Il secolo che muore/Capitolo XXI

Capitolo XXI

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Capitolo XXI.

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Se madre natura possedesse croci dei santi Maurizio e Lazzaro, ed anco della Corona d’Italia, a straziare, capisco anch’io ch’ella potrebbe avere i suoi adulatori, ma poichè croci non ha e collari nè meno, non arrivo a capacitarmi come uomo si periti a contarle le sue ragioni in faccia, ond’io, che libero sono e mi vanto, le dico aperto ch’ella ebbe torto marcio quando fabbricò il caccao a non farlo tutto di Sconusco, a quello di Caracca superiore assai, il caffè tutto di Moka, o alla più trista di Portorico; il the, o il tchà1 tutto pekò a coda bianca — e [p. 100 modifica] l’amore tutto pari a quello che il Canova effigiò abbracciato alla divina Psiche, e sorreggente per le ale sopra la palma di questa l’angelica farfalla dell’anima. Ma ahimè! e’ ci hanno più qualità di amori che di frati; taluno dolce così, che di petto a lui il mele ibleo morirebbe di vergogna; tale altro, al contrario, disgrada in amarezza l’assa fetida, con la quale mi dicono che il diavolo inzucchera la ricotta giù nello inferno.

Ma dolce sia l’amore od amaro, l’uomo l’adopera come vela buona ad ogni vento su questo mare che si chiama vita. La signora Giorgio Sand, che per teorica, e mi assicurano anche per pratica, intende di amore quanto la bella di Magdala e santa Teresa, dichiara l’amore comporre per la donna il poema intero della sua esistenza; per l’uomo un episodio soltanto. Non senza trepidazione io mi conduco a contradire tale e tanta teologhessa nella scienza amorosa, ma per me credo che lo stame, onde la Parca compone la vita delle creature, così maschi come femmine, ella intrecci di un filo di dolore e di un filo di amore; di tratto in tratto lo sbrizzola anche di un filo di piacere, perchè gli avventori non si sdegnino e sviino dalla bottega.

Ecco come sta la cosa. La donna pensa all’amore più dell’uomo, anzi assidua, come quella che può molte faccende operare senza il concorso della mente: a mo’ di esempio, la calza; all’opposto i negozi [p. 101 modifica] dell’uomo lo vogliono tutto lì, gli assorbono il cervello senza lasciargliene libero un briciolo; ma intanto ch’egli, medico, scruta col polso in mano il mistero della infermità, o avvocato intende ad accecare con parole la giustizia, o prosseneta a mettere in corpo al mercante per via di panzane una partita di meliga avariata, ecco un alito di vento gli porta un vagito lontano di pargolo, un arpeggio di chitarra, forse anco una sfumatura di odore del fazzoletto che la signora marchesa ha cavato faori per soffiarsi il naso, e la sua mente, rapita via dal polso, dal tribunale e dal granturco, errare pei dominii sterminati dell’Amore.

Però io vi ammonisco, le nuove vicende che sto per esporre davanti a voi si aggireranno sempre intorno all’Amore, pari ai satelliti del sole, che immoto in mezzo a loro li veste tutti della sua luce. Da molto, forse da troppo tempo ho messo da parte Eufrosina, Curio e Filippo, però non crediate mica ch’io me ne sia dimenticato, anzi si volgeva il mio cuore verso cotesto care creature, quantunque volte mi stringeva il bisogno di ricrearmi delle brutte cose e delle bruttissime persone che pullulavano sotto i miei piedi, nella corsa che ho impreso traverso questa società morta e corrotta, e che pure veruno si attenta a seppellire. Andiamo pertanto a trovarli colà dove li abbiamo lasciati. Curio e Filippo giacciono gravemente feriti allo spedale di ***, ed [p. 102 modifica] Eufrosina sta in mezzo a loro, ma non tutta per loro a mo’ di una sorgente blanda e continua di consolazione; ella infermiera, ella segretaria, ella lettrice di lettere segrete a tutti gl’infermi che o non potevano o non sapevano, ed ella del pari scrittrice a parenti, a spose e alle più dolci amanti; chè a lei non premeva nulla di che gente fossero e neppure di quali costumi; le bastava persuadersi ch’ella avrebbe coi suo scritto consolato un’anima in pena, onde accettasse ogni più dura fatica; scrivendo senza posare mai da un giorno all’altro, ella sarebbe morta di vigilia e d’inedia, martire della penna. Non abbiamo letto ai giorni nostri di un sonatore, venuto a gara di suono, morire per eccesso di fatica? perchè non poteva Eufrosina consacrarsi vittima allo scritto? E bada che il musicante accettava il duello armonico per causa di lucro, mentre ella durava la immane fatica per senso di pietà. Se ai miseri infermi fosse stata imposta la scelta tra non vedere l’aurora o la faccia di Eufrosina, io per me credo avrebbero renunziato all’aurora. Davvero ella non pareva cosa mortale, imperciocchè la si trovasse lì appunto da per tutto; onde talora pensavano che fosse uno spirito diffuso dintorno nell’aria; se lo spasimo strappava ad un sofferente un sospiro, egli non l’aveva ancora compito che si sentiva refrigerato con le parole: — Fratello, che hai? — E subito dopo ella gli rinfrescava la fronte, o gli [p. 103 modifica] inumidiva le labbra inaridite; se altri gli toccava le piaghe strillava, al tatto di lei o non provava dolore, o si peritava di manifestarlo. Se i fiori tramandano soavità di profumo, perchè i cuori pietosi non potrebbero spandere un senso di sollievo? Ed Eufrosina spesso veniva dicendo che, se si fosse trovata nei piedi della Madre di Dio quando composero le litanie in onore suo, ella avrebbe dato indietro tutti i titoli, massime quelli di torre di avorio e di porta d’oro, e tenutosi unicamente quello di consolatrice degli afflitti.

E dirò altresì cosa che parrà a molti incredibile, e non pertanto vera. Ciò che preservava la bellissima vergine da ogni affetto, non dirò impuro, ma terreno, era appunto la qualità che doveva contribuire meglio ad accenderlo, intendo la sua trasumana bellezza; imperciocchè accostandosi ella alle forme che il Beato Angelico effigiò negli angioli, la riverivano e amavano come creatura eletta di Dio. Nella medesima maniera che gli occhi nostri fissandosi nella soverchia luce smarriscono la vista, così, contemplando la suprema bellezza della donna, nell’uomo tace il materiale appetito.

A questo modo i nostri amici sopportavano assai pazientemente la loro miseria, perchè consolata dallo scambievole amore, quando un dì furono visti dalla porta dello spedale prorompere dentro la infermeria quattro uomini armati in sembianza di T, preceduti [p. 104 modifica] da un altro infagottato con abiti borghesi. — Giandarmi i primi, ai littori antichi pari in ferocia; in ciò diversi, che quanto i littori terribili, i giandarmi appaiono ridicoli, e sono; di fatti i littori si presentavano ricinti di pelli di lione, con in mano il fascio delle verghe e la scure nel mezzo, i giandarmi con la lucerna senza olio a traverso il capo e la squarcina allato fanno ad un punto soffrire e ridere. Chi li guidava apparteneva alla famiglia degli sbirri pennaioll; una maniera di gingillino mal cotto destinato ad arrampicarsi terra terra come la porcellana; costui non potendo avere altro di onesto, se ne pigliò il vestito. Gl’infermi, al comparire di cotesta brutta figura, tacquero come le passere quando il falco alla intorno all’albero su cui stanno appollaiate; imperciocchè presagissero danno per taluno di loro; nè a torto, che in nocere proviamo gli uomini più tristi dei gatti, ai quali la natura concesse facoltà di tirare in dentro gli ugnoli e accarezzarti senza sgraffiarti, mentre gli uomini così detti di polizia, se ti toccano è forza che ti sgraffino, e se ti baciano bisogna che ti mordano.

Fermaronsi tutti intorno al letto di Curio, in un attimo lo circondarono e lo frugarono nelle parti più. riposte; fino sotto al capezzale, dove l’infermo posava la testa, parte sostanzialissima e per avventura più innocente del loro mestiere: essi vollero assicurarsi che Curio non aveva armi. Di tanto [p. 105 modifica] accertato lo sbirro pennaiolo, con voce stridula incominciava:

— Siete voi Curio Onesti?

— Sono.

— Di Milano?

— Di Milano.

— Figlio del fu Marcello e della vivente Isabella Onesti?

— Giusto come dite.

— Allora in nome della legge io v’intimo l’arresto.

— Oh! e’ ci era mestieri quattro giandarmi? Prima che io mi possa movere ci sarà che ire; ma, di grazia, mi sarebbe concesso sapere di qual colpa io sono reo?

— Magari! Per diserzione alla milizia.

Curio diede uno scossone, per cui andatagli scomposta la fasciatura della gambe gli parve vedere le stelle a mezzogiorno: non però cessando la consueta baldanza, tra gli spasimi strepitava:

— E quale è il furfante che si attenta sostenerlo? Disertore è colui che per viltà scappando, ovvero rimpiattandosi abbandona la bandiera alla quale egli è ascritto, ed io mi trovo allo spedale ferito così, che forse non mi potrò più riavere, mirate... e qui stracciavasi con furia la camiciuola sul petto... non vi paio un crivello io? Ho combattuto tutte le patrie battaglie; accorsi a tutte volontario. Quale è [p. 106 modifica] il campo italiano che non bevve del mio sangue? Qual rupe del Tirolo non ha un brindello della mia carne?

— E chi ve l’ ba chiesto?

— Chi? La patria.

— La patria non è il re.

— Come non è il re! non si dice e non si stampa essere il bene della patria inseparabile da quello del re?

— Già, fu detto, scritto e stampato; ma, caro voi, o che bisogno ci è che tutto quello si dice, si scrive, si stampa sia vero? Finche il bene della patria mette capo a quello del re, le cose camminano d’amore e d’accordo, quando poi si dispaiono allora il monarca inghiottisce la patria.

— E fosse così; o non fummo noi incamminati verso il Tirolo in virtù di ordini regi? non fu bandito ai quattro venti che doveva stendere colà il suo più forte braccio l’Italia?

— Già, perchè i cerusichi austriaci l’agguantassero, e punta la vena ne traessero in copia il sangue guasto.

— O come, non è dunque più vero che ci assicuravano avremmo contribuito grandemente alla vittoria, se da cotesto lato avessimo percosso il nemico?

— Gua’! Bisognava pure darvi ad intendere qualche cosa; — ma il fatto sta che voi ci entraste come [p. 107 modifica] il prezzemolo nelle polpette. Quello che volevamo acquistare lo avevamo in tasca senza il vostro soccorso.

— L’aveste per elemosina; vi fu messo nel bussolo come il soldo al cieco.

— Ma che bussolo o non bussolo, abbiamo fatto l’Italia; l’Italia è fatta in grazia del nostro saper fare.

— Eravate tremanti, non già sapienti, quando, travolti dal terrore nei passi amari della fuga, supplicavate: Irreparabile sventura! Dietro a Brescia; per amore di Dio, coprite la ritirata!

— Cotesto erano finte di cartoccio per levarvi dal Tirolo, dove ci avreste rotto le uova nel paniere. Ci avevano dato la musica in mano, che dichiarava così: se volete vincere perdete.

— Lusso d’ipocrisia! Perfidia sciupata! Non ci provaste sempre docili ai vostri comandi? Forse anche allora non vi fu risposto: obbedisco, alla quale parola voi batteste le mani e la proclamaste magnanima?

— A voce alta, ma a bassa la chiamammo asinaggine; e poi, che poteva egli fare il vostro Giuda Maccabeo? Siena per forza.

— E allora perchè abbindolarci?

— Grua’! per cautela.

— Va bene; ma intanto io non so di tante diavolerie; andai con Garibaldi, perchè dal governo [p. 108 modifica] moveva la chiamata; mi parve che fosse lo stesso combattere il nemico in un luogo piuttostochè in un altro; anzi stimai fosse merito accorrere nel luogo più pericoloso. E come disertai dalla bandiera del re se mi condussi a militare sotto la bandiera del re? Voi mi dite che il re non è la patria quando gl’interessi di quello vanno disgiunti dagl’interessi di questo, ma fin qui, per quanto io sappia, non si separarono.

— Noe, noe; voi mi date in ciampanelle; voi avete definito male il disertore; a noi non rileva la cagione onde mancaste ridurvi al corpo assegnato: voi foste rinvenuto buono dal consiglio di leva ed assentato a tenore del regolamento.2 Vi presentaste o no al reggimento a cui vi avevano ascritto? No; dunque la diserzione è flagrante, imperciocchè, ficcatevelo bene in testa, soldato vero è colui il quale entra a servire nelle milizie regolari del re nei modi prescritti dal regolamento; i volontari non contano; al contrario, si hanno in sospetto, come quelli che furono, o sono, o diventeranno ribelli. Il soldato vero, una volta ascritto alla bandiera del re, deve consegnare la sua anima al suo superiore, come la veste da borghese al custode del [p. 109 modifica] magazzino; ripiglierà, se vuole, l’una cosa e l’altra quando cesserà la milizia.

— In una parola, gesuiti armati.

— Precisamente.

Curio, per non dare di fuori, morse la coperta, ma persuadendosi poi che con quel ceffo di ferro male limato non ci era da cavarne costrutto, appena si sentì alquanto sboglientito riprese a parlare:

— Ebbene, ci siamo intesi; io qui rimango per conto vostro, e voi potete vivere sicuro che mi ci ritroverete di certo: potete andare.

— Ma io non vi posso lasciare; lo vieta il regolamento; voi dovete venir meco allo spedale militare.

— Io vorrei sapere un po’ come abbia a fare per tenervi dietro?

Mentre così favellava, ecco fa vista entrare nello spedale una lettiga munita di coperchio chiuso da incerato verde portata da quattro uomini, i quali, fattisi presso all’infermo, la depositarono giù a piè del letto; poi senza perdere tempo si ammannivano a sollevare l’infermo per tramutarlo, con quel maggior garbo che per loro si fosse potuto, nella bara, quando Eufrosina, stesa la mano, trattenne quello ch’era più presso a lei: non tremava ella, non piangeva; suono di minaccia non si udiva nella sua voce, e tuttavia metteva paura, imperciocchè sopra le sembianze deformi distingui male l’amore o l’odio, [p. 110 modifica] mentre l’odio si rivela in tutta la sua terribile potenza sul volto della bellezza; — solo ella domandò:

— E’ mi sarà vietato assisterlo allo spedale? Avvertite, che siamo promessi sposi.

— Osta il regolamento.

— Non mi negherete almeno di accompagnarlo allo spedale?

— Osta il regolamento.

— Di venirlo di tratto in tratto a visitare?

— Osta il regolamento.

— Ma ch’è mai questo regolamento?

— Il regolamento! esclamò l’uomo dalla faccia di ferro; e dopo alcuna esitanza riprese: il regolamento è il regolamento.

— Io sono chi sono, giusto come il Dio degli ebrei rispose a Moisè, brontolò una voce sotterranea, la quale lì per lì non si conobbe da che parte movesse, e la pronunziava Filippo, che da parecchio tempo, non si potendo più reggere, aveva cacciato il capo sotto le lenzuola. Gli astanti non lo avvertirono, però che Curio, gittato giù l’argine della pazienza, proruppe:

— Se mai al tuo intelletto crescessero l’ale, il regolamento ti farà da forbice, onde tu di aquila ridiventi oca, perchè il regolamento fu composto da oche, e le oche solo considera; se il tuo cuore moltiplicasse i suoi palpiti, il regolamento gli [p. 111 modifica] metterà il tempo addietro, perchè il cuore deve regolarsi col pendolo del regolamento; se il regolamento si porrà di mezzo tra la mano di tuo padre moribondo e te, il padre morrà con la mano levata palpando il vuoto, e tu inaridirai nella sete della benedizione paterna; il regolamento va dintorno a calafatare le orecchie umane, affinchè non le ferisca grido, di madre che domanda aita, nè di figli che implorano pane, nè di quarantamila donne supplicanti la vita di un garzone ventenne. Il regolamento ti concia l’uomo a cero pasquale; di sopra spento, di sotto assicurato con uno spunzone; in mezzo trafitto da cinque ferite. Vuoi tu sapere regolamento che sia? Te lo dirò io; stammi a udire. Il regolamento è Polifemo cieco, che brancola tastando i suoi montoni per agguantarli e divorarseli vivi, senza pure sputare pelle nè ossa,

— Lo avete accomodato nelle regole...?

— Sì signore.

— Su dunque, da bravi, recatevelo in ispalla di un tratto; marche!

I quattro giandarmi si ordinarono a dietroguardia, intantochè gli altri quattro soldati s’incamminarono col cataletto verso la porta: l’uomo del regolamento disparve.

Lunga e dolorosa la infermità di Curio, pure si riebbe in grazia della sua stupenda complessione; appena entrato in convalescenza lo mandarono a [p. 112 modifica] Genova, nell’ospedale stabilito dentro il convento di San Francesco di Paola, perchè colà, col benefìzio dell’aere marino e le cure delle pie suore di carità, recuperasse intera la prima salute. La intenzione pareva eccellente, ed era, come quella che si partiva da medici umani, ma il fine mirava a rendere in breve capace il povero Curio a sostenere il giudizio davanti al Consiglio di guerra. Chi avrebbe ravvisato in quella larva di uomo zoppicante lo splendido Curio? Lo intelletto è quasi un arco nella mano potente della volontà; se questa langue, lo intelletto inerte non balestra pensieri; Curio si sentiva il cervello peso come una pietra dentro al cranio; teneva continuo gli occhi chiusi, forse nel concetto stesso di Cosimo il Vecchio dei Medici, che interrogato perchè così costumasse, rispose: — Io lo faccio per avvezzarli a morire! — Sovente inoltrandosi nell’ombra stette a un pelo di passare il confino della ragione per mettere il piede nei dominii della demenza; facile trapasso, però che buio fitto ingombri il limite estremo, dove la ragione cessa e la demenza comincia; e gli fa ventura che gli comparissero ad ora ad ora davanti tre angeliche sembianze, quella di Eufrosina prima, seconda la madre, ultima Filippo, le quali sorridendo lo respingevano indietro spruzzandolo di speranza. Allorchè gli accadde aprire gli occhi, gli parve vedere e vide certo uno stormo di gabbiani che gli aliavano intorno al [p. 113 modifica] letto, come intorno le patrie costiere quando il mare si mette alla burrasca. Appena trasse un sospiro, ecco staccarsi dallo stormo uno di cotesti uccellacci, che agitando un paio di ale bianche dalle parti laterali del capo a lui si avvicinò; allora si accorse che gabbiano non era, bensi una di quelle creature che per buttare le mani innanzi si chiamano suore di carità. A chiamarle donne noi offenderemmo le nostre madri. La suora di carità che volò con l’ale tese verso Curio era giovane, di capello sauro, come la più parte delle cavalle maremmane e delle femmine francesi, bianca nella faccia, ma di un bianco spiacente, come sarebbe a dire di calcina lattata,3 nel sommo delle gote pareva ci avesse impastato un ranuncolo; gli occhi tondi, neri, quali tu miri nelle pollanche: e perchè io stringa la mia immagine in poche parole, la si sarebbe potuta mandare per modello agli scultori di Norimberga, disperati fabbricanti di puppatole. Il gabbiano... [p. 114 modifica] voleva dire la suora di carità, venuta a canto a letto di Curio, in suono di mìiserere prese a dirgli:

— Mon cher frère en Jésus-Christ...

Curio ebbe a ruzzolare da letto, sentendo egli italiano in terra italiana favellarsi in lingua francese, là dove egli credeva avere a trovare donne italiane; peggio poi quando la suora di carità gli prese le mani e gliele strinse fra le sue: egli sentì un diaccio come di pancia di tarantola toccargli il cuore, e n’ebbe a un punto paura e ribrezzo. La suora continuò il suo sermone a mo’ di sonatina imparata a mente, applicabile a tutti come gli oremus e i serviziali, concludendo col conforto di rimettersi in mano di Dio e della Provvidenza; imperciocchè parecchi distinguano Dio dalla Provvidenza, e li rammentino come se fossero marito e moglie. Intanto tornava a rifiorire la rosa sopra la bella faccia di Curio, e gli occhi suoi assorbivano copia di luce che riverberavano più intensa, dalle aperte nari aspirava a lunghi tratti l’aria di primavera; ti sarebbe parso Apollo di Belvedere, che col capo alquanto piegato, pieno di baldanza e di vigore, mira il serpente trafitto dallo strale infallibile. E gli occhi della suora, che, comunque stupidi, per accendersi come fiammiferi non aspettavano altro che essere stropicciati, agli occhi di Curio accendendosi a un tratto, presero a corruscare; le mani di lei strinsero più forte le mani del giovane; un tremito le si diffuse [p. 115 modifica] per tutta la persona; calido le diventò l’alito... la temperatura del bacio; le labbra della suora volendo susurrare non so che parole nelle orecchie del giovane, sbagliarono strada e si fermarono sopra la sua guancia. Curio allora interrogò se stesso:

— Ma che questo gabbiano voglia ministrarmi il suo amore come un purgante?

E ficcatole gli occhi addosso, fu subito chiarito di che si trattasse; e fra sè disse: chi non vuol vendere vino levi la frasca. Per la qual cosa, licenziata la suora con le più accorte maniere che per lui si seppero, chiamò a se il confessore, a cui sotto sigillo di confessione confidava essere preso di amore per la bella infermiera, e forse non presumere troppo di sè giudicando che ella di pari amore fosse rimasta punta. — Il confessore si morse le labbra, si fece inviso color di bargigli, e nelle escandescenze in cui ruppe diede a divedere che allo zelo del prete si mescolasse, oltre al dovere, concupiscenza dell’uomo cavallino; pure si tenne; anzi lodò il giovane della sua prudenza: ma da quel punto in poi la suora non si vide più; la surrogava una suora vecchia, di cui la faccia pareva plasticata nel sapone di Susa: il vaiolo si era preso il gusto di scavarci una moltitudine di cavità, dove la morte e il peccato giocavano alla buchetta.4 [p. 116 modifica]

Come a Dio piacque, Cario tornò più vispo di prima; ma per saltare dalla padella nel fuoco; imperciocchè avesse a comparire dinanzi al Consiglio di guerra. Indicarongli, ed egli accettò, difensore un uffiziale, a cui per ventura il regolamento non avea ancora mummificato il cuore; il quale udendo come egli intendesse addurre per discolpa avere seguito la fortuna di Garibaldi, come quello che egli giudicava meglio adatto per condurre alla vittoria la gioventù italiana, levò di schianto ambe le braccia al cielo ed esclamò:

— Dio ve ne guardi! Il Consiglio vi crescerebbe di due gradi la pena; lasciate dire a me; se vi poteste atteggiare ad imbecille, beato voi! la migliore accompagnatura che uomo possa avere nel cammino della milizia è la stupidità; con questa al fianco voi potete vincere il palio anche correndo col generale Lamarmora: ed abbiatelo per inteso.

Il difensore officioso mise innanzi ai giudici certe sue gretole, che erano tanti bruscoli negli occhi al [p. 117 modifica] senso comune, e parvero abboccarsi dal Consiglio: aggiunse poi, per far breccia, che Curio intanto si mise dietro al Garibaldi, inquantochè il re con regio decreto lo aveva eletto a suo generale; seguito la bandiera di lui perchè onorata dello scudo di Savoia: nè avere creduto mancare, se trovandosi di faccia al nemico prendeva senza perdere tempo a menare virtuosamente le mani contro di lui. — Certo, e lo abbiamo avvertito, la sventura aveva annacquato il sangue di Curio, non tanto però che, punto sul vivo, non isprizzasse quanto prima veemente; onde sorse su a dire: che non avrebbe mai per viltà rinnegato il suo degno capitano, l’unico che avesse saputo condurre alla vittoria la gioventù italiana; non avere veduto nè considerato lo scudo di Savoia, perchè nascosto nelle pieghe della bandiera italiana...

Tutti i componenti il Consiglio proruppero in un oh! lungo e roco; il presidente fischiando il più puro dei dialetti piemontesi urlò:

Countacc! S’ha sentire anco questa, che lo scudo di Savoia sia entrato nella bandiera italiana come il baco nella pera per rosicarne il torsolo?

Curio, che aveva avuto il tempo di calmarsi, vide il marrone che aveva commesso e tacque; le sue parole gli tornarono indietro di rimbalzo formulate in condanna del massimo della pena assegnata dall’articolo 131 del codice penale sardo, vale a diro tre anni di reclusione militare. [p. 118 modifica]

Mentre riconducevano Curio trasecolato in prigione, l’ufficiale difensore gli si chinò all’orecchio susurrandovi queste parole:

— Voi vi potete vantare di essere nato vestito; — e siccome l’altro accennava a rimbeccare, l’uffiziale si affrettò ad aggiungere: zitto!

Vuoisi così colà dove si puote
Ciò che si vuole, e più non domandare.

Così il nostro Curio era condotto in prigione. Io per me credo fermamente che i re, per vendetta della monarchia offesa da Dio quando egli converti Nabuccodonosor in bestia, s’industrino, quante volte lo possano, mutare gli uomini in bestie: fra i tanti mezzi che a tale scopo essi possiedono, capitalissimo ha da giudicarsi il carcere, massime militare, dove il cibo malsano, l’aere tristo, le asperità, la solitudine e i lavori animaleschi operano sì, che la vita del carcerato se ne va in raschiatura sotto la lima della necessità. Lo imperatore Francesco di Austria, che fu quel gran maestro che tutto il mondo sa nell’arte d’imbestiare la creatura di Dio, condannò i nobili cattivi dello Spielberg a fare la calza.

Io non condurrò il mio lettore al finestrino della carcere, donde mostrargli come viva e come operi il prigioniero, lasciato solo con la sua solitudine; lo ha di già fatto lo Sterne, e in guisa da sgomentare qualunque altro volesse ritentarne la prova; il carcerato dello Sterne alla fine di ogni giorno [p. 119 modifica] tagliava una tacca in un regolo; al mio la disperazione risparmiava la fatica, facendogliela ella stessa nel cuore. Anco il suo cranio si mutava in prigione, imperciocchè ogni dì più si stringesse tanto da poter presagire che avrebbe in breve soffocato l’intelletto: cessata la milizia, è proprio inutile che il soldato vada a riscotere l’V anima dal magazzino dov’ei la depositò; tanto non saprebbe più dove metterla. Curio, per mantenere più che potesse acceso il lume della ragione, chiese qualche libro a leggere; da prima non gli risposero nè manco, poi glielo rifiutarono, all’ultimo glielo concessero. Sapete voi qual libro? Ve lo do a indovinare su mille. La legge della leva del 20 marzo 1854 e il codice penale sardo del 1° ottobre 1859. Trovandosi in questo modo Curio costretto ad esercitare il suo ingegno sopra materia tanto infelice, operò come la valentissima non meno che sfortunata donna di Properzia de’ Rossi, che sopra un nocciolo di pesca condusse in iscoltura tutta la passione di Gesù Cristo, con tale e tanto magistero, che chi la vide ebbe a restarne maravigliato.5 — Avendo io potuto vedere il codice militare e la legge della leva concessi per sollievo del suo spirito a Curio, li rinvenni così tanto gremiti di osservazioni, note e pensieri, da far rimanere a bocca aperta la gente; tu ti hai a figurare [p. 120 modifica] una maniera di caleidoscopio dello intelletto umano, dove, girando, miri sciogliersi, aggrupparsi, tramutarsi senza posa risi, sorrisi, lamentazioni, capestrerie sempre nuove e sempre grottesche. Se mai capitasse in mano di romanziere, o di poeta, o di predicatore, o vogliamo legislatore, ovvero anche filosofo, chi sa quanto ci saccheggerebbero a man salva: per moneta non lo potei avere, e me ne increbbe; lo copiai in parte e giudico che valga il pregio citarne qualche tratto. All’articolo 5, t. I, c. 1. Curio appicca questo commento. — Ecco qui; in virtù dello articolo 5, la morte col mezzo della fucilazione nella schiena rende il condannato indegno di appartenere alla milizia; ed è ottimo accorgimento piemontese per distinguere la condizione dello ammazzato per davanti da quella dello ammazzato per di dietro; onde resta chiarito che se lo ammazzato per davanti dopo morto si presentasse al reggimento, hassi a ripigliare sotto le bandiere senza opposizione, mentre se lo ammazzato per di dietro ma’ mai si attentasse dopo morto a presentarsi al reggimento, ne sarebbe addirittura respinto. — Atrocissima poi la chiosa di Curio all’articolo 3, titolo I, della legge su la leva, e meritata pur troppo: «Non sono ammessi a far parte dello esercito gli esecutori di giustizia, nè gli aiutanti, ne i figli degli esecutori, nè degli aiutanti loro.» Per questa guisa la gente, innanzi di entrare nella milizia, carnefice non ha da essere, dopo entrata sì; [p. 121 modifica] prima di entrare infame, meritoria dopo: se sei carnefice prima ti sbatacchiano la finestra in faccia, se dopo ti ribelli a fare da carnefice, e repugni, ed imprechi a cui ti costringe, commetti atto d’insubordinazione, ti scaraventano fuori della onorata milizia per la porta del sepolcro. Se ammazzi con la forca, infame e boia; se con una palla di piombo, inclito ed eroe! Arrogi, il boia ammazza sempre o quasi una belva feroce perduta nel delitto, cui tarda all’universale vedere arrandellata nella eternità, onde il boia talora salutano liberatore, anzi non mancano perfino filosofi che lo vorrebbero impancato nella magistratura e circuito di onorificenze al pari dei personaggi che vanno per la maggiore: — ma il soldato ammazza un uomo di cui la colpa domani non sarà colpa, che il sentimento della pubblica morale o scusa o non condanna; il boia macella persona a lui sconosciuta; il soldato rompe un cuore di un camerata, che forse amava e n’era amato: per la preda del boia veruno prega, per la vittima del soldato quaranta e più mila donne italiane; se taluno supplica per la prima, ottiene grazia sovente; per la seconda si prostra un popolo davanti al trono invano. Cipriano la Gala ha salvo il capo; Pietro Barsanti è messo senza misericordia a morte.

La prigionia di Curio tirava al suo fine, quando certa notte venne desto a forza da uno scoppio di fucile, che gli parve sparato accanto. Precipitandosi [p. 122 modifica] da letto corse a spalancare la finestra; ahimè! Si era dimenticato che la tramoggia toglieva la vista del di fuori; tuttavolta, essendo la tramoggia composta di calcina, la pioggia rodendo il cemento ci aveva aperto un breve pertugio, il quale allargato tosto da Curio col mezzo di un chiodo, gli concesse vedere una frequenza insolita di gente a cotesta ora; un andare e un venire di lumi dalla caserma; poco dopo comparve una bara portata da quattro uomini, i quali, come entrarono cheti, cheti del pari se ne uscirono: solo uno di essi piangeva tacito, pure di tanto non si potè tenere che in qualche singhiozzo non rompesse. Allora sopraggiunse un uffiziale infellonito e gli menò una piattonata da mandare faville sopra la spalla non gravata dalla stanga della bara! Il soldato si ricacciò in gola un altro singhiozzo che stava per uscir fuori; per vantaggino l’uffiziale aggiunse al colpo le parole: — Crepa piano, canaglia!

Curio, che moriva di voglia di sapere che cosa fosse accaduto, prese ad interrogare alla larga il carceriere quando prima gli comparve davanti, ma l’altro acqua in bocca; però Curio avendolo avvertito che tanto fra pochi giorni usciva, non si gittasse al ritroso, lo contentasse, il carceriere, trovato essere vero quello che gli ricordava, non senza molto raccomandargli la segretezza, che altrimenti guai a lui, gli raccontò come in settimana si avesse [p. 123 modifica] a fucilare un soldato per avere impresso il Vangelo dei cinque evangelisti6 su la faccia del suo capitano: la sorte avere designato a formare parte del drappello dei fucilatori certo suo compaesano, che molto lo amava, anzi aveva sentito dire ch’era stato suo fratello di latte, e poichè nè per preghiera, nè per minaccia aveva potuto ottenere la dispensa, vinto dalla passione si era messo il cervello in bricioli. Intanto, il carceriere aggiungeva, le tradizioni della disciplina antica si disfanno: se si tira avanti di questo passo, per me non so dove si vada a cascare; una volta noi altri savoiardi della vecchia stampa, prima di disobbedire al regolamento avremmo fucilati padre, madre, fratelli, sorelle, la serva e il servitore...

— Ammazzò padre, madre e la sorella,
     Il fratello, la serva e il servitore,

come Marziale, cantarellò Curio; e l’altro.

— Precisamente!

Allora Curio ficcò bene gli occhi addosso al carceriere, dubitando avere così al barlume dell’alba scambiato la faccia di un lupo con quella di un uomo. Niente affatto; la faccia del carceriere appariva qual’era, faccia di uomo pio, che in quel punto si levi, forbendosi la bocca col tovagliolo, dalla mensa eucaristica; — pinzo e beato. Soli il catechismo [p. 124 modifica] cattolico ed il regolamento piemontese hanno virtù, di conciarti la creatura umana a quel modo.

Tosato, vestito di tela greggia, Curio, il bellissimo Cario, adesso comincia la vita del soldato: andare per carne e per pane, portare buglioli di acqua spesso, rado di vino, segare legna, spaccarle, recarsele in ispalla: ne questo era tutto: spazzare la caserma, lavarla; nè questo era il peggio... insomma di opere servili e sozze un mucchio; ond’egli fra tante e tanto laidissime cose si guardava bene di richiamare alla mente la cara immagine della gentile Eufrosina, pauroso d’inquinarla; anzi, se mai gli cadeva nella mente, egli si affaticava di cacciarnela via come mosca impronta che si ostini a passeggiarti sul naso. Fra le uggie che lo infastidivano a morte, conforto unico, quando gliene veniva fatta licenza, condursi solo in riva al fiume, e quivi sdraiato contemplare inerte di pensiero e di corpo l’acqua che passava; alfine si alzava sospirando: — Perchè non passo anch’io? — Ovvero seduto lungo il lido del mare, con la punta di un ramoscello tracciava sopra la sabbia geroglifici, che l’onda irrompente di subito cancellava. Un tristo filo gli filava la Parca.

Certo giorno, quello dei suoi cento padroni che gli sta immediatamente sul capo, gli ordina: s’imbianchi dove ha da comparire bianco; si annerisca dove ha da comparire nero; di tutto punto si abbigli, perchè sul mezzogiorno si aspetta il maggiore, [p. 125 modifica] che verrà piumato, inargentato, con tanti voti sul petto da dar quindici ed una caccia ai piedi alla miracolosa Madonna di Oropa.

Il maggiore venne serio come un bufalo; gonfio come un tacchino quando fa la ruota; in sembianza non bestia, bensì di tutte le bestie dell’arca di Noè. E ora perchè si rimescola il sangue da capo alle piante a Curio? E perchè sopra la faccia sparuta del maggiore adesso si stende un’ombra a mo’ che accade su la campagna aprica, se una nuvola venga improvvisa a passare traverso i raggi del sole? Curio riconosce nel maggiore il vile Fadibonni e il Fadibonni lui; la rassegna si compiva in meno che non si dice un credo; al maggiore ogni istante pareva mille anni di trovarsi lontano di là. Quello e l’altro di passarono senza accidente; al terzo Curio ricevè un invito di presentarsi al maggiore; ed egli, non potendo fare a meno, vi si recò; il Fadibonni, appena lo vide, chiuse l’uscio, avvertì di tirare le cortine, e all’ultimo, voltosi a Cario, con allegra faccia lo abbracciò, lo baciò, ed ei si lasciò fare; finalmente il maggiore prese a ragionare così:

— Or di’ su, qual destino ti balestra in queste parti? Quali i tuoi casi? perchè non hai messo il cambio? La è questa una delle tue solite capestrerie?

— I casi miei sono lunghi ed infelici; dispensami da contarteli; non misi cambio perchè una condanna [p. 126 modifica] di disertore mi obbliga a entrare nella milizia, e ad ogni modo mi sarebbe mancato il danaro.

— O che non sei più ricco?

— Misero, ma misero assai.

— E i parenti?

— Morti tutti, o falliti.

Qui la solita ombra si diffuse sopra la faccia del maggiore, il quale, stato alquanto sopra di se, soggiunge:

— Ma i tanti amici?

— Mi ha repugnato andarli a cercare.

— E i debitori tuoi?

— Sono liberi pensatori: col paternoster non ci hanno pratica; e dacchè il proprio dovere non li persuase a sodisfare al debito, ho rifuggito costringerli con la forza.

— Ma ti hainno fatto pagherò?

— Certo, e di molti.

— E li possiedi?

~ Io li possiedo.

— O senti; fa’ una cosa; se li hai addosso mettili fuori, se no, va’ a pigliarli; ti aspetto qui a piè fermo.

— E a che prò?

— Va’ a pigliarli: al resto penseremo dopo.

Curio andava pei pagherò; e rovistando per lo zaino rinvenne una obbligazione dello stesso maggiore, di seicento lire, la quale mise da parte come [p. 127 modifica] quella che non faceva al caso; tornò con gli altri fogli al quartiere del maggiore; il quale, poichè gli ebbe visti e considerati, disse:

— Curio, da’ retta, tu mi hai a girare in regola questi biglietti, ed io mi porrò coll’arco del dosso a riscuoterli, adoperandovi, dove ne faccia di bisogno, l’opera di certo legale che leverebbe il fumo alle schiacciate; occorrendo spese le butterò fuori io, e del ricupero spartiremo a mezzo. Ti va?

— A dirtela schietta, la non mi va; ma il bisogno non mi concede di guardarla così pel sottile; e poi alla fin fine non mi pare mica giusta che i miei debitori abbiano a riportare premio della indiscretezza loro, quale altri si attenderebbe invano da una bella azione; ma e tu, dimmi, come ti trovi a casa tua?

— Eh! mi troverei anche troppo bene, perchè dalla mamma in fuori io non conosco parenti; ma la è vecchia, bacchettona e bizzosa; suo padre istituì, morendo, me erede proprietario, lei usufruttuaria vita naturale durante. I preti le hanno stretto intorno il blocco; e sono fino arrivati a darle ad intendere che io professo dottrine eretiche, io, mentre credo in tutto,

E sopra tutto nel buon vino ho fede,
E credo che sia salvo chi ci crede...

La conclusione è ch’ella spende fin l’ultimo soldo [p. 128 modifica] co’ preti, perchè con le messe e i tridui loro procurino salvarmi l’anima.

— Ma o la paga di maggiore?

— Oh! se a ciascun l’interno affanno... con quello che seguita; vien qua, accostati a me, ch’io non vorrei lo risapesse l’aria. Sai tu che ci è di nuovo? Se io ho voluto passare maggiore, mi è toccato obbligarmi a cedere un terzo della mia paga al colonnello per cinque anni, e appena ne sono passati tre.

— Che mai! Questo non è possibile.

— Possibile questo ed altro. Aggiungi l’uscita degli amori, di cui è rincarato il prezzo a misura della penuria dei viveri, e senza amore un cuore ben fatto non può durare un giorno... — dammi un fiammifero per accendere il sigaro... — e se in questa altalena non mi fossi armato di provvidenza col mettere da un lato in cima della tavola una vecchia, dall’altra una giovane e me in mezzo, a quest’ora io sarei andato a Patrasso; però a dare il tuffo siamo vicini, perchè alla giovane crescono le voglie, e alla vecchia scema la moneta...

— E simile contegno non ti nuoce alla reputazione?

— All’opposto, sarebbe screditato, e di molto, l’ufficiale che pelato non pelasse; aggiungi il gioco, nobile esercizio, apparecchio alla guerra, ma com’essa rovinoso. [p. 129 modifica]

— E com’entra il gioco con la guerra?

— Nel gioco, come nella guerra, assaltiamo, ci difendiamo, perdiamo, vinciamo, ci ritiriamo, rifacciamo le forze, torniamo all’offensiva: pari la filosofia nella guerra e nel gioco, sia per trarre partito dai tempi, dai luoghi, dalla conoscenza dell’indole dell’avversario: insomma impossibile esser guerriero e capitano bravo, se con notturna mano e con diurna non agitiamo indefessi le carte di lanzechenecco e di bambara. Ma a ciò diamo di taglio; or dimmi un poco, non ti converrebbe acconciarti meco per confìdente?

— Confidente che è?

— Gli è il soldato di compagnia dell’uffiziale, ed è perciò che viene affrancato da ogni servizio al quartiere; onde, se togli il debito di pulire le sue vesti e la sua armatura, per due o tre ore per giorno esercitarsi, si può dire quasimente libero.

E siccome a Curio venne fatto di ridere, il Fadibonni, pigliando cotesto sogghigno per assenso, soggiunse: solo ti avverto, che se tu vuoi durare al mio servizio, quante volte tu ti trovi a conversare con gli uffiziali miei amici, procura dir corna del Garibaldi; più grosse le dirai e più verrai in fama; non chiamarlo mai generale, dagli dell’avventuriere, e se ti capita anco del brigante. Adesso corre il costume di ripetere con ammirazione il detto del gran capitano Lamarmora sopra di lui: cuor di leone, [p. 130 modifica] testa di asino. Io, vedi, per diventare maggiore non ebbi altri meriti oltre quelli di mordere il generale e cedere un terzo della paga al colonnello.

— Pazienza! Io non diventerò mai maggiore.

— Ebbene, se non vuoi dirne male, astienti da dirne bene, perchè, adesso che ci penso, sono tanti quelli che, beneficati da lui, se ne lavano la bocca, che ormai non se ne fa più caso; sta’ zitto e basta.

— E quando mi disponessi a farti da servitore, quali sarebbero i miei obblighi?

— Meno che nulla, vedi. La mattina avresti a farmi il caffè e portarmelo a letto; ed ecco fatto. Scotere, bacchettare, spazzolare le vesti, il mantello, il berretto; ripulire gli stivali, lustrare sproni, bottoni e squadrone; assettarmi la sciarpa; ed eccoti fatto. Portare le lettere che lascerò la sera sul tavolino; se alla posta, alla posta; le altre a cui vanno, capitani, colonnelli, capi sezioni, segretari, ministro, eccetera; soprattutto hai da porre avvertenza a due, una colla busta gialla e l’altra con la busta rossa; la gialla va alla mia vecchia amante, la rossa alla giovane; guarda a non isbagliare, che tu mi spianteresti di netto; ed eccoti fatto. In un lampo ti sbrighi; tornato a casa, spazzi la camera, rifai il lotto, mi aiuti a vestire, mi cuoci tre uova o quattro, a battiscarpa mi arrostisci una braciola...

— C’è altro? [p. 131 modifica]

— Vai pel pane, pel vino, apparecchi, sparecchi, risciacqui i piatti e bicchieri, ed ecco...

— Basta, basta; sai che ho pensato?

— Che hai pensato?

— Che tutte queste cose ti farai da te.

— Come! ricusi? Un vero canonicato!

— Per ora non ho colpa da meritarmi i lavori forzati.

— Ma al quartiere ti toccherà peggio.

— Può darsi, ma servendo tutti, servo nessuno; e tra questi tutti ci entro ancora io.

— Bada! te ne pentirai.

— Allora ci sarà sempre per rifugio l’inferno.

— Tuo cuore, tuo consiglio. Oh! a proposito; bisogna ti dia un avvertimento: fuori di qui non ci conosciamo; anzi, procura di fare in modo da allontanare fino il sospetto che ci siamo conosciuti.

— Oh! quanto a questo vivi tranquillo, sarà pensiero mio.

E si separarono.

Fadibonni, rimasto solo, si mise a riscontrare i pagherò. Cento, duecento... oh! delizia, trecentocinquanta, cinquecento, uno di mille! Benedetta la mamma che ti ha fatto, o Curio dell’anima mia!

Insomma, e’ ce n’era per una diecina di mila lire, e che nomi! Giovani della più prelibata nobilea; di oppositori e di sostenitori sfegatati del ministero; neri, rossi e azzurri. — Ma questa è una manna, di [p. 132 modifica] tratto in tratto proseguiva a dire il Fadibonni, Dio mi ha fatto piovere le quaglie fino in casa, e per giunta belle e arrostite.

Però anche qui egli ebbe a provare come il giudizio umano spesse volte erra, imperciocchè coloro ch’egli reputava pan buffetto sotto ai denti, gli parvero ghiaie, mentre gli altri che avrebbe venduto a mezza lira il paio, gli riuscirono meglio a pan che a farina. Breve: strizzando, attorcigliando, stiracchiando, non senza avvantaggiarsi delle infinite torture inventate dal suo mozzorecchi, potè racimolare cinquemila lire ad un bel circa. A questo modo passarono due mesi e più, quando Curio, un po’ per vaghezza di sapere a che fosse cotesto negozio approdato, e molto per bisogno che pativa di danaro, si fece a trovare il maggiore. Stava per tirare la corda del campanello di casa, quando abbassando gli occhi vide a piè dell’uscio una lettera; la raccolse e conobbe essere diretta al maggiore: lo prese il capriccio di leggerla; e perciò sceso pianamente si condusse in parte dove giudicò non lo avrebbe disturbato alcuno; colà lesse quanto segue:

«Snaturato figliuolo! Ti scrivo e non rispondi; meglio avessi io dato la vita a un cane che a te; eccomi qui, meschina, dopo avere strutto quel poco che avevi e il molto che io possedeva per eredità paterna, di cascata in cascata prima mi trovai ridotta per campare darmi dintorno a vendere [p. 133 modifica] erbaggi; all’ultimo infermai e strema di tutto mi condussi all’ospedale dove ora mi trovo; la febbre è cessata, ma io non valgo a reggermi in piedi; lo spedalingo ha promesso tenermi qualche altro giorno per carità, ma lunedi mi toccherà andarmene senza remissione. Credilo, figliuolo, credimelo quanto è vero Dio, a me non rimane altro che mendicare, ma io non ho balia di strascinarmi per le strade: cascherò su qualche muricciuolo e li morirò. Mandami per le piaghe di Gesù Cristo un qualche soccorso; non me lo negare; non t’infingere povero per ributtarmi, che io so come tu spendi e spandi in male femmine e in gioco, che fu e sarà sempre la tua rovina. Altro non aggiungo: aspetto la tua risposta a braccia aperte, supplicando la beatissima Vergine che ti tocchi il cuore. Tua madre in lacrime. — Bergamo. — Livia O. T.»

Senza dubbio nel cavarsi la chiave di tasca per aprire l’uscio, cotesta lettera era cascata al Fadibonni; Cario nel ripiegarla pensò: una più, una meno, non sarà quella che lo manderà all’inferno.

Curio fece male a leggere la lettera. E chi lo nega? Per me dichiaro che fece malissimo. Tamen, ci hanno pecche naturali che non si possono correggere; ed io che scrivo conosco un uomo probo, e che per quello che fa la piazza si potrebbe citare per esempio, a cui tu confiderai sicuramente un tesoro, ma guardati di lasciarlo solo in camera tua: [p. 134 modifica] egli in un baccliio baleno te l’avrà rovistata da cima a fondo, frugata in ogni parte più intima; spiegato e ripiegato vesti, biancherie, pannilini e lani; aperto lettere, lettele e rimesse al posto: caso mai tu avessi smarrito in camera tua qualche oggetto, vivi tranquillo, ch’egli te lo ritroverà. Che ci vuoi fare? E istinto congenito alla natura degli uscieri, dei commissari pei gravamenti, degli espositori ai pubblici incanti, dei notari, e, bisogna che lo confessi a confusione mia, dei romanzieri.

Curio, non so a qual titolo, pareva affetto della medesima infermità.

Dulcissime rerum, esclamò il maggiore quando, aperto l’uscio, gli comparve davanti Curio — Mira eh! se mi rammento del mio vecchio latino? Non ci si vede mai, come dicono lassù a Firenze quegli squasimosdei del bel parlare amino; che fai? come te la passi?...

— Nel venir su; a piè dell’uscio di casa tua ho trovato questa lettera... m’immagino che ti appartenga, — e in così dire gliela porse.

La solita nuvola ottenebrò correndo la faccia del Fadibonni, il quale irrompendo in risa sfrenate domandò a Curio:

— E tu l’hai letta?

— O che nella lettera ci è scritta cosa che a te rincrescerebbe io conoscessi?

— Ho capito. Tu l’hai letta... avrei fatto come [p. 135 modifica] te — e continuava a ridere, a ridere — che vuoi tu? Dai dai, mia madre, sempre serpentata dai preti, ha finito col dare la balta al cervello, e non poteva fare a meno; adesso s’immagina essere diventata mendica, e ridotta ora a vendere erbaggi, ora a rimpagliare fiaschi, tal’altra a raccogliere stracci per la via; custodita a vista, trova maniera di deludere la vigilanza dei guardiani e scappa, sicchè mi è stato forza ordinare ultimamente che la chiudano nello spedale.

E siccome Cario tentennava il capo, il maggiore riprendeva:

— O che volevi la lasciasse in balia di se stessa, perchè una volta o l’altra mi si precipitasse?

— No: posto che quanto mi hai raccontato sia vero, avrei voluto che tu nella miseria di tua madre non trovassi argomento di riso.

— Te l’ho già detto, soggiunse il maggiore, ed in subito si fece livido in faccia: dal partorirmi in fuori ella non mi ha dato mai altro segno di madre: fin qui furono i soli Padri Eterni a fare i figli crocifissi, ora poi che ci si mettono anche le madri, noi altri poveri figliuoli di famiglia possiamo addirittura andarci a impiccare.

Ma qui, accorgendosi che se le sue parole rendevano testimonianza di gaiezza come un lucignolo spento ricorda il lume che spandeva acceso, mutò discorso dicendo: [p. 136 modifica]

— Orsù, diamo un taglio a queste giammengole: favelliamo di affari; sai! io non ho mancato di usare le debite cautele per costringere al pagamento i nostri debitori; ho sudato acqua e sangue, e di qualche cosa sono venuto a capo; ecco delle diecimila lire cedutemi la metà, comecchè con molta fatica ho riscosso poche lire più o meno; ma per l’altra metà che spetta a te, in fede di gentiluomo io ne ho perduto la speranza, opperò mi tardava vederti, per renderti i tuoi pagherò, onde tu veda se a te, più fortunato o sagace, riuscisse cavarne cappa o mantello.

Così favellando aperse lo scrittoio, e cavatone fuori un pacco di pagherò, lo deponeva nella mano aperta di Curio trasecolato, e continuava:

— Questi tuoi debitori sperimentai della natura dei corvi; sentono l’odore della polvere; avvicinandosi il cacciatore, levansi a stormi e vanno a posarsi su gli alberi fuori di tiro.

Curio, anco qui non potendo altro, diede una scrollatina di spalle e fece bocca da ridere; parve che il maggiore se ne scorrucciasse; e di fatti con voce alterata proseguì:

— Non ti garba la partizione? Ebbene, non ci dobbiamo guastare per questo: buoni amici fummo e tali abbiamo a rimanere: da’ qua i biglietti, io guarderò se dando un’altra stretta di forza al torchio qualche altro soldo mi riescirà a spremerne: [p. 137 modifica] anche di quelli che già ho riscosso intendo... anzi pretendo... e non lo contrastare, che lo tenteresti invano... fare a mezzo; darteli non posso, ma te li prometto.

Cario non si sentendo di umore di patire, oltre il danno, lo strazio, troncò il colloquio e prese commiato: per le scale si percosse della mano la fronte ed esclamò:

— Grullo, Curio, nascesti e grullo morirai; e si che a questa ora dovresti sapere che i ganci quando diventano diritti non sono più ganci.

Intanto, avendone agio, egli si pose a ricercare con molta cautela traccia dei suoi parenti; meglio non lo avesse fatto, gli parve di mettere il piede su la via del calvario; ad ogni passo inciampava dentro una tomba; cercò di Eufrosina e del padre Filippo; da questo lato ebbe nuove meno triste; non liete però. Filippo tra bene e male era guarito, ma camminava zoppo; col tempo sarebbe andato più spedito, forse; così almeno prognosticavano i medici, frattanto ranchettava. In grazia della protezione del buon maggiore suo amico, egli aveva ottenuto il posto di custode delle carceri militari del Castello di Milano.

Curio, dopo avere esitato un pezzo tra la pietà e la vergogna di comparire al cospetto della madre amatissima, da tanto tempo derelitta e in apparenza obliata, vinto dalla pietà, statuì condursi a Milano [p. 138 modifica] ad ogni patto; alla carità di figlio si aggiunse ardore di amante; se questo più e l’altra meno, chi saprebbe dire? Eufrosina era la luce dell’anima sua. Mercè la fede del medico curante, la madre ottenne il congedo per assentarsi parecchi giorni, e andò.

Giunto a Milano su la piazza del Duomo, voltò gli occhi in su per ammirarlo, imperciocchè ad ogni buono ambrosiano il Duomo rappresenti tutta Milano; di Lombardia e d’Italia anche un bel tocco, poi un po’ degli amici, dei parenti, del babbo, della mamma, e aggiungi altresì dell’amante. Tutti cotesti angioli, arcangioli e santi di ogni generazione, dentro e fuori le nicchie, egli reputa suoi conoscenti; tuttavia, se vogliamo dire la verità vera, Curio pareva guardasse tutta quella gente, ma non la guardava; tra il sì e il no gli ciondolava il pensiero se dovesse condursi prima a visitare Eufrosina, ovvero la madre; ci corre il debito avvertire che l’amore di figlio prese il sopravvento, e comparve improvviso a casa la madre.

Non si descrivono i pianti, i baci, le rimembranze dolorose del passato, nè gli affanni del presente, che al guardo spaventato di Curio pur troppo la sorella Arria apparve come donna sopra la quale la morte abbia segnato: «posto preso.»

Il passato e il presente in tutto tenebra; nò meno buio il futuro. Eufrosina sempre divinamente bella; [p. 139 modifica] ma pari all’armonioso abitatore del cielo chiuso in gabbia, ogni giorno più perdeva della sua naturale vispezza.

Filippo rendeva quasi credibile la leggenda di Merlino, il savio mago, che lo afferma chiuso vivo dentro un sepolcro. I suoi occhi balenavano di tratto in tratto, ma le ciglia irsute provvidamente ne nascondevano il lampo; guai a lui se i superiori lo avessero avvertito; lo avrieno fatto spulezzare più che di passo; mentre presso costoro entrava in favore il celere obbedire, l’ostinato tacere e il non mostrare pietà!

Curio condusse Eufrosina alla madre, la quale a sua posta stette maravigliata da così eccelsa bellezza, e in breve, più che della bellezza, le piacquero l’anima ingenua e il forte volere. Ella sentì subito che Dio le mandava un raggio di consolazione per sollievo dei giorni che Arria traeva con tanta angoscia verso la tomba. Avrebbe la signora Isabella desiderato tenerla presso di sè, anche per conforto della propria tristezza, ma considerando lo stato in cui si versava Filippo, cacciò via da sè cotesto pensiero come una tentazione del demonio. Molti furono i ragionari e diversi, i quali veramente si potevano risparmiare, dacchè la conclusione stesse in mano della necessità, ed era: sperare e aspettare.

Chi immaginò prima il tempo vecchio ad un punto ed alato, sicuramente lo ebbe a provare in vita sua [p. 140 modifica] o celerissimo o tardo, a seconda della speranza o del timore; ora pei nostri personaggi fu la volta in cui parve che adoperasse l’ale, dacchè improvviso precipitò loro sul capo il termine del congedo, e bisognò pensare a separarsi. Tanto patirono pel nuovo distacco, che stettero a un pelo d’imprecare il momento nel quale desiderarono rivedersi: per ordinario nelle faccende della vita accade così, e se la mente presaga avvertisse i mali che stanno per nascere dalle cose appetite, io, per me, credo che l’uomo strozzerebbe le sue voglie appena nate, come Ercole in culla i serpenti.

Senz’altro accidente trascorsero a questo modo parecchi altri mesi; quando, certa notte, parve a Curio udire persona che piangesse a canto a letto; da prima sommesso, poi di mano in mano più forte, end’ei, temendo pel doloroso, lo avverti pianamente:

— Bada, fratello, che il sergente di guardia non se ne accorga e ti metta in prigione.

— Ne anche il pianto è concesso... ah!

— Ma perchè piangi?

— Te lo dirò — ed entrambi sporsero tanto i capi loro fuori del giaciglio, da toccarseli e da j)otere Curio intendere il susurro dell’altro. — La mia storia, prosegui il doloroso, per la umanità è vecchia, ma per l’uomo è sempre nuova... amai una cara fanciulla.». [p. 141 modifica]

— Ed ella amò te...

— E fui preso nella leva; sai tu che numero estrassi? L’uno; mi toccò separarmi da lei e lasciarla...

— Incinta.

— O come lo sai? Chi te lo ha detto?

— Me lo ha confidato nelle orecchie madre natura.

— Adesso ella mi scrive non poter più celare il suo stato, non essersi attentata a frequentare le case in traccia di lavoro, e quando pure, vinta la vergogna, ci si fosse esposta, ne avrebbe ricavato infamia, non soccorso: ormai trovarsi allo estremo; non sapere come tirarsi innanzi; impegnato tutto; giacersi sopra la paglia senza saccone; finchè non avesse partorito la creatura che si sentiva muovere dentro le viscere, volere vivere, ma caso mai avesse dovuto soccombere sotto il peso della fame... per lo amore di Dio non sospettasse ch’ella con deliberato animo avesse ucciso il figliuolo di lui. Della povera creatura, di lei che lo amava tanto si ricordasse; nelle sue orazioni pregasse per loro. E più non potè dire, sicchè rimasero co’ colli tesi, l’uno con la bocca incollata all’orecchio dell’altro.

A Curio, mentre teneva gli occhi intenti nella tenebra, ecco apparir disegnato con luce, che pallida in prima, diventa poco a poco più splendida e viva, il numero 600. — Ah! l’ho trovato, egli esclama, l’ho trovato, e quello che non avrei ardito per me, [p. 142 modifica] lo ardirò per lui; se non tutti, almeno in parte me li avrà pure a rendere; e dominato da questa fantasia, volto al compagno, con lieta voce gli disse:

— Camerata! coraggio; io ti posso sovvenire; dunque cessa di tribolarti; e per mio governo, a levarti di angustia quanto ti occorrerebbe?

— Ma, un cento di lire... ti paiono troppe?

— Cento lire! Dormi, dormi pover’uomo, domani io ti prometto il doppio, per lo meno.

— Ah! che gusto hai di straziarmi così? Era meglio ch’io mi tacessi.

— Oh! sai che ci è di nuovo? Che tu mi pari un villano calzato e vestito. Per me lo scherno ai miseri è delitto che supera ogni altro delitto. E questo disse in suono di scorruccio così sincero, che l’altro raumiliato rispose:

— Perdona; la miseria è paurosa e sospettosa.

— E spesso anche ingiusta.

— E spesso anche ingiusta... scusa da capo, e Dio ti benedica.

Fattosi giorno, Curio, debitamente facoltato, usci dal quartiere per andare alle stanze del maggiore, avendo prima avvertito di mettersi in tasca il pagherò del Fadibonni. — Bussa. Il servo gli afferma sempre a letto il padrone: ed ei: — Aspetterò qui nella entratura. — L’altro: — Dio ne liberi! Il padrone non vuole che in casa si trattenga persona. — Non fa caso, soggiunge Curio, aspetterò giù all’uscio. — [p. 143 modifica]

Scende e si pone in sentinella camminando su e giù quattro passi o sei traverso l’uscio. Il Fadibonni veramente giaceva in letto; quando si seppe liberato dall’importuno, si voltò sul fianco destro ed attaccò un altro sonno, cessato il quale chiama il servo e gli comanda:

— Va’ un po’ a vedere se il soldato ci è sempre. Il servo andò, tornò e disse:

— Ci è sempre.

— Potesse agguantarlo un accidente! E si voltò sul fianco sinistro, dove giunse ad appisolarsi da capo; svegliatosi, chiama:

— Biagio! Quel demonio è andato via?

— Illustrissimo no, egli va su e giù che paro un pendolo da orologio.

— E ora come si fa? Bisognerebbe pure che io uscissi di casa. E tu, Biagio, nei miei piedi che faresti?

— Io consigliare un signore come lei? Ma che le pare!

— Tira via, che faresti?

— Ecco, per obbedienza dirò: se mi trovassi nei suoi piedi, scenderei chetamente al primo piano, di là per la fune del pozzo mi calerei giù in chiostra dove fan capo le stalle che mettono sopra la strada dietro casa: così lascierei lo insolente a passeggiare tutto il giorno, se ne avesse voglia.

— Archimede non avrebbe trovato di meglio, [p. 144 modifica] esclamò Fadibonni; e la tua invenzione merita premio, e così dicendo diede mano al suo portafogli; il servo tese subito la destra; ma vuoto era il portafoglio, e vuota rimase la mano alzata del servitore. Il Fadibonni, sconcertato, poichè stette alquanto sopra di se, barbottava:

— E’ piove sul bagnato! E sì che prima di giacermi a canto a lei avvertii a mettermelo sotto al capezzale... ma Giulia gentile li sente all’odore meglio che il cane i tartufi.

Curio non si mosse finchè non vide tramontato il sole; ed avendo mancato allo appello in quartiere, ci guadagnò tre giorni di arresto, uno dei quali inasprito col digiuno di pane ed acqua. — Quando si trovò libero uscì; mandava faville pari alla sbarra di ferro tratta fuori dalla fornace; guardava torto e taloccava iroso; non chiese licenza di abbandonare la caserma; per questa volta non pensa ad avviarsi a casa il maggiore, cerca i luoghi dove sapeva trattenersi costui; al caffè non lo rinvenne, non al biliardo, non al ridotto; di un tratto sbircia su la piazza un gruppo di ufficiali, e il cuore accelerando i suoi palpiti lo avverte colà trovarsi il maggiore; nè s’ingannava; vistolo, si accosta, e con la mano al caschetto gli fa il saluto militare; il maggiore descrive con la persona mezzo giro a sinistra e finge non vederlo. Curio si conduce dall’altro lato e rinnuova il saluto. Invano, che il [p. 145 modifica] maggiore si ostina a non volerlo vedere; ma Curio non si stanca, e tanto replica il saluto, che i compagni del Fadibonni, essendosene accorti, gli ebbero a dire:

. — Maggiore! e’ pare che questo uomo cerchi te; dagli retta, e liberaci dal fastidio.

Allora, stretto fra l’uscio e il muro, Fadibonni con mal piglio si appressa a Curio e a voce alta lo interroga:

— Cercate di me?

E Curio sommesso:

— Di te.

L’altro di rimando:

— Vien qua oltre e dimmi il fatto tuo.

Scostaronsi trenta o più passi dal gruppo degli ufficiali; quivi fermaronsi: e il maggiore continuò a dire:

— E ora che novità sono queste? Che Anioi? Che pretendi da me?

— Quattrini.

— Non possiedo più nè manco un soldo per me, o come vuoi ch’io ne dia a te?

— Trovane.

— E dove?

— A questo hai da pensare tu, che sei debitore, non io creditore.

Queste parole venivano profferite cupe, ansiosamente rotte; parevano passi che movano pel buio [p. 146 modifica] i duellanti all’americana per piantarsi lo stiletto nel cuore.

— Ma donde questo tuo disperato bisogno?

— Ecco... e qui Curio si fa a narrargli il pietosissimo caso del camerata, conchiudendo: — Tu capisci come sia pure necessario che queste creature non muoiano.

— Per me non vedo la necessità che vivano.

Siffatte parole, e più il suono beffardo della voce, irritarono da vantaggio Curio, che digrignò fra i denti:

— Orsù; manco discorsi, fuori quattrini.

Allora l’altro, presagendo la mala parata, muta voce e sembianza; con aria tutta compunta ripiglia:

— Ma tu sai, Curio, amico carissimo, che la metà dei nostri pagherò riscossa fu spesa, e dell’altra metà, malgrado ogni mio sforzo, non mi è riuscito cavarne ancora costrutto.

— Non questi, non questi ti chiedo, bensì gli altri di cui tu mi vai debitore in virtù di un pagherò segnato da te.

— Pagherò! Segnato da me!

— Già, di lire seicento... Io non ti metto con le spalle al muro perchè tu me le dia tutte; dammene due terzi; la metà, almeno un terzo, tanto che cotesti miseri non si buttino alla disperazione.

— E l’hai teco questo pagherò? Perchè, vedi, non arrecartene, sarà come tu dici, ma io non ne [p. 147 modifica] conservo memoria; voglimi usare la cortesia di mostrarmelo.

— È giusto; eccolo.

Curio lo estrae dal portafogli e glielo consegna, l’altro lo piglia e con moto rapidissimo se lo caccia in bocca per ingollarlo; però Curio, non meno celerò di lui, con la manca lo afferra per la strozza, e tanto lo stringe, che non che il foglio, ma neppure l’aria ci può passare, e nella bocca aperta spinge due dita della destra e ne cava fuori il foglio lacero in parte, ch’ei getta via lontano per terra; poi a pugno chiuso piglia a pestargli il viso, che meno forte cala mazza del fabbro sopra la incudine; Curio sentì sgretolarsi sotto la mano il naso di costui, e gli occhi così di un tratto gli comparvero infaonati da parere un vero Ecce Homo. Accorsero gli ufficiali compagni del malcapitato per salvarlo da cotesto furore, e tutti di concerto si posero a tempestare con colpi di sciabola sui reni e sul cranio di Curio, finchè a lui, rotto in più parti della persona e tutto grondante sangue, non si prosciolsero le braccia stramazzando supino; nel cadere arrangolò:

— Sono morto!

Due barelle trasportarono il maggiore a casa e Curio all’ospedale.

Tre giorni dopo questo caso i soldati, attingendo acqua al pozzo per lavare la caserma, trovarono [p. 148 modifica] impedimento a tuffare il bugliuolo; a fine di rimovere l’ostacolo calarono un paio di ganci, ma, non bastando a sollevare il peso, ce ne aggiunsero un secondo paio, poi un terzo; tira... tira, fra schiamazzi e risa portarono fino all’orlo del pozzo un cadavere... il cadavere del soldato cui il buon Curio aveva promesso sovvenire; la giovane incinta, quando seppe l’atroce caso, si accosciò giù, si coperse il capo, stette immobile sul giaciglio di paglia, non pianse, cheta cheta aspettò che la fame le conducesse liberatrice la morte.

Fadibonni mise un bel pezzo a guarire, imperciocchè, quantunque le sue ferite non presentassero verun carattere di gravità, e’ bisognò che aspettasse gli sfumassero dalla faccia il nero, il pagonazzo, il turchino, il verde e il giallo, che tanti sono appunto i colori della pesca reale.

Curio, preso dal delirio, si versò lungo tempo in pericolo senza speranza di salute, ed anche i medici se la buttavano dietro le spalle, non mica per difetto di carità, che anzi umanissimi erano, ma perchè conoscevano come, salvandolo da una morte, lo avrieno gittate fra le braccia di un’altra più triste e forse più dolorosa. Contro l’aspettativa e il desiderio così dei nemici che degli amici, sopravvisse, ed in capo a ben lunghi undici mesi Curio tornava più gagliardo di prima.

Intanto il tribunale militare aveva incominciato [p. 149 modifica] la istruzione del processo, e Cario, sottoposto agl’interrogatori! parecchie volte, aveva sempre con rara precisione esposta la cosa proprio nel vero modo in cui era andata; ma il Fadibonni con parole sdegnosissime la negava a spada tratta; chiamati gli officiali testimoni, non avevano veduto nè udito nulla; in cuore detestavano Curio, perchè mentr’egli credeva flagellare il solo Fadibonni, tutti ne sentivano dolore, come quelli che andavano tinti di una medesima pece. Però il colonnello, soldato vecchio e di virtù antica, il quale la corruzione della milizia italiana conosceva e deplorava, avendo voluto egli stesso interrogare più volte Curio e a lungo, era rimasto colpito dallo aspetto gentile di lui, dai modi ingenui e dallo accento di verità col quale raccontava, senza alterazione alcuna, nei suoi minimi particolari lo accaduto; anche gli facevano impressione la casata illustre del giovane, la cultura e la fama di prode. Il suo pensiero batteva sempre sul pagherò smarrito: se si fosse potuto ritrovare, certo a Curio una grossa pena sarebbe tocca pur sempre, ma la turpe fraudolenza del maggiore, quantunque non provata pienamente, lo avrebbe salvo dalla morte. In simile concetto si appigliava ad ogni amminnicolo per procrastinare la trattativa della causa, aspettando fiducioso che il miracolo della riperizione del pagherò avesse da un punto all’altro a verificarsi. Ma ormai erano a tale le cose, che un nuovo [p. 150 modifica] mento non sarebbe passato senza biasimo, e però l’apertura del giudizio fu stabilita per la entrante settimana.

Certo non erano di oro i fili che in cotesto periodo di tempo la Parca filava per Curio, ma per Fadibonni li filava di ferro arroventato. Nel cuore e nel cervello di lui perpetua si alternava la vicenda del caldo e del freddo. In mezzo all’allegria del convito, alla festività del conversare, nel vortice armonioso delle danze di un tratto una caldana di piombo strutto gl’inondava tutta la persona; una grandine di numeri 600 gli trafiggeva le pupille, traballava per cadere, e sarebbe caduto di certo, se altri sottentrando non lo avesse retto: questo poi non veniva da rimorso, bensì dalla paura che il pagherò si rinvenisse.

Il tempo, galantuomo vero, e, per giudizio mio, unico al mondo, si accosta con passo misurato al giorno del dibattimento e le angoscio del Fadibonni si fanno più atroci, mentre Curio, sovvenuto dalla coscienza netta, si rassegna a un destino ch’ei non può mutare: erat in fatis mala morte mori, come si legge sul tumulo di Giulia Alpinula, figlia infelice di padre infelicissimo.

Il Fadibonni giace, secondo il suo costume, voltandosi fastidioso ora da un lato ed ora dall’altro; spesso col lenzuolo si asciuga la faccia e il collo grondanti sudore, e forte soffiando spinge fuori il [p. 151 modifica] fiato fumoso. Al più lieve strepito schizza su a sedere sul letto e porge affannato l’orecchio; poi ricade e il petto gli si alza e gli si abbassa come se gli avesse a schiantare il cuore.

Squilla il campanello! E il Fadibonni su ritto a gridare da spiritato:

— Biagio, chi è? Va’ a vedere chi sia. Chi è? Non ti movere.

— Caro lei, se non mi lascia andare, non glielo saprò dire di qui a domani.

— Va’, sì... fa’ presto.

— Ci è il maggiore? si ode dalla stanza accanto; e subito rispondere:

— Non so... credo... andrò a vedere.

— Va’ via, balordo; avrai da cercare un pezzo in una stanza e mezzo.

— Allora ci è, passi.

— To’, gua’! sempre a letto, poltrone...

— Che miracolo è questo, capitano Parpaglione?

— Come miracolo? O che per te è miracolo che un amico vada a visitare un amico in angustie? Così favellava un uomo mal tagliato, di cui la faccia Rebecchino per risparmiare danari avrebbe potuto pigliare a insegna della sua osteria, e proseguiva: Ci è nulla in casa da bagnare la parola?

— Vuoi vino? Acquavite?

— Biagio, la boccia dell’acquavite e un gotto; il vino è per gli stomachi deboli. [p. 152 modifica]

Bebbe di un tratto un bicchiere di acquavite che parve dovesse frizzare meglio del pepe, però ch’egli ebbe ad asciugarsi col dosso della mano a un punto la bocca e gli occhi lacrimanti.

— Come stiamo a sigari?

— Male; un mozzicone appena.

— Biagio, to’ qua; il capitano avendo sbirciato sul tavolino un pugno di soldi, ne tolse senza cerimonie un pizzicotto, e dandolo a Biagio soggiunse: Va’ a comprarne dalla Rossina... sai? la tabaccaia dal canto alle rondini; ella ci ha roba stagionata; avverti che fumino, e la foglia sia intera... pel tuo incomodo te ne regalo uno.

Uscito Biagio, il capitano ripiglia il discorso dicendo: l’ho mandato dalla Rossina, perchè non abbia luogo di tornare presto, avendo noi bisogno di tempo per ragionare insieme. E ora che ti senti? Che hai che mi fai bocca da recere? Non siamo mica in mare. Su allegro! Ti porto buone nove.

— Che nuove?

— Sai... quel certo... tale biglietto delle lire seicento è stato trovato.

— Trovato! E tanto il Fadibonni non si potè tenere, che non si avventasse in camicia come si trovava, a gambe ignude, scalzo, fuori del letto gridando:

— Chi lo ha? Dov’è? Me lo rendano, io ne ho bisogno, me lo rendano per Dio! [p. 153 modifica]

— Adagio perchè ho fretta, edice il proverbio; torna a letto. Così... da bravo. Il possessore del biglietto sono io.

— Dunque dammelo, via, a te non può servire nulla.

— Te lo darò: prima, perchè se io lo mettessi in processo tutto il nostro reggimento rimarrebbe infamato, ed io intendo ch’ei splenda in eterno nella pienezza del suo onore: secondo, perchè cervi con cervi non si levano mai gli occhi, e noi tutti protegge il beatissimo san Nicola: terzo, perchè posto nelle carte del processo, mentre te condurrebbe di certo al fiume, non so se salverebbe l’altro dalla fucilazione.

— Oh! dammelo, via... dammelo.

— Te lo darò, ma a un patto; e questo patto è che tu me lo paghi.

— E con quali danari?

— Co’ tuoi, parrebbe.

— Non ne ho.

— Procurateli.

— Impossibile!

— Impossibile! — Meglio così, perchè non potendo cavarne verun profìtto pel corpo, vedrò allora di avvantaggiarne l’anima; difatti, dando a te questo biglietto per nulla, commetterei una gravissima colpa, che mi tornerebbe a gola come lo stufato, e forse chi sa! Non è fuori dei possibili che questo [p. 154 modifica] pagherò, conosciuto dai giudici, non valesse a salvare la vita a quel povero diavolo.

— Ma egli è poi mio questo benedetto pagherò? Io non ricordo mica di averlo sottoscritto, o fammelo un po’ vedere.

— Andiamo, via, burlone! Tu lo dovresti avere a quest’ora già visto e considerato; ma non monta; pigliati tutte le tue soddisfazioni. E qui, cavata di tasca una rivoltella a sei colpi, la inarcava; ciò fatto trasse dal seno il portafogli, e si disponeva ad aprirlo, quando il Fadibonni, sciolto un sospiro lunghissimo, disse:

— Camerata! basta; io non ne ho più bisogno. Giusto in questo punto mi ri sovviene avere sottoscritto quel pagherò.

— Gua’! Accade della memoria come della calza, che talora perde un punto, ma la calzettaia raccattandolo rimette a sesto ogni cosa.

— Però, camerata, ti giuro... non so su che giurare, ma ti giuro che non posso pagarti questa somma; di presente sborserò duecento lire; per le rimanenti ti segnerò pagherò a due e a quattro mesi di data.

— Dall’orecchio destro sono sordo e dal sinistro io non ci sento.

— Per carità, lasciati commovere le viscere.

— I’ sono nato senza.

— Mira, mi raccomando in ginocchioni. [p. 155 modifica]


— Bene, bravo.

— Io ti rilascio gl’interessi su le seicento lire dalla scadenza del tuo biglietto in poi... e vedi che in sei anni arrivano ad una bella sommetta.

— Quanti anni hai detto? che ha sei anni dalla sua data il biglietto?

— Sei per lo appunto.

— O santo mio protettore! esclama il Fadibonni battendo palma a palma; tu mi hai liberato dalle mani dei miei nemici, ed io da qui innanzi te servirò unicamente: e manibus inimicorum nostrorum liberati serviamus illo, come dice il salmo.

— Come! il salmo ti libera da pagare i tuoi debiti?

— Non il salmo, ma l’articolo 235 del codice di commercio.

— Va’ via, ragazzo! Non sai che quando il tuo diavolo nacque, il mio andava ritto col gonnellino. La tua non è obbligazione commerciale, bensì civile, e questa si prescrive dopo dieci, non già dopo cinque anni; e poi, dacchè tu sai a menadito i tuoi codici, rammentati il rimedio dell’articolo 2142 del codice civile. Ma la questione, mio ragazzo, non è qui; la quistione è che tu hai impugnato questo biglietto; il biglietto esce fuori, io l’ho raccolto dopochè il soldato te lo ha tratto di gola mezzo [p. 156 modifica] ghiottito; ora, se io lo ripongo in processo, che tu non me lo pagherai in moneta conosco benissimo, lo pagherai però con tanta infamia alla morte.

Il Fadibonni, vedendosi capitato in male branche, fa greppo come 1 fanciulli in procinto di piangere, e gagnolando dice:

— Ma perchè ti provo tanto nemico? Ti ho offeso forse nell’onore? Nella vita?

— No; tu mi hai unicamente portato via quattrini e di molti. Adesso mi capita il destro di rifarmi e me ne approfitto.

— E quando ti ho rubato denari io?

— To’! Questa è nuova di zecca; quante volte tu hai giocato meco, tante non mi hai pelato da mettermi addirittura nello spiedo?

— Io gioco da gentiluomo; tanto vero questo, che per colpa del gioco mi trovo scorticato.

— Amor mio, ciò, se è vero, significa che tu, più esperto di me, mi hai divorato, ed essendoti poi imbattuto in persona più capace di te, ti ha divorato; in terra e in mare pescicani; chi sa che non abbiamo a trovarne anche in cielo.

Il Fadibonni, chinata la testa, pensò; vedremo più tardi a che cosa pensasse; quando rilevò la faccia si conobbe che il demonio, passando, lo aveva schiaffeggiato con la sua ala, ed umilmente prese a dire:

— Fruga da per tutto e ti chiarirai com’io non [p. 157 modifica] possieda cinquanta lire; dammi tempo ond’io possa provvedere; se non riesco mi ammazzerò...

— Riassicurati; ti garantisco io dai tuoi proponimenti micidiali; va’ franco, noi non siamo di quelli che si uccidono; in qualunque articolo del codice penale noi possiamo andare come a locanda. Ti basta un giorno? No? Ebbene, non buttarti al disperato, pigliane due; dunque a domani l’altro, qui, a quest’ora: vale.

E versatosi un altro bicchiere di acquavite se lo rovesciò nello acquaio della gola e parti.

Il maggiore, quando abbassò la fronte umiliata, aveva pensato a certo suo tiro, ma ruminandoci sopra gli ripugnò, perchè ogni uomo possiede limitata la sua potenza di ribalderia, come la statura; per la qual cosa, uscito di casa, si mise a camminare randagio come cane senza padrone; andando in questo modo a casaccio, le gambe, in virtù della consuetudine, lo portarono nella strada dove albergava Abacuc Ottolenghi, usuraio classico fra i più spettabili della città. Abacuc il giorno di sciabà in casa era repubblicano, i giorni di lavoro monarchico savoino; usuraio sempre; però quando si trovava tra i suoi sosteneva sul serio, che dopo ottenuta la libertà dell’usura, gli ebrei non si dovessero assaettare dietro altre libertà: il coronamento dell’edifizio lo avevano conseguito. In gioventù si era lasciato ire fino a mantenere una figurante del teatro, [p. 158 modifica] ed anche un cavallo: sebbene più prossimo ai settanta che vicino ai sessanta anni, nè obliava le palme di amore e nè le sperava: vestiva di tutto punto all’inglese, e per darsene meglio l’aria portava pendenti dalle guance due code simili a quella che la volpe, di gusto migliore, tiene unica attaccata al codione. Abacuc andava lieto di uno Abramino, figliuolo unico, sua cura e sua delizia; a lui rassomigliante come uovo di piccione a quello di lucio. Ora il Fadibonni s’imbattè giusto in costui; e giova sapere come Abramino si fosse per lo addietro intabaccato di Giulia, la femmina che teneva il maggiore a sua posta, e le avesse fatto recapitare più volte biglietti zeppi di desiri molli e di profferte sode; ma Giulia li aveva lasciati senza risposta per moltissime ragioni, di cui queste le capitali: il maggiore le andava a genio più di Abramino; aggiungi il maggiore non accennava ancora di trovarsi al verde, onde, come donna di comprendonio, si attenne alla regola, che chi lascia la via vecchia per la nuova spesse volte ingannato si ritrova; le altre ragioni per cui cotesti voti amorosi andarono a monte non importa dire; basti conoscere che il Fadibonni li seppe, e prima la donna glieli negò con un muso da batterci sopra le monete, poi, mutato consiglio, spontanea glieli confessò per farsene merito presso di lui.

Abramino, coniglio, non già leone di Giuda, [p. 159 modifica] appena sbirciato il maggiore tenta scansarlo, e questi vie più diritta gli mette addosso la prua; si accostano; si urtano quasi; è chiusa ad evitarsi ogni via.

— Signor Abramino, o che le faccio paura? Non sono mica Attila, io. Si rassicuri, e sappia ch’ella mi è stato sempre simpatico.

— Grazie, caro lei, signor maggiore, grazie.

— O che pensa, che io le porti il broncio perchè ella vuol bene alla mia Giulia?

— Creda, caro signor maggiore...

— Credo, signor Abramino, ch’ella non poteva porre il suo affetto in luogo più degno. — Veda: le sue qualità fisiche sono giudicate dall’universale stupende, maravigliose, anzi divine; eppure, di petto alle sue qualità cormentali sono meno che nulla; e ohimè! dopo aver trovato tanto tesoro mi tocca a lasciarlo; ah! destino infame. Sono fuori di me, e per la passione vado per le vie come smemorato.

— Caro lei, o perchè la lascia?

— Dio, che angoscia! Il mio reggimento sta per essere traslocato in Sicilia, e le enormi perdite che ho fatto al gioco mi tolgono la facoltà di condurla meco; io sono ridotto nel duro stato di desiderare una persona proba, dabbene, generosa, che me ne tenesse conto... le usasse i riguardi che merita... Se questo mi riuscisse, mi sentirei meno desolato... [p. 160 modifica] E siccome Abramino, sospettoso, lo guardava sottecchi e non fiatava, il Fadibonni, incalzando, aggiunge:

— Ah! s’ella, signor Abramino, la pigliasse sotto la sua protezione... dacchè so che ama svisceratamente cotesto angiolo... se mi promettesse tenerla come la teneva io... gua’! poichè così vuole il destino, piuttosto lei che un altro.

— Se la spesa non fosse grave; se mi convenisse non sarei lontano dall’accollarmela... si può sapere, caro lei, quanto costerebbe il mese?

— Ecco... io l’aveva, si può dire, quasimente per nulla; per vitto e vestiario cinquecento lire...

— Per nulla! Ma che canzona, caro lei? Il mio signor padre mi ha assicurato più volte che in sua gioventù con cento lire, a sfondare, si aveva fior di roba.

— Ma, signor Abramino, si compiaccia riflettere che altre volte con quarantacinque centesimi si comprava una libra di carne di vitella grossa di prima qualità, ed oggi non bastano sessantacinque per quella di vacca... il porco costa un occhio, quantunque non manchi sul mercato. Consideri ancora che il suo signor padre non gli ha detto s’era solo in affari o in società... ho luogo di credere ch’egli stesse in società, se non in accomandita, almeno in partecipazione.

— Dunque cinquecento lire tutto compreso? [p. 161 modifica]

— Meno l’alloggio, che fa una bagattella... un duecento lire al mese.

— Abramo, babbo dei babbi miei! Ma che crede che li abbia rubati io?

— Lei no... ma via, a questo diamogli un taglio. Confesso aver preso un granchio; e sì che doveva sapere che con voialtri ebrei non si può fare un pasto a garbo. Procurerò menar meco la Giulia, e così risparmierò a questo mio cuore lo strazio di separarmi da così angelica creatura.

— Caro lei, non vada in furia, finalmente è lecito, sotto l’impero dello statuto, a ogni cittadino tirare ai propri interessi; — se si potesse risparmiare qualche centinaio (e siccome guardando in faccia il maggiore vide che a queste parole costui strabuzzava gli occhi, si corresse...) qualche cinquantina... ventina di lire.

Ma l’altro aggrondato esclamò:

— No signore, caschi un quattrino, a monte ogni cosa.

— Ma scusi, signor maggiore, adesso mi viene in mente un dubbio: mi sembra, caro lei, che noi contrattiamo della pelle dell’orso prima di averlo acchiappato; la signora Giulia va d’accordo di essere girata all’ordine mio?

— La Giulia, parola di gentiluomo, di tutto questo è al buio; stringiamo il partito fra noi e poi m’industrierò io per farglielo accettare. [p. 162 modifica]

— Dove non ci è guadagno la perdita è sicura; senta prima, conchiuderemo dopo.

— No, prima stabiliamo, che non vo’ trovarmi in fine ad avere buttato via fiato e passi.

— Come comanda; dunque per seicento lire sta per me.

— Settecento ho detto.

— Va bene; aveva sbagliato.

— Anticipate.

— Anche pagare avanti?

— Certe cose si pagano avanti; consulti tutte le leggi civili e le canoniche e toccherà con mano che si pagano sempre anticipati... sono alimenti, capisce?

— Dove andò il brigantino vada il barchetto; dunque vada e si spicci, che sono aspettato in borsa.

— Giulia, mia divina Giulia, esulta; oggi ti vengo davanti messaggero di liete novelle... io ti abbandono.

— Su due piedi?

— Su due piedi: come vorresti che io ti lasciassi su quattro?

— Ahi, scellerato! Senza lasciarmi un dolce pegno di te? Senza ne anche pagarmi il mese di casa arretrato? [p. 163 modifica]

— Di poca fede! perchè hai dubitato? Da’ retta e veniamo subito a mezzo ferro, che a te preme, come a me, stringere presto il negozio.

— Sono tutta orecchi.

— La necessità mi costringe a lasciarti; il mio reggimento muta di guarnigione; nè la mia miseria mi concede condurti meco, che pure mi sei cara quanto le pupille degli occhi; però non volli palesarti l’animo mio se prima non aveva provveduto per bene le tue faccende; — da me dunque avevi duecento lire al mese?

— Cioè, me le promettesti, ma io non le vedeva mai intere, e per di più a spilluzzico.

— Ora ne avrai cinquecento anticipate, e tutte in un picchio.

— O angiolo mio!

— Nè questo è tutto; per alloggio, servitù et reliqua altre duecento lire, del pari anticipate.

— Bada, maggiore, si muore di piacere come di affanno; ma caso mai ti fosse venuto l’estro di far la burletta meco, ti avverto che ho un paio di granfie da conciarti pel dì delle feste.

— Giulia, non mi fare la cialtrona; io parlo da senno; una difficoltà ci potrebbe cascare, ma verrebbe da te.

— E sarebbe?

— Colui che destino a surrogarmi nel tuo cuore è un ebreo. [p. 164 modifica]

— Non guasta; volterò la Madonna dall’altra parte e tutto sarà accomodato.

— Brava! Libera Chiesa in libero Stato. Dunque ti annunzio un gaudio magno, il mio sostituto è Abramino Ottolenghi.

— Già me l’era immaginato...

— Accetti?

— E come!

— Co’ tuoi bei modi angelici tu arriverai a strappargli le penne maestre: non ti mancherà il cuore; in ogni caso ricorda che ti è affidata la vendetta di mille pelati fin della calugine.

— Circa a questo io ci renunzio, perchè, vedi, amor mio, è più facile pelare un pettine da lino che un ebreo, quantunque innamorato e di nido. Credilo...

— Alla tua esperienza; ci credo e non fiato più: però è bene che tu sappia che tutto questo non ti sarà concesso fruire senza il mio consenso, perchè l’ebreo mette per condizione finale al contratto il pacifico possesso.

— O non lo hai già dato il tuo consenso?

— Io non l’ho dato, ma lo darò a un patto.

— Quale?

— Che delle lire settecento pel primo mese tu me ne abbia a rendere mezze.

— Mezze! Ma che ci pensi? Ed a qual titolo pretendi tanti quattrini? Allora il mercante guadagnerebbe meno del mezzano? [p. 165 modifica]

Il Fadibonni suo malgrado avvampò. Nella guisa che il sole vicino al tramonto manda l’addio dei raggi vermigli al vertice dei colli, il pudore moribondo tinse coll’ultimo rimasuglio del suo cinabro le gote di costui. Riavutosi alquanto, rispose alterato:

— Dei titoli ne avrei parecchi; ti basti quest’uno: l’altra notte, coricandomi allato a te, misi il mio portafoglio sotto il capezzale. Vana precauzione! La mattina lo rinvenni vuoto, e dentro ci aveva messo... se ben ricordo... o cinquecento o quattrocento lire.

— O bugiardo della forza di mille cavalli; io ci trovai uno da cinquanta, tre da cinque, sei palanche e un doppio soldo...

— Dunque sei tu quella che rubasti? Era cotesto il tuo primo furto?

— Sfido io, o che volevi che campassi di aria? Anche il re per capo d’anno lo ha detto.

— Ma io ho giocato per te... ma io mi sono spiantato per te... ma io mi sono nabissato nei debiti per cagione tua! E mentre io mi affatico a crearti stato di regina, a te basta il cuore per lasciarmi morire di stento? Questo è il tuo amore? Questa la riconoscenza?

— Va’ via, matto; attendi la settimana santa per cantare le lamentazioni. Senti, non buttiamo via il fiato; le lire duecento per lo alloggio non si hanno [p. 166 modifica] a toccare, perchè mi bisognerà pure mettermi attorno uno straccio di cameriera. Alle cinquecento che rimangono facciamo così, diamo nel mezzo.

— No; trecento almeno.

— No; duecentocinquanta al più.

— A monte ogni cosa.

— A monte. Bada, cuor mio, vengo di razza di can barbone; gettami in mare quanto vuoi, io mi terrò a galla.

— Ma ti toccherà nuotare; nè sai se ti avverrà, e quando, giungere a riva; e ad ogni modo ci arriverai tutta bagnata. Sopra Abramino non ci potrai fare più assegnamento...

— No! E perchè?

— Perchè guai a lui se ti guarda! Gli metterò addosso una paura da mandarlo in visibilio.

— Ebbene, io cercherò uno che metta paura a te.

— Vien via, sguaiata! non ci facciamo il sangue verde.

— Per me sono amica di tutti.

— E te lo credo senza che me lo giuri; dunque vuoi darmi sole trecento lire?

— Ho detto duecentocinquanta.

— Risolutamente?

— Risolutamente.

— Ebbene, vada per duecentocinquanta.

— E dimmi, quanto mi toccherà aspettare il tuo sostituto? [p. 167 modifica]

— Queste le son faccende che si fanno bollire e mal cocere; vado per esso e te lo conduco subito.

— Delizia mia! Se tu avessi indovinato per tempo la tua vocazione, a quest’ora saresti triplice milionario; ma sei sempre giovane, ed un bello avvenire si distende innanzi a te.

Il Fadibonni non intese le parole della landra, o finse di non intenderle; pauroso che l’uccello se la svignasse dal vergone, aperto l’uscio di casa, si cacciò a scavezzacollo giù per le scale.

— Caro lei, com’è che la vedo tanto rimescolato?

— Abramino, mi compatisca, ahimè! pensando a dovermi dividere da quella divina creatura, mi sento pigliare dal ribrezzo della febbre quartana.

— Per vita mia, io non vorrei essere cagione di tanti disturbi. Quando ci entra di mezzo la passione non si è mai sicuri... e considerando che domani l’altro ella potrebbe pentirsene...

— Domani parto.

— Allora muta specie... e se la signora Giulia acconsentisse...

— Ella acconsente; e confida di essere nell’amarezza che l’opprime consolata da tanto bravo giovane quale ella è. [p. 168 modifica]

— Dunque parrebbe che remosso ogni ostacolo io potessi liberamente presentarmi a lei?

— Aspetti un momento ed avrò l’onore di presentarla io stesso; — prima però mi occorre pregarla.

— Di che?

— Non si spaventi, Abramino: di cosa che lievissima per lei, tornerà a me di supremo vantaggio: ho bisogno di trovare in presto mille lire per tre mesi.

Abramino, facendo il chinese, rispose: — Niente di più facile.

— E viva sicuro di due cose: del pagamento puntuale a scadenza e della mia eterna gratitudine.

— Degli affari di casa io non mi occupo, ma ho motivo di credere che, presentandosi al banco Ottolenghi, vostra signoria non sarà rimandata, somministrando, bene inteso, le debite cautele e pagando gl’interessi di ragione... anticipati.

— Che guarentigia vuol’ella che io le offra? che la mia obbligazione non l’avrebbe a bastare?

— A me basterebbe; ma io sono figliuolo di famiglia; nelle faccende del banco non mi occupo punto; quattrini non tocco. Il mio signor padre mi assegna lire mille al mese, le quali giusto ho riscosso dal cassiere stamattina: di altro non posso disporre.

E per mostrare che diceva la verità, tratto fuori dal portafogli mun biglietto bianco della Banca [p. 169 modifica] Nazionale, lo mise sotto gli occhi del maggiore, il quale, vedendo la bugia trottare sul naso di Abramino, soggiunse:

— Ma a lei non costerebbe niente a procurarseli altrove.

— Dio ne liberi! Se il mio signor padre venisse a saperlo mi diserederebbe.

Allora il Fadibonni conobbe in un attimo come ogni discussione menerebbe a nulla, onde, chiappata la mosca a volo, riprese:

— Pazienza! Pel rimanente cercherò altrove; intanto fo capitale su le trecento lire che avanzano a lei, dopo pagate le settecento a Giulia.

— E allora, caro lei, con che rimango io?

— Oh, a lei ricco sfondolato non mancano mezzi di far quattrini! Intanto pensi che se ho creato debiti l’ho fatto per sopperire al mantenimento di Giulia, che le merci furono portate a casa sua, che dove non le pagassi io potrebbero molestare lei, e però di traverso chi la protegge, e che per cosa al mondo non voglio lasciarmi debiti dietro. Nell’oro io non nuoto di certo, ma mi vanto soldato onorato al pari di ogni altro: sono maggiore; le rilascio un mio pagherò, e veda che libero dalla spesa di Giulia mi sarà molto facile mettere da parte tanto da poterla soddisfare in capo a tre mesi o quattro.

Abramino a sua posta capì come senza lasciarvi anche quel bioccolo di lana da cotesto roveto non [p. 170 modifica] usciva: giovane egli era e intabaccato di Giulia, però la concupiscenza a cagione degli ostacoli rinascenti gli s’inviperiva, onde brontolò questa risposta:

— Via, per amor suo, signor maggiore, mi sobbarcherò anche a questo carico; le presterò trecento lire.

In capo a cotesta contrada, appellata col nome del Cavour, teneva bottega uno ebreo cambiamonete, creatura del padre Abacuc; da lui Abramino si fece dare una carta bollata da pagherò, e porta la penna al Fadibonni gli disse:

— Scriva, io detterò.

— Sono ai suoi ordini.

— Da oggi a tre mesi pagherò io sottoscritto all’ordine del signor Abramo Ottolenghi lire trecentoventi...

— Come trecento venti? non devono essere trecento?

— O gl’interessi chi me li paga? Veda, caro lei, le conteggio uno per cento al mese; un vero regalo; la tratto da fratello.

— Mi pareva che, anche a modo suo, farebbero trecentonove.

— E la senseria? E la provvisione? E il foglio bollato? Caro lei, gliene regalo mezzi. Tiri via.

Il Fadibonni, risoluto a non pagare frutti nè capitale, non istette su lo spilluzzico, scrisse, sottoscrisse, appose la data, fece insomma ogni cosa in [p. 171 modifica] regola: mentre Abramino riscontrava l’obbligazione, il maggiore stese le mani rapaci e pronte sopra i biglietti di minore valuta nei quali il cambiamonete aveva barattato le lire mille, e se li ripose in tasca.

— I miei biglietti! Dove sono iti i miei biglietti? esclamò Abramino non li vedendo più sul banco.

— Non si scarmani, li ho presi io per andarcene adesso insieme da Giulia. Capisce che la nostra delicatezza non le consente ch’ella paghi le settecento lire alla Giulia in mia presenza: parrebbe ch’ella sborsasse il prezzo della mercanzia che io le consegno: con persone bene allevate non bisogna trascurare mai i debiti riguardi: i riguardi, signor Abramino, chiamano lo amore quando non è nato; nato lo mantengono sano.

— Sarà, lo dice lei.

Andarono. Giulia, guardando traverso le stecche della persiana, li aspettava, e il suo cuore batteva forte come un tamburo (sono desolato pensando che ormai il mio lettore non potrà più apprezzare la esattezza di questa similitudine, dopochè il ministro Ricotti ha soppresso i tamburi per far morire d’itterizia il capitan Lamarmora) per la paura che non venissero più. Non aveva serva, andare ad aprire essa le pareva cosa da scapitare nella stima del signor Abramino; non le sovvenendo meglio lasciò l’uscio aperto, onde le comparve addirittura davanti il maggiore, che tenendo per mano Abramino, glielo [p. 172 modifica] dusse presso al canapè dov’ella stava seduta, favellandole con piglio da Agamennone:

— Dal dono apprendi il donatore qual sia.

E Abramino di rincalzo, molto leggiadramente:

— Di certo la mia signora può stare sicura che, se non riuscirò, nulla sarà omesso da me ond’ella non si accorga di avere mutato. Se uno ardente affetto, se una devozione a tutta prova...

— Grazie, mio signore, grazie; il tempo e la sua benevolenza scemeranno il dolore... forse saneranno... saneranno senza dubbio la piaga che ora dà sangue: perchè, veda, Abramino, io sono donna che quando mi ci metto amo col cuore... coll’anima. Maggiore, favoritemi un bicchiere d’acqua.

Il Fadibonni riempito il bicchiere glielo porge, ed ella intanto che lo piglia, chinatasi alquanto, gli susurra nell’orecchio:

— E i quattrini?

Il Fadibonni, tratto di tasca un involto, glielo consegna dicendo:

— Il signore Abramino ti prega per mio mezzo accettare questa piccola offerta dello amore che ti porta affinchè tu possa figurare da pari tua... e secondo la condizione di lui.

Qui un sorriso di Giulia e per giunta uno inchino accompagnati dalle parole: — procurerò farle onore.

Abramino le baciò la mano, ed ella smaniosa di [p. 173 modifica] riscontrare il danaro, di un tratto usci fuori con queste parole:

— Maggiore, l’altra sera ci lasciaste il vostro porsigari — e senza aspettare osservazioni in proposito scappò via; in un attimo verificò se fossero bene quattrocento cinquanta lire quelle contenute nello involto, e tornata col portasigari, mentre lo dava al Fadibonni, ricarabiaronsi fra loro una occhiata, la quale poteva tradursi proprio così: Sgualdrina, non ti sei fidata? — Bisognerebbe avere perduto il bene dello intelletto per confidarsi ad un furfante come sei tu.

— Mia cara Giulia, allora entrò di mezzo a dire Abramino, perdonerà se non posso più a lungo trattenermi con lei, perchè col treno del tocco mi occorre andarmene fino a Casale per assicurare il pagamento di un effetto tornato in protesto col relativo conto di ritorno; di là passerò a Vercelli per assistere alla circoncisione del mio nipote, figlio di mia sorella Esterina e del cognato Anania; poi darò una capata a Milano per vedere un po’ come vanno le faccende del banco sete, che da tre anni mette fuori bilanci magnifici, e poi tra ceralacca e spago non dà un soldo di dividendo: ma che vuol’ella, cara signora Giulia? L'hijo d’un mancer ci fece sottoscrivere mio padre per cento azioni, e da questo, veda, signora mia, che anche le civitte impaniano. [p. 174 modifica]

Tale preludiava Abramino nei suoi amori con Giulia.

Al maggiore pareva mille anni svignarsela, onde di nuovo appressatosi a Giulia, in atto eroico favellò:

— Giulia, addio: non ti raccomando i nostri amori, come fece Augusto a Livia, perchè questa rimase vedova, mentre tu convoli a seconde nozze, e nè meno t’impongo dimenticarmi, perchè so che tanto non è nella tua potestà; ti resti di me la memoria come di un sogno che sopraggiunge su le ale dell’alba e fa risvegliare la dormente alla luce con un sorriso. Nel dipartirmi da voi vi auguro sieno i vostri amori pari al muschio del quale dura perenne il profumo senza mai diminuire di sostanza: bevete infaticabilmente nella tazza della voluttà, e l’amore ve la riempia senza requie a bocca di barile: si rinnovino per voi gli amori come il fieno nei prati, dove rifà capo sotto la falce che lo miete; vivete felici, ruzzolate per un pendio di rose monde da ogni spina dalle mani stesse delle Grazie, e quando giunti al termine del tramite mortale, se il Dio dei cristiani non si trovasse d’accordo col Dio di Moisè per collocarvi insieme in paradiso, vi mandino almeno a domicilio coatto nella stella di Venere; addio, addio.

Sbirciato il cappello di Abramino e vistolo nuovo, mentre il suo declinava al tramonto, se lo mise in [p. 175 modifica] capo, e provato che gli andava, se ne andò via bisbigliando.

— E ora alla busca delle cinquanta lire, e più se riesce.

La signora Radegonda, di cui il casato si tace honestatis causa, era giunta a quella età che non invoglia persona a ricercare qual sia; — la età grigia; tra le ventiquattro e l’un’ora di notte; la età che non è bianca ancora, e il nero muore; dondolante fra i cinquanta ed i cinquantacinque anni, fu moglie buona e mamma meglio di una figlia unica, e sopra il marito e la figlia, finchè vissero, riversò tutto l’acquazzone della sua tenerezza: ma da prima perse il consorte; poi, per colmo di sventura, la figlia; e l’amore sbraciato dal dolore le coceva l’anima spasmodicamente; anch’egli patisce di ripienezza, e in qualche luogo bisogna pure scaricarlo; provò sfogarsi col canarino, col gatto, col cane, ma non li rinvenne bastevoli all’esercizio della sua passione: allora si tuffò a capo fitto nella beghiaeria; e fu peggio, imperciocchè i santi le stessero dinanzi dipinti ed appesi a un chiodo; Cristo di legno, e crocifisso, nè disposto a quanto pareva a sconficcarsi, come fece un dì (lo dicono i preti) per abbracciare santa Caterina di Siena: dei confessori, i giovani avevano grandi faccende altrove, [p. 176 modifica] i vecchi tabaccosi non le andavano a fagiuolo, e la povera donna aveva ragione. Intanto il sodalizio con gli angioli in sembianza di giovani eternamente leggiadri, l’estasi amorose, le preghiere lubricamente devote, le orazioni confettate di misticismo e di libidine, l’amor divino rinforzato coll’acqua arzente del bruciore terreno, avevano proprio ridotto la misera creatura in un mucchio di stoppa, anzi di polvere, o piuttosto in un barile di petrolio. Dio guardi se ci fosse cascata sopra una favilla. Veruna compagnia di sicurtà contro agl’incendi l’avrebbe per tesoro assicurata; — e poi incendio di amore non ha riparo. Di fatti la favilla non mancò. Fortuna volle che dirimpetto alla vedova tornasse di casa il Fadibonni; si videro, si adocchiarono, si salutarono, si sorrisero; costui, spillando lo stato della vedova, la seppe abbastanza comoda secondo il suo stato per la pensione lasciatale dal marito, a dovizia fornita di masserizie, di panni, di ogni ragione orerie, insomma di tutto ciò che i giureconsulti romani distinguevano col nome di mondo muliebre. Ce n’era di avanzo, perchè il Fadibonni se ne mettesse incontinente alla caccia, e non fa lunga impresa, nè ardua: pei bambini balocchi di legno, ai vecchi balocchi di carne: pari in entrambi la concupiscenza di ottenerli, dispari la tenacità di conservarli: quanto facile i primi a buttarli via, altrettanto duri i secondi ad agguantarcisi con tutti i [p. 177 modifica] tentacoli. Ora taluno vorrebbe sapere chi dei due condusse la povera donna al mal passo, l’anima o il corpo. Per me confesso addirittura che non lo posso contentare; primamente, perchè mi riesce diffìcile chiarire distinta la esistenza di cotesti due enti, e supposto che riuscissi a sciogliere siffato nodo, ecco che inciamperei nell’altro, non meno scabroso, di determinare se la materia prevalga allo spirito, viceversa; chi il mandante, chi il mandatario, o piuttosto chi il colpevole in capo e chi il complice. La meschina era cascata dentro una fitta, dove ogni conato per uscirne la faceva sprofondare vie più: peccava, si pentiva, tornava a peccare per ripentirsi poi, e così con perpetuo ciclo logorava ogni estremo residuo di volontà, di pudore, ed eziandio di salute. Dall’altra parte il maggiore, attaccatosi come ruggine alle sue ossa, le sperperava con persistenza scientifica ogni sostanza; orerie, argenti, pannilini, lani, stoviglie, rami tutto insomma mano a mano spariva. Cotesta casa era neve al sole, ned ella si attentava rifiutare nulla, anzi, strano a dirsi! dava volentieri, pensando che le tribolazioni vecchie e nuove provate nel suo traviamento le dovessero andare in isconto dei peccati.

Alla stregua che la roba scemava, le assenze del maggiore infittivano e si prolungavano: adesso correvano mesi che non capitava a casa Radegonda; difatti ci era rimasto tanto olio da mandare un [p. 178 modifica] sospiro di luce: anche la pensione vitalizia della vedova, a cura del maggiore, era stata per parecchio tempo impiegata ad Abacuc, figlio di Anania e padre di Abramino Ottolenghi.

Il Fadibonni ecco si mostra improvviso nella camera di Radegonda, la quale dalla comparsa di lui rimase abbarbagliata, levò supplice le pupille al cielo, le mani congiunse in atto di preghiera, mosse le labbra, ma non potè profferire parola; il peccato aveva preso a nolo dalla beghineria le sue smorfie, ma quel tristo le si accostò carezzevole, la blandì con parole soavi, e siccome ella mostrava non crederci, egli, aggrondate le sopracciglia, proruppe in accenti minatori, perchè la donna smarrita lo pregava per l’amore di Dio e delle anime del purgatorio a placarsi; il maggiore durò un pezzo ingrugnato, alfine parve rasserenarsi, e strettale la mano le disse:

— Addio, a stasera, se posso, verrò a cenar teco.

Rimasta sola Radegonda, per la grande contentezza non capiva nella pelle, le pareva toccare il cielo con un dito: senza porre tempo tra mezzo prese a rovistare per la casa, onde rinvenire robe da potersi fare onore: ahimè! dentro le cantere non tovaglie, nè tovaglioli, nella credenza non posate, non stoviglie su la rastrelliera; di accattarli in presto si peritava; amore vinse vergogna, e con occhi bassi e tremula voce si condusse a chiedere [p. 179 modifica] tutte queste masserizie alle casigliane; delle quali quelle di miglior sangue l’accomodarono, pure commiserando lo stato a cui si era ridotta una signora così puntuale e per bene, altre dispettose gliele negarono, e le tagliarono dietro il giubbone che Dio ve lo dica per me.

Ora mancava il meglio, e come avesse a sopperirci non sapeva; ecco, mentre declina la faccia melanconica, le viene fatto vedere nelle dita, oltre l’anello matrimoniale, un altro ornato di piccoli brillanti, ricordo ultimo della defunta figliuola, fin lì salvati dal rigido saccheggio del maggiore.

Se l’anima le rimordesse ignoro; questo so, che in un attimo si cacciò giù per le scale, e arrivata in fondo consegnò l’anello della figlia alla portinaia, conquidendola a portarlo subito al monte di pietà per impegnarlo; ella poi si trattenne nel casotto ad aspettare: indi a breve l’assalì l’impazienza, perchè ogni tantino cavava il capo fuori lo stambugio della portinaia, come fa la gallina tra le stecche della stia per beccare il granturco nella mangiatoia. Alla fine la portinaia tornò; al monte non avevano voluto dare su l’anello più di trenta lire. La vedova prima desiderò toccare la moneta e ne senti ineffabile compiacenza, poi la rese alla donna prescrivendole recarsi al mercato per comperarvi commestibili e vino. Avuto quanto ella ordinava, si mise intorno ai fornelli soffiando a gote gonfie sul [p. 180 modifica] fuoco, apprestò le vivande, attese a cocerle con religiosa diligenza; di tratto in tratto le gustava, paurosa pigliassero di bruciato, o troppo sapide riuscissero, troppo sciocche; si pettinò, si lisciò, si fece bella... aveva lo specchio davanti e ci si contemplava più spesso che non fosse di mestieri, ma sempre invano, imperciocchè ella badasse allo specchio quanto un re (dispotico o no non fa differenza) al consigliere fedele. Con ardentissimo affetto ella affrettava il tramonto del sole, quantunque l’accostasse di un giorno al sepolcro, e alla età sua un giorno contasse mezzo anno; che importa ciò? per rivedere presto l’amor suo avrebbe dato a patto un anno intero, due anni. Le ossa, come le legna, quanto più sono secche più avvampano.

Verso le due ore di notte venne il desiderato. Qui la Musa fa punto, salta un foglio e ripiglia la storia dal momento nel quale la misera Radegonda, vinta da molte cagioni, massime dalla virtù del laudano a lei propinato in copia dal perfido Fadibonni, giacque nel letto come corpo morto: costui allora pianamente si vesti e si pose a rifrustare sottilissimamente per tutta la casa: delle posate non ci era a fare capitale, le riconobbe di ferro inargentato; tovaglie e tovaglioli lisi, buoni a nulla: peggio le vesti, e per asportarle troppo voluminose nè tali che dessero un filo di speranza le avrebbe accettate il capitano per danaro. Che fare? Dare l’anima al [p. 181 modifica] volo non concludeva, e poi il diavolo da tanto tempo ci aveva acceso su la ipoteca, che non ci era da pensarci ne meno; peggio votarsi ai santi.

Guardò torvo l’addormentata e le vide i pendenti agli orecchi.

— Non basteranno di certo, borbottò fra se, ma sarà sempre qualche cosa — e ci stese sopra la mano bramosa, svellendoglieli in modo così brutale, ch’ella, quantunque dormente, ne gemè. — E ora che si stilla? Di un tratto, toccatasi con la mano la fronte: — Smemorato che sono, esclama: la Madonna! che, lei sveglia, non ho potuto saccheggiare mai. — Eccola! Non manca nulla, aggiunse dandosi una fregatina di mani secondo l’usanza del Cavour, corona, lampada, angiolino e piletta; vera consolatrice degli afflitti!

E la corona, la lampada, la piletta e l’angiolino — fino l’angiolino, che nella destra brandiva l’aspersorio in modo che pareva volesse venire ad uno assalto di sciabola con Lucifero — tutto insomma egli ripose nelle tasche.

Così il soldato adoperava con Radegonda come il prete con Amina: uccelli entrambi da preda.

Compito l’inclito gesto, il Fadibonni si partiva senza spegnere il lume, scalzo, con gli stivali in mano, e lasciando l’uscio spalancato; se non che giunto a mezze scale gli frullò in mente che i casigliani, levandosi di buon mattino e notandolo, sospettosi di [p. 182 modifica] furto non avvertissero la questura, donde scandalo nel vicinato e qualche stroppio per lui; perciò rifece le scale, e chiuso l’uscio con precauzione se ne venne via.

Inesorato come il destino, il capitano Parpaglione nel dì e nell’ora stabiliti comparisce in camera al maggiore: che cosa questi dicesse e facesse per indurre costui a contentarsi di sole cinquecentocinquanta lire non si potrebbe con poche parole significare, e le troppe riuscirebbero sazievoli; bisognò snocciolare una ad una tutte le robe rubate, e fu bazza che il capitano se le accollasse per cinquanta lire, non senza però un pertinace tirarsi pei capelli, onde determinare il valore di ogni pezzo. All’ultimo si accordarono: il capitano, mentre stava per mettere in tasca gli orecchini di oro, osservò come ad uno di essi fosse rimasto attaccato un capello bianco, ond’egli presolo delicatamente tra l’indice e il pollice della destra, fece l’atto di restituirlo al maggiore, accompagnando il gesto con queste parole beffarde:

— Quantunque di argento, non mi può servire; però ti propongo renderlo alla sua amabile proprietaria.

Rimasto solo, il maggiore arse il biglietto e, fatto [p. 183 modifica] un pizzicotto delle ceneri, le pose sul palmo della mano, poi ci soffiò sopra e le disperse al vento esclamando:

— Siate maledette in eterno!

Distrutta la prova, l’avvocato di Curio, il quale d’altronde di male gambe procedeva nella difesa, non potè nè anche avvantaggiarlo con la scusa capace solo ad attenuare la colpa; all’opposto, avendola l’imputato addotta nella istruzione del processo e non la potendo provare, gli concitò mirabilmente contro l’animo dei giudici. Il colonnello unico ebbe a sostenere dentro di sè un’aspra battaglia fra il convincimento morale e la mancanza della prova materiale del fatto; nondimeno anche a lui fu mestieri piegare il capo, e comecchè con mano tremante, pure anch’egli depose il voto funesto nell’urna. Curio ad unanimità di voti uscì condannato a morte.

Tali un giorno, certo non tutti, ma troppo più di quelli che potessero sopportarsi, gli ufficiali dell’esercito italiano; e guai a chi si fosse attentato riprenderli: figlio di madre infelice era costui! La sua sorte pari a quella di Atteone, quando ardì contemplare Diana ignuda; i suoi stessi cani gli si avventarono addosso e lo divorarono; — ed io lo so, che provai cani una ciurma di nati nella terra in cui io pur nacqui: a me risparmiarono lo schifo e il ribrezzo di rammentarli, perchè da loro stessi conficcarono i propri nomi in cima alla forca. Né uomo [p. 184 modifica] nè Dio varranno a staccarli di là ove li attaccarono; essi un giorno serviranno di Faro7 per allontanare gli uomini liberi da questi liti resi infami dalla loro scellerata stoltezza.

O patria! O mia Livorno! in quale abiezione caduta, poichè il sole della libertà col suo calore vitale ad altro non valse che a farti scoppiare fuori le petecchie dei moderati servili, vili e feroci!




Note

  1. Quello che noi chiamiamo the i chinesi dicono tchà; the significa nella lingua loro: comprato, pigliato; noi abbiamo scambiato il nome della merce col verbo mediante il quale ve la offrono.
  2. Assentato — scritto al libro, alla matricola, voce spagnuola venuta in Italia nel secolo xvi; conservata in Piemonte, e da lui estesa odiernamente a tutta la penisola come reliquia di patita servitù.
  3. Fra Agnolo Firenzuola, che ragionò della bellezza delle donne, e se ne intendeva, ecco che pensa intorno alla bianchezza delle donne: «alle guance conviene essere candide; candida è quella cosa che insieme con la bianchezza ha un certo splendore come l’avorio; e bianca è quella che non risplende come la neve. Se alle guance dunque, a volere che si chiamino belle, conviene il candore, al petto basta la bianchezza solamente». Dialogo I, p. 21. — Per me non vo’ lite coll’amoroso abate vallombrosano, ma le facce lustre, inverniciate, mi sembra che si addicano alle bambole, non già alle belle donne; però me ne rimetto agl’intendenti.
  4. Se a Platone, innamorato di Archeanassa, matura di anni, parve vedere gli Amori folleggiare nelle rughe del volto di lei, non parrà strano che a Curio sembrasse vedere il peccato e la morte giocare alla buchetta nei butteri della faccia della vecchia suora di carità.
    Mentre correggeva questo capitolo, mi capitarono i giornali, dove leggo che nella seduta del 13 marzo 1873, nel Parlamento italiano, trattandosi di queste male femmine, fu detto che negli ospedali sono un vero malanno. Dieci anni fa ebbi ad osservare il contegno rapace, gesuitico di codeste gabbiane nell’ospedale di San Francesco di Paola, e non mancai di farne parte al mio buono amico Durando, generale di divisione a Genova.
  5. Cicognara, Storia della Scoltura, l. 4, c. 7.
  6. Schiaffo.
  7. I nomi stanno stampati nel giornale Il Faro, che riportò le proteste degli sciagurati, perchè chiamai assassini peggiori degli austriaci quei soldati che avevano ucciso donne e fanciulli disarmati a Brescia.