I Dogi omonimi di Venezia e le loro monete/Le monete

Le monete

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I massari
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I DOGI OMONIMI DI VENEZIA

E LE LORO MONETE


MEMORIA DEL SOCIO ONORARIO N. PAPADOPOLI


Nell’ordinare metodicamente una qualsiasi collezione, specialmente poi quelle numismatiche, s’incontrano difficoltà e ostacoli che soltanto con lunghe osservazioni e studio diligente si riesce a superare. Parrebbe che ciò non dovesse avvenire per le monete veneziane, perchè la continuità dei tipi e la ininterrotta successione dei Principi che vi posero il loro nome dovrebbero bastare a completarne l’ordinamento cronologico senza dubbi sulle attribuzioni. Pure non è così, e io che ho consacrata tutta la vita allo studio di esse, posso affermarlo con piena conoscenza di causa. Prescindendo dalle monete anonime che durarono lungo tempo conservando a un dipresso gli stessi tipi, e intorno alle quali ho già esposto nella seconda parte della mia opera su Le monete di Venezia i criteri che possono servire a una ragionevole distribuzione cronologica, vi sono le monete dei Dogi che ebbero lo stesso nome di battesimo e di famiglia delle quali rimane dubbia l’assegnazione all’uno piuttosto che all’altro di essi. Non sono molte, a dir vero, perchè i Dogi omonimi dei quali esistono monete sono soltanto sei, e cioè: Giovanni Corner I (1625-1629) e Giovanni Corner II (1709-1722), e quattro Alvise Mocenigo, il primo (1570-1577), il secondo (1700-1709), il terzo (1722- 1732) e il quarto (1763-1768). Siccome le difficoltà che presenta l’attribuzione di tali monete, specialmente per gli ultimi tre di questi Principi, non sono nè poche nè lievi, così ho creduto opportuno dare notizia, prima ancora che esca alla luce la terza parte del mio lavoro ove esse verranno descritte, delle osservazioni e dei raffronti che mi [p. 182 modifica]hanno condotto ad assegnarle, senza per altro avere la pretesa di esporre criteri non suscettibili di qualche variazione.

Le monete d’argento, come quelle che portano le iniziali dei Massari, non presentano difficoltà per l’assegnazione ai vari principati, sebbene possa darsi il caso che le stesse iniziali si trovino sotto diversi Dogi anche a notevole distanza di tempo. E’ infatti cosa nota che nelle famiglie veneziane, come in quasi tutte, i nomi di battesimo si ripetevano costantemente e non solo nei rami principali, ma anche nei laterali, di modo che non è difficile trovare contemporaneamente viventi due o più individui con lo stesso nome e cognome. Per questo mi limiterò per tanto a dare in fine di questo scritto la nota dei Massari all’argento che segnarono con le loro iniziali le monete dei sei Dogi omonimi, restringendo l’esame delle contestazioni agli zecchini e loro multipli e frazioni, e ai soldi e bezzi, monete tutte che, quando hanno lo stesso nome di Principe, non presentano diversità caratteristiche tali da poterle classificare a prima vista.

