Atto IV

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Atto III Atto V
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ATTO IV

SCENA I

Bolognino servidore.

          Io ho aspettato, ben tre ore, Albizo
          e Fazio mie’ padroni; e ancor non tornano.
          E’ bisogna che l’un altrove desini,
          l’altro sie dietr’all’Aldabella. Possomi
          ormai uscir di casa, che giá vespero
          è sonato. Ma ben mi maraviglio:
          che, portando la veste a colei, Albizo
          mi disse pur, com’ave’ fatta l’opera,
          di tornar qui, come gl’impose Fazio,
          per pigliar i danar che s’hann’a spendere.
          Gli è forza che l’abbia trovato ed abbia
          fatto ’l bisogno. Vogli’ andar a intendere
          quel che gli ha fatto, acciò che, bisognandoli,
          gli possa dar aiuto. Ma oh! Tornano
          ancor le genti a desinar, ch’i’ veggio
          qua Alamanno. Gli è forse miglior ora
          ch’i’ non pensava. Ma sia. Voglio intendere,
          una volta, in che grado si truov’Albizo.

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SCENA II

Alamanno giovane solo.

          Oh come mi dispiacciono certi uomini
          che, contro il voler tuo, talor ti tengono
          a desinar con esso lor, credendoti
          far cosa grata! I’ non son a disagio
          mai tanto stato quanto questo spazio
          di tempo nel quale il mie’ zio tenutomi
          ha a desinar per forza. Se piú giovane
          fusse stato, i’ gli are’ detto alla libera
          quel ch’i’ avev’a far: che son certissimo
          m’arebbe dato una buona licenzia;
          che simil cose ogni di non accaggiono,
          anzi, forse, mai piú potrommi abattere
          a una tal ventura. Oh sorte pessima!
          Ben m’abbattei in mie* padre, che sforzassimo
          far, a punt’oggi, questa cerimonia
          di visitar el zio perché tenessimi
          a desinar! Oh se fussi possibile
          ch’i’ fussi a tempo! So pur che la lettera
          cortesemente fu presa; e, se Cambio
          gli ara dat’agio, so ch’ara il debito
          fatto del contrasegno. Ma io veggiolo,
          per Dio! Oh gran ventura! I’ ti ringrazio,
          Amor, che tu mi fa’ me’ ch’i’ non merito.
          I’ vogli’ entrar in casa, che certissimo
          son che Cambio non vi è; ch’el contrasegno
          levato avrebbe. Ma ’l vedrò; che l’uscio,
          se gli è ’n casa, non sará aperto. Vedemi
          alcun che mi conosca? No. Ben passaci
          dimolta gente. Oh Dio! Come mi guatano
          costor! Che fo? Vogli* entrar alla libera;
          che, quando si sta in dubbio, a cose simili,,
          si dá maggior sospett’a que’ che veggono.

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SCENA III

Albizo giovanetto, Bolognino servidore

.

          Albizo. Conosco or, Bolognin, per sperienzia
          che non si può trovar pena piú aspera
          che quella che gli antiqui imaginaronsi
          ne l’inferno patir, fra gli altri, Tantalo:
          ch’era assetato; ed ave’ la freschissima
          acqua presso alle labra; e ’mpossibile
          gli era il gustarne.
          Bolognino. Lasciam ir le favole.
          Che dice il vecchio?
          Albizo. Che ha mutat’animo,
          quant’al mandarm’a Viterbo; e ch’i’ mettami
          a ordin, che diman vuol che si publichi
          el parentado.
          Bolognino. E l’Aldabella?
          Albizo. Escludemi
          di casa, se io prima non li annovero
          se’ scudi d’oro che io ho promessili.
          Bolognino. Ha ella in casa la Spinetta?
          Albizo. Havvela.
          Bolognino. Caviannela per forza.
          Albizo. Deh! Caviannela.
          Bolognino. V’appiccheresti, ch? Ah! Sono agevoli
          queste ta’ cose a dire; e poi difficili
          a farle. Ma dite un po’: non potrebbesi,
          stasera, al buio, andarvi? e far ogni opera,
          con cenni fuori, che ella, conoscendovi,
          v’aprissi l’uscio? e poi con voi venissene,
          benché Aldabella non voglia?
          Albizo. Potrebbesi.
          Ma ella n’ara fatto, intanto, copia
          a un altro; il qual seco ara menatola.

