che i deportati non si fossero innoltrati fino ai piedi del Palazzo di Granito; chè le officine dei Camini non sarebbero scampate alla devastazione, ma in fin dei conti il danno sarebbe stato meglio rimediabile delle rovine accumulate sull’altipiano di Lunga Vista.

Cyrus Smith e Nab si diressero verso la Grazia e ne risalirono la riva sinistra senza incontrare traccia veruna del passaggio dei deportati, e neppur dall’altra parte del fiume nel fitto del bosco videro alcun indizio sospetto.

Del resto, ecco ciò che si poteva ammettere con tutte le probabilità: O i deportati conoscevano il ritorno dei coloni al Palazzo di Granito, giacchè avevano potuto vederli passare sulla via del ricinto; ovvero, dopo la devastazione dell’altipiano, si erano cacciati nel bosco del Jacamar, seguendo il corso della Grazia, ed ignoravano questo ritorno.

Nel primo caso avevano dovuto dirigersi verso il ricinto, ora indifeso, e che conteneva provviste preziose per essi.

Nel secondo avevano dovuto tornare all’attendamento ed aspettare l’occasione di riprendere l’offensiva.

Vi era dunque mezzo di prevenirli. Ma qualsiasi intrapresa per sbarazzarne l’isola era ancora dipendente dallo stato di Harbert. Infatti Cyrus Smith non [p. 103 modifica]avrebbe di troppo di tutte le sue forze, e nessuno in quel momento poteva lasciare il Palazzo di Granito.

L’ingegnere e Nab giunsero sull’altipiano. Era una desolazione. I campi erano stati calpestati; le spighe della messe imminente giacevano al suolo. Le altre piantagioni non avevano sofferto meno, e l’orticello era sottosopra. Per fortuna, al Palazzo di Granito si avevano provviste di semi che permettevano di riparare i danni.

Quanto al mulino, agli edificî del cortile ed alla stalla degli onaggas, il fuoco aveva distrutto ogni cosa. Alcuni animali spaventati vagavano attraverso l’altipiano. I volatili, che durante l’incendio s’erano rifugiati sull’acqua del lago, tornavano già alle loro consuete abitazioni e diguazzavano sulle rive. Colà tutto era da rifare.

Il volto di Cyrus Smith, più pallido dell’usato, di notava una collera interna che egli tratteneva a stento. Pure l’ingegnere non proferì parola. Guardò un’ultima volta i campi devastati, il fumo che sorgeva ancora dalle rovine, poi tornò al Palazzo di Granito.

I giorni che seguirono furono i più tristi che i coloni avessero passati nell’isola. La debolezza di Harbert cresceva a vista d’occhio. Sembrava che un’altra malattia, conseguenza del profondo turbamento fisiologico che aveva subíto, minacciasse di dichiararsi, e Gedeone Spilett temeva un peggioramento che egli si sentiva impotente a combattere. Infatti Harbert stava in una specie di sopore quasi continuo, e cominciarono a manifestarsi alcuni sintomi di delirio. Tisane rinfrescanti — ecco il solo rimedio che fosse a disposizione dei coloni. La febbre non era ancora violenta, ma presto parve volesse manifestarsi con accessi regolari.

Gedeone Spilett se ne avvide il 6 dicembre. Il povero fanciullo, cui si erano fatti pallidissimi il naso, le dita e le orecchie, fu prima colto da tremiti. Il [p. 104 modifica]suo polso era irregolare, la sua pelle asciutta, intensa la sua sete. A questo periodo ne succedette in breve un altro di calore; gli si animò il viso, gli si arrossò la pelle, i polsi gli si accelerarono; poi apparve un sudore copioso, in seguito al quale la febbre sembro scemare. L’accesso aveva durato cinque ore circa.

Gedeone Spilett non aveva lasciato Harbert, il quale era preso da febbre intermittente; non v’era dubbio, febbre che bisognava ad ogni costo troncare prima che divenisse più grave.

— E per troncarla occorre un febbrifugo.

— Un febbrifugo? rispose l’ingegnere; non abbiamo nè quinquina, nè solfato di chinino.

— È vero, disse Gedeone Spilett, ma vi sono dei salici sulle sponde del lago, e la corteccia dei salici può sostituire talvolta il chinino.

— Proviamo dunque senza perder tempo.

Infatti la corteccia del salice è considerata come un succedaneo della quinquina, e così pure il castano d’India, l’agrifoglio, la serpentaria, ecc.

Bisognava evidentemente esperimentare questa SOstanza, quantunque non valesse la quinquina, ed adoperarla allo stato naturale, perchè mancavano i mezzi per estrarne l’alcaloide, vale a dire la salicina.