I due Giovanni Corner regnarono a distanza di quasi un secolo l’uno dall’altro, tempo sufficiente questo perchè le loro monete presentino all’occhio esercitato una certa differenza. Si aggiunga che nel tempo intercorso tra il primo e il secondo venne introdotta nella figurazione dello zecchino una variazione importante e tale da non fare restare il menomo dubbio sull’appartenenza all’uno piuttosto che all’altro. Negli zecchini veneziani fin dalla loro origine si trova figurato il Doge che riceve dalle mani di S. Marco un’asta sormontata da una piccola banderuola; durante il principato di Domenico Contarini (1659-1675) viene aggiunta in cima all’asta una croce, la quale poi vi rimane sola e senza banderuola fino alla fine della Repubblica. Gli zecchini adunque col nome di Giovanni Corner, che hanno la banderuola in cima all’asta, (fig. 1) sono del primo, quelli invece che hanno l’asta sormontata dalla croce, (fig. 4) appartengono indubbiamente al secondo. I primi poi sono rarissimi, forse i più rari della serie veneziana, e questo fatto viene spiegato dai documenti del tempo, i quali ci dicono come la emissione degli zecchini fosse allora limitatissima perchè il tesoro trovava maggior utile nel fabbricare doppie e mezze doppie. Le frazioni, ossia il mezzo e il quarto dello zecchino, (fig. 2-3-5-6) presentano le stesse caratteristiche dell’intero e quindi possono del pari distinguersi facilmente. I multipli poi si [p. 183 modifica]trovano soltanto del secondo, e la cosa appare ovvia, sia perchè ai tempi del primo non si era ancora introdotto generalmente l’uso di coniarli, sia perchè le ragioni che impedivano le abbondanti emissioni degli zecchini semplici dovevano anche maggiormente impedire quelle dei multipli. Non vale la pena di occuparsi delle doppie d’oro e relative frazioni, perchè tutte quelle che si trovano col nome di Giovanni Corner senza iniziali di Massari appartengono al primo, mentre del secondo si conosce una mezza doppia in un unico esemplare esistente al Museo Civico Correr di Venezia con le iniziali I P, Iseppo Priuli Massaro all’oro al tempo della coronazione del Doge. Perchè quest’uso della apposizione delle iniziali su alcune monete d’oro (doppie e frazioni) venne introdotto soltanto al tempo del Doge Nicolò Sagredo (1675-1676) e precisamente quando, smesso l’uso di stamparle come moneta usuale e corrente, si continuò a farne una ristrettissima battitura [p. 184 modifica]per la incoronazione del Doge, occasione nella quale c’era l’abitudine di fare una specie di campionario anche delle monete che ordinariamente non si emettevano più.

I soldi e i bezzi dei due Giovanni Corner vennero sempre distribuiti col criterio della leggenda, assegnando al primo quelli nei quali il nome di battesimo è scritto: IO, e al secondo quelli dove è scritto: IOAN (fig. 7-8-9-10) E questa distribuzione risulta esatta perchè corrisponde a una variazione avvenuta anche nella figurazione di queste monete. La banderuola che sta in cima all’asta tenuta dal Doge è triangolare e a una sola punta fino ai tempi di Silvestro Valier (1694-1700) in cui subisce diverse alterazioni, finchè rimane a due punte, come precisamente si trova su quelli che portano la leggenda assegnata a Giovanni Corner II.

Degli stessi indizi forniti dalla iconografia e dallo stile bisogna servirsi per distinguere le monete battute dai quattro Dogi che ebbero nome Alvise Mocenigo. Cominciando dallo zecchino, [p. 185 modifica]che ci servirà di punto di partenza per determinare i criteri di attribuzione degli spezzati e dei multipli, per identificare quello di Alvise Mocenigo I (fig. 11), vale la stessa norma indicata per quello di Giovanni Corner I. In esso infatti si trova la banderuola1 che manca invece in tutti quelli degli altri tre. Di questo Doge poi non si conoscono le frazioni dello zecchino e nemmeno i multipli, all’infuori di una prova del doppio zecchino che esiste soltanto al Museo Bottacin, e neppure si conoscono altre monete comuni ai tre Dogi omonimi che seguirono a grande distanza di tempo, per cui, con la semplice indicazione ora fornita, esso rimane fuori della disamina da me intrapresa.