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          Bolognino. Non si mena una si presto. E poi, s’amavi,
          non sarie per andar.
          Albizo. Troppo è voltabile
          la donna. E poi sol ama chi promettete
          e chi le dona.
          Bolognino. Cotesto è verissimo.
          Ma che partito s’ha a pigliar?
          Albizo. Consigliami,
          Bolognin mio.
          Bolognino. Per Dio, che poco ordine
          ci veggio.
          Albizo. Ah Dio!
          Bolognino. Orsú! Non perdiam l’animo;
          ch’agli audaci è fortuna favorevole,
          non a’ timidi. Ora è la casa libera.
          Non sapete industriarvi, che non manchino
          dieci ducati?
          Albizo. In che modo?
          Bolognino. Oh! Intendetelo
          da voi.
          Albizo. T’ho’nteso. I’ vo’ mandar a vendere
          tanta roba ch’i’ facci questo numero
          di danari.
          Bolognino. Ve’ che pur intendestila!
          Albizo. Ma e’ ho a mandare?
          Bolognino. Mandate la coltrice,
          non potend’altro.
          Albizo. E se, ’ntanto, il mie’ vecchio
          giugne in casa?
          Bolognino. Andrá mal. Ma ingegnatevi
          di spedir presto: ed io, arrivandoci,
          mi sforzerò, con qualche nuova favola,
          mandarlo in qualche luogo, per darvi agio;
          perché, s’a punto in sul fatto non còglievi,
          modo non mancherá di scapolarcene.
          Poi, non avend’altro, direm d’essere
          stati imbolati. E, di poi, egli pensivi.

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          Albizo. Per Dio, questo mi piace. Sii! sii! Faccisi.
          Va’ per duo figli.
          Bolognino. Andrò. Ma vedete, Albizo,
          non riuscendo netta, non riversisi
          la broda a dosso a me; che penitenzia
          non vo’ far de’ peccati d’altri.
          Albizo. Credi tu
          ch’i’ lo facessi mai?
          Bolognino. Voi siete giovane
          e saresti scusato. Io sarei il perfido
          ch’are’ fatto e detto. E sai? Punisconsi,
          e’ nostri par, senza misericordia.
          Albizo. Io lo so; ma non dubitare. Spacciati!
          Va pe’ facchin, adesso; ma prim’aprimi
          l’uscio.
          Bolognino. Oh! Gli esce di casa a punto Cambio.
          Non vo’ vi veggia entrar in casa.
          Albizo. Piacemi
          cotesto aviso. Aspettiam che ei partasi
          di qui; poi enterrò: si che non abbia
          de’ nostri affar a dar ragguaglio al vecchio.

SCENA IV

Cambio vecchio, Bolognino servidore, Albizo giovanetto.

          Cambio. Vedi che pur le golpi anco si pigliono!
          I’I’ho serrato dentro nella camera
          terrena; e le finestre ho tutt’a nottola
          suggellate. Or vogli’anch’a l’uscio mettere
          il chiavistello e serrarlo benissimo
          a chiave. E, se li scappa poi, tignimi!
          Bolognino. Oh! Che pensier è ’l suo? E’ serra l’uscio
          a chiavistello?
          Albizo. Certo, debbono essere
          le donne fuori.

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          Bolognino. O forse vuole andarsene
          con Dio. Chi sa?
          Albizo. A posta sua. Pensivi
          a chi tocca.
          Cambio. La chiave è tutta ruggine;
          e debole anco, per ciò che l’adopero
          di rado; e servirammi malagevolemente.
          Pur, proverrò. Sare’ ben ugnerla
          un poco, e poi lavorerebbe meglio.
          Oh! oh! Ce l’ho pur messa. È un miracolo!
          E tanto ho fatto che potut’ho svolgere
          e la stanghetta nel suo buco mettere;
          ch’el bucinello sta forte. Or escine,
          se tu puoi; ch’i’ tei perdono. Or vò’subito
          cercar di chi m’aiuti finir l’opera:
          che, s’i’ posso ottener che elli sposila,
          vadia con essa po’ a suo’ post’a Genova;
          ch’i’ sarò allor di tutti e’ pensier scarico.
          Albizo. Pure ha voltato il canto. Or apri l’uscio,
          ch’i’ entri.
          Bolognino. Ecco ch’i’ apro. Che Dio prosperi
          questa tuo’ impresa.
          Albizo. Or va’, ch’in casa aspettoti.

SCENA V

Gianni servidore solo.