Cyrus Smith andò egli medesimo a recidere sul tronco d’una specie di salice nero alcune corteccie, le portò al Palazzo di Granito, e le ridusse in polvere, che fu somministrata la sera medesima ad Harbert.

Passò la notte senza gravi accidenti. Harbert Ebbe un po’ di delirio, ma la febbre non riapparve nella notte e nemmeno il giorno dopo.

Tornò la speranza a Pencroff. Gedeone Spilett non diceva nulla. Poteva darsi che le intermittenze non fossero quotidiane, vale a dire che la febbre fosse terzana e tornasse al domani, e perciò il nuovo giorno fu aspettato colla massima ansietà.

Si poteva notare, d’altra parte, che durante il pe[p. 105 modifica]riodo epiressico, Harbert rimaneva come affranto, colla testa greve e stordita. Altro sintomo che spaventò il reporter; al fegato di Harbert cominciava un po’ di congestione, nè andò molto che un delirio più intenso accennò la congestione anche al cervello.

Atterrito dalle nuove complicazioni, Gedeone Spilett trasse in disparte l’ingegnere e gli disse:

— È una febbre perniciosa.

— Una febbre perniciosa? V’ingannate, Spilett; una febbre perniciosa non si manifesta spontaneamente, bisogna averne ricevuto il germe....

— Non m’inganno. Harbert ne avrà senza dubbio contratto il germe nei pantani dell’isola, e ciò basta. Ha già provato un primo accesso; se ne sopravviene un altro, e se non possiamo impedire il terzo, egli è perduto.

— Ma la corteccia di salice?

— È impotente, ed un terzo accesso di febbre perniciosa, che solo si tronca col chinino, è sempre mortale.

Fortunatamente, Pencroff non aveva inteso questa conversazione, altrimenti sarebbe impazzito.

Si comprende in quali inquietudini passaggero, l’ingegnere ed il reporter, la notte del 7 dicembre.

Verso il mezzodì avvenne il secondo accesso; la crisi fu terribile. Harbert si sentiva perduto! Tendeva le braccia verso Cyrus Smith, verso Spilett, verso Pencroff; non voleva morire: quella scena era straziante e bisognò allontanare Pencroff.

L’accesso durò cinque ore. Era evidente che Harbert non ne avrebbe sopportato un terzo.

La notte fu terribile. Nel suo delirio, l’infermo diceva cose che straziavano il cuor dei compagni. Divagava, lottava contro i deportati, chiamava Ayrton, supplicava quel misterioso protettore, ora scomparso, e la cui immagine lo assediava... poi ricadeva in un profondo torpore. Più d’una volta Gedeone Spilett credette chè il povero giovine fosse morto. [p. 106 modifica]

Il domani, 8 dicembre, non fu che una successione di debolezze. Le mani dimagrate di Harbert si con traevano afferrando le lenzuola. Gli erano state amministrate nuove dosi di corteccia di salice pesta, ma il reporter non ne aspettava alcun frutto.

– Se prima di domani mattina non gli abbiam dato un febbrifugo più forte, Harbert sarà morto!

Giunse la notte – l’ultima certamente di quel fanciullo coraggioso, buono, intelligente, così superiore all’età sua e da tutti amato come figlio. Il solo rimedio che esistesse contro la terribile febbre perniciosa, il solo specifico che potesse domarla non si trovava nell’isola Lincoln!

Nella notte dal 9 al 10 dicembre Harbert fu colto da un delirio più intenso; la congestione del suo fegato era orribile, il suo cervello era così intaccato che gli era impossibile riconoscere chicchessia. Doveva egli vivere fino al domani, fino al terzo accesso, che certamente l’avrebbe ucciso? Non era cosa probabile. Le sue forze erano esauste, e nell’intervallo della crisi il povero infermo sembrava esanime.

Verso le tre del mattino, Harbert mandò un grido spaventoso e parve che si contorcesse in una suprema convulsione. Nab, che gli stava al fianco, si precipito, spaventato, nella camera vicina, dove vegliavano i suoi compagni.

In quel mentre, Top latrò in modo strano.

Rientrarono subito e riuscirono a tener fermo il morente, che voleva gettarsi fuori del letto, mentre Gedeone Spilett, pigliandogli il braccio, sentiva il polso tornare a poco a poco....

Erano le cinque del mattino; i raggi del sole nascente cominciavano ad entrare nel Palazzo di Granito. S’annunciava una bella giornata, l’ultima del povero Harbert?... Un raggio giunse fino alla tavola che era presso al letto. [p. 107 modifica]

D’improvviso, Pencroff, mandando un grido, mostrò un oggetto sulla tavola....

Era una scatoletta bislunga, sul cui coperchio stava scritto:

Solfato di chinino.