[p. 186 modifica]Anche lo zecchino di Alvise Mocenigo IV (fig. 18) si riconosce facilmente per la incisione grossolana comune alle monete artisticamente assai decadenti degli ultimi tre Dogi. Maggiori difficoltà s’incontrano per distinguere gli zecchini dei due Dogi Alvise II e Alvise III, vicini di tempo e somiglianti di stile. Però due piccoli ma caratteristici mutamenti sono avvenuti circa questo tempo nella figurazione del Santo e del Doge che possono portare qualche lume. La figura di S. Marco che, sino dai primi tempi, teneva il libro del Vangelo nella mano sinistra e impugnava con la destra l’asta del vessillo, nel secolo XVI andò lentamente modificandosi perdendo a poco a poco il libro e anche il braccio sinistro, che rimangono confusi nelle pieghe del manto; nell’ultimo quarto di detto secolo la mano che tiene l’asta non è più chiusa, ma, pur rimanendovi appoggiata, si apre in modo da stendere un dito in avanti. Al tempo di Francesco Morosini (1688-1694), alcune monete nuove col tipo dello zecchino e cioè il multiplo di questo e il leone per il Levante, presentano una notevole varietà in questo gesto del Santo, perchè la mano si alza alquanto in atto di benedire, talora toccando l’asta con l’estremità delle dita, tal altra rimanendone un po’ discosta. Però negli zecchini semplici di Francesco Morosini la mano rimane [p. 187 modifica]sempre sull’asta con le dita appuntate, mentre in alcuni di quelli del successore immediato, Silvestro Valier, si trova anche distaccata accennando a benedire. Un’altra novità che pure apparisce per la prima volta nei leoni e nei ducatoni di Francesco Morosini e di Silvestro Valier, è il piccolo segno che serve a indicare la cuffia o camauro che si trova sotto il corno ducale. Questa breve linea o punta non si vede negli zecchini di nessuno dei Dogi che precedono Alvise Mocenigo II, mentre si trova in quelli di tutti i suoi successori. Da queste osservazioni si deduce naturalmente che i pochi zecchini col nome di Alvise Mocenigo, che hanno la destra del Santo appoggiata all’asta e mancano del segno della cuffia, debbano appartenere al secondo (fig. 12), mentre quelli del terzo dovranno avere la destra alzata nell’atto di benedire e il segno visibile del camauro (fig. 13). Siccome però questi due contrassegni si trovano sempre anche negli zecchini di Giovanni Corner II che sta fra i due Mocenigo, così ci è dato concludere che essi siano stati effettivamente introdotti durante il principato di Alvise secondo. Con questi dati io credo si possano con tutta probabilità ritenere del secondo tutti gli zecchini che nella leggenda del diritto hanno una piccola stella dopo il cognome del Doge dei quali si trovano esemplari con la cuffia e senza, con la mano del [p. 188 modifica]Santo appoggiata all’asta ed anche alzata per benedire (fig. 12-bis), mentre in tutti quelli che dopo il cognome del Doge hanno un semplice punto e che io ritengo del terzo, la mano che benedice è sempre distaccata dall’asta ed è visibile il segno del camauro sotto il corno ducale (fig. 15).

Più facile è la cosa per quanto riguarda il mezzo e il quarto di zecchino dove le variazioni del disegno appariscono nettamente. Assegneremo pertanto ad Alvise secondo il mezzo zecchino (fig. 13) che ha il Doge con piccola barba a punta senza il segno della cuffia e il Santo con la mano aperta benedicente ma posta sopra l’asta o molto vicina ad essa e le leggende: ALOY * MOC * e S · M VENE · in colonna, e del pari il quarto di zecchino (fig. 14) con la leggenda: ALOY * MOC e S · M · VE · in colonna, dove il Santo tiene pure la mano alzata ma vicina all’asta e il Doge non porta il segno della cuffia. Al terzo invece dovranno assegnarsi il mezzo zecchino nel quale è nettamente visibile la piccola linea indicante il camauro e la mano del Santo rimane alquanto staccata dall’asta conlaleggenda: ALOY · MOCE. e S · M · VENE · in colonna (fig. 16), e il quarto di zecchino che avendo le stesse caratteristiche, porta la leggenda: ALOY · MOC · e S · M · VEN · in colonna (fig. 17). Le frazioni di zecchino [p. 189 modifica]appartenenti al quarto si distinguono facilmente, come gl’interi, per il lavoro in tutto conforme a quello delle monete dei Dogi vicini (fig. 19-20).

Quanto ai multipli di zecchino, ossia a quei pezzi d’oro più o meno grandi, di valore che varia a seconda del peso, battuti con coni speciali di diametro oscillante fra i 40 e i 50 millimetri, la cosa non si presenta agevole, perchè unica guida è il loro aspetto e conviene pertanto esaminare attentamente tutto quello che di diverso e di affine si può rilevare dal confronto di essi fra di loro e con quelli dei Dogi vicini di tempo.

Sono quattro i coni o tipi dei pezzi che si debbono ripartire fra i tre ultimi Dogi Mocenigo che dovrebbero avere stampato tutti e tre siffatte monete: per potermi orientare più facilmente trovo opportuno cominciare da quelli che presentano minori dubbi sulla loro assegnazione. Un primo conio del quale si [p. 190 modifica]conoscono almeno quattro esemplari del valore di dieci zecchini, ha grandissima somiglianza con l’analogo pezzo del Doge Silvestro Valier, e si deve quindi ritenere del primo dei tre Mocenigo, ossia di Alvise II che ne fu il successore immediato. In esso il doge è figurato con barba lunga e intonsa e con la destra sul petto (fig. 21) come negli antichi multipli di Francesco Molin e di Francesco Morosini il cui tipo era stato modificato soltanto in questo particolare della mano in quello di Silvestro Valier, al quale somiglia esattamente in tutto al resto del diritto, vale a dire nella figura e nel paludamento del Santo e anche nelle tre rose situate nell’esergo. Il rovescio poi è identico tanto da fare l’impressione che possa essere stato fatto con lo stesso conio.

Ad Alvise IV, ossia all’ultimo dei tre, dobbiamo assegnare il conio che servì a battere pezzi da cinquanta, da trenta, da diciotto e da dieci zecchini, del diametro di mill. 50, che al rovescio ha le stelle a cinque punte invece che a sei (fig. 24), perchè e il disegno e l’esecuzione dell’intaglio lo collegano e quasi lo rivelano uscito dalla stessa mano che operò i coni dei due ultimi Dogi Paolo Renier e Lodovico Manin. Allo stesso Alvise IV dobbiamo assegnare i pezzi, meno numerosi, che al medesimo diritto accoppiano un rovescio alquanto diverso, di tipo forse migliore (fig. 23), nel quale sono conservate ancora le stelle a sei punte dei coni anteriori. E questi probabilmente furono stampati nei primi tempi del principato usufruendo per il rovescio di un conio già esistente; consunto e rotto che fu questo si dovette sostituire con un altro lavorato dall’artefice che aveva fatto il nuovo diritto o da qualche suo allievo. Non si può veramente dire che questo sia più brutto dell’altro, appare forse più duro e più freddo; le stelle dell’aureola sono a cinque punte e le parole della leggenda sono divise [p. 191 modifica]da rosette, caratteristica che non fu più mutata sotto i due successori.

Assegnati così con ragioni che mi sembrano abbastanza evidenti, tre dei tipi conosciuti, ne rimane uno soltanto del quale conosco un esemplare da cinquanta zecchini nella mia raccolta e due da dieci in quella di S. M. il Re d’Italia. Esso va naturalmente attribuito ad Alvise III che regnò dal 1722 al 1732, epoca nella quale l’oro affluiva con straordinaria abbondanza nella zecca di Venezia mentre vi era molto scarso l’argento, tanto che di alcuni tipi di monete d’argento non si conoscono che esemplari battuti in oro; sarebbe pertanto assai strano che di questo principe non esistessero i multipli dello zecchino che dobbiamo pure considerare come non ultimo indizio dell’abbondanza dell’oro. A questa attribuzione siamo giunti per esclusione, ma vi può [p. 192 modifica]condurre anche l’osservazione diretta resa più facile dall’avere sgombrato il terreno dagli altri tipi. Questo multiplo infatti non presenta identità e strettissima somiglianza con nessun’altro nemmeno al rovescio, ed ha invece delle caratteristiche proprie speciali che non si ripetono in quelli dei Dogi vicini. Il Santo ha la testa di fronte per tre quarti ed è in piedi sopra due gradini, mentre il Doge ha un cuscino sotto le ginocchia: inoltre per il disegno, per la fattura, insomma per tutto l’insieme corrisponde alle altre monete di questo principe (fig. 22). 25 — O Aggiungasi che le stesse caratteristiche si osservano sopra un pezzo da quattro zecchini battuto con conio di diametro inferiore (35 millimetri) (fig. 22-25) che si conserva nel Museo Bottacin di Padova e che fu sempre giudicato di Alvise III.

Oltre a questi pezzi noti da tempo, qualche anno fa io ne feci conoscere un altro pure col nome di Alvise Mocenigo, del peso di cento zecchini e del diametro di 76 millimetri, il massimo usato dalla zecca Veneta, che avevo allora avuta la fortuna di aggiungere alla mia raccolta (fig. 25). Quando lo pubblicai ero molto incerto se attribuirlo al terzo o al quarto Doge di questo nome, e credetti allora di propendere piuttosto per il più antico, [p. 193 modifica]specialmente a cagione delle analogie che presentava con quelli che anche allora io ritenevo del terzo, vale a dire i gradini sotto i piedi del Santo e il cuscino sotto le ginocchia del Doge. Oggi però la riflessione che altri pezzi di questo diametro e di valore considerevole si conoscono soltanto degli ultimi due dogi, Paolo Renier e Lodovico Manin, e il confronto diligente con essi che mi convenne eseguire per mezzo di impronte e di disegni perchè non era possibile averli sott’occhio contemporaneamente, mi hanno 25 — O persuaso che esso deve appartenere sicuramente all’antipenultimo Doge di Venezia Alvise Mocenigo IV. E’ vero che il principe vi è figurato senza barba, mentre la porta sulle altre monete, ma bisogna anche riflettere che si tratta di un caso speciale, perchè in tutti gli altri pezzi grandi, compresi quelli attribuiti ad Alvise III, il Doge è rappresentato con la barba anche quando in realtà non la portava. La ragione di questo fatto ci sfugge, nè si può affermare che risponda a una rappresentazione tradizionale, perchè i vecchi zecchini, in generale, hanno il Doge con la barba o senza a seconda che egli la portava o no. Anche le rosette fra le parole delle due leggende costituiscono una particolarità dei multipli degli ultimi Dogi, mentre in quelli dei [p. 194 modifica]predecessori vi sono piccole stelle e punti. Ma ciò che tronca ogni esitazione è il disegno e il lavoro d’intaglio di questi tre pezzi di massimo modulo che appariscono indubbiamente usciti dalla stessa mano, purtroppo molto infelice e negligente. Una vecchia abitudine dei raccoglitori di monete veneziane, la quale del resto potrebbe avere origine dalla tradizione orale, assegna ad Alvise II i soldi di mistura con la leggenda: ALOY * MOC (fig. 26), e al terzo quelli con la scritta: ALOYS * MOC (fig. 28). Un piccolo dettaglio che si può osservare in queste monete dimostra l’esattezza dell’attribuzione. Da Antonio Priuli fino a Nicolò Sagredo, a destra dell’asta tenuta dal Doge c’è una banderuola della solita forma triangolare qualche volta ondeggiante, simile a quella che si vede anche sugli zecchini di Antonio Priuli e dei suoi successori fino a Domenico Contarini. Nei soldoni di Francesco Morosini e in alcuni di Silvestro Valier questa banderuola si assottiglia fino a diventare una semplice linea leggermente ricurva: in altri, pure di Silvestro Valier, passa a sinistra e assume una forma rettangolare, lunga e stretta, in altri infine scompare del tutto. Dei soldoni portanti la leggenda che si attribuisce ad Alvise Mocenigo II, alcuni mancano appunto della banderuola, altri invece, e sono i più, hanno una banderuola a due punte volta [p. 195 modifica]a destra, della stessa forma che troviamo in quelli di Giovanni Corner II che ne fu il successore immediato. Quelli che vengono assegnati ad Alvise III hanno del pari la banderuola a due punte, ma queste terminano in fiocchi, ornamento che compare per la prima volta e si conserva sotto Carlo Ruzzini. Per l’assegnazione dei bezzi possiamo attenerci alle leggende che presentano le stesse diversità mentre le altre differenze si vedono meno nitidamente (fig. 27-29).

I soldoni di Alvise TV (fig. 30) hanno la croce posta in cima al l’asta più grande di quella che si trova sulle monete corrispondenti dei due Dogi omonimi anteriori e, oltre a ciò, presentano una somiglianza ‘grandissima con quelli dei Dogi che lo precedettero e lo seguirono immediatamente, che sono visibilmente diversi da tutti quelli finora esaminati. Questo criterio della somiglianza straordinaria con le monete viciniori ci ha servito anche per le monete d’oro e serve per conseguenza anche ad escludere l’esistenza di bezzi che possano assegnarsi a quest’ultimo Doge che ebbe il nome di Alvise Mocenigo.


Note

  1. Veramente nell’esemplare disegnato la banderuola non si vede e la lettera D è posta in modo da sostituirla: questo avviene non di rado negli zecchini anche di altri Dogi di quel tempo.