          Per mie’ fé, che i vecchi han proprio il diavolo
          nell’ampolla. Non puossi esser si cauto,
          nelle faccende, cHe non se n’accorgino.
          Non mi mandò senza cagion a Fiesole
          il padrone: non giá perché rendessimi
          il conto il fattor, che necessario
          non era or questo; ma acciò che levassimi
          di qui e non potessi, in questa pratica

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          della Lucrezia, a Alamanno porgere
          aiuto. Che ara e’ fatto? Io dubito,
          da un canto, che non sia stato timido;
          da l’altro, spero ben, per ciò che sogliono
          gl’innamorati far cose del diavolo.
          Ma oh! L’uscio è ’nchiavistellato. Che diavolo
          vorrá dir questo? Oh! oh! Qui son le luia
          serrate a fatto. Gli hanno forse sgombero.
          Chi sa? Io non so ’ntender questa storia;
          e, se io non ritrovo il vero, ispasimo.
          Vogl’ire a casa, per ciò che possibile
          è trovarvi Alamanno che raccontimi
          il tutto; e, se non vi è, io delibero
          tanto di lui cercar ch’io ritruovilo.

SCENA VI

Fazio vecchio, Bolognino servidore con dua facchini.

          Fazio. Ve’ che feci pur ben, a tór la lettera
          di questo ladroncello, a far quest’opera!
          Che mi è stato un gran mezzo ch’i’ recuperi
          i mia danar: che, come gli Otto veddero
          10 scritto di suo’ man, come trovavasi
          dumila scudi mia, mandaron subito,
          senza pensarvi sii, un lor famiglio
          a l’osteria, per essi; e me li dierono
          che non mancava un quattrino. E a lui fecero
          comandamento che al loro uficio
          comparissi: che non credo che faccia.
          Piú presto, penso, se n’andrá in dileguo
          colle trombe nel sacco. Ma non portami.
          Vadia or dove gli par; solo bastami
          aver el mio riavuto. E’ fu ottimo
          consiglio, questo; e piú breve e piú facile.
          Il resto lascerò or far a Cambio.

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          Me ne vo’ ir a casa, acciò che mettali
          in luogo salvo; ch’a dosso mi pesano.
          Ma vegg’io Bolognin che dietro menasi
          dua facchini. Egli è desso. Che disegno
          fa costui?
          Bolognino. Or siam a casa. Muovetevi.
          Ma oh! oh! Tornat’a dietro.
          Facchino primo. Che diavolo
          avesti?
          Facchino secondo. Che cos’è?
          Bolognino. Sii via! Partitevi,
          che non ho piú di vo’ bisogno.
          Facchino primo. Pagami,
          se vuo’ mi parta. Non è ragionevole
          levarne di mercato, e poi mannarcene
          senza pagar.
          Facchino secondo. Ti credi fare strazio
          di noi? No, no! Dacci quel che promessone
          hai, che, altramente, non ci è ordine.
          Non vo’ star forte, intenni?
          Fazio. Che combattono
          costor insieme? Bolognino!
          Bolognino. Andatene,
          che vi pagherò poi.
          Facchino primo. Tu vuo’ la baia,
          nch vero?
          Fazio. Bolognino!
          Bolognino. Oimè, diavolo!
          Partitevi, di grazia. Messer!
          Facchino secondo. Pagami,
          e partirommi.
          Facchino primo. Non vo’ tante chiachiere
          né tanti cenni.
          Bolognino. Eh via! che motteggiomi
          con esso voi.
          Facchino secondo. Che motteggi?

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          Fazio. Che vogliono
          questi facchin?
          Bolognino. La lor improntitudine
          fa che d’intorno non posso spiccarmeli.
          Fazio. Che ha’ tu a far con lor?
          Bolognino. Non ho bisogno.
          Vedete che io davo lor licenzia;
          ma son impronti. Andate via.
          Facchino primo. Favole!
          Non penso d’andar via, se non paghimi.
          Fazio. Se tu non ha’ bisogno, perché levili
          di mercato? a che fare?
          Facchino secondo. Messer, toltoci...
          Tu accenni?
          Bolognino. Che accenno?
          Facchino secondo. ... ha acciò portassimo
          duo fasci.
          Fazio. Che fasci?
          Facchino secondo. Pur accennimi?
          Duo fasci, si.
          Bolognino. Burlavo.
          Fazio. La vo’ intendere.
          Perch’ha’tu tolto i facchin?
          Bolognino. Deh! Lasciateli
          andar. Ve lo dirò.
          Fazio. Che t’importa essere
          qui lor? Di’ su! che vo’ la cosa intendere.
          Bolognino. Gli arò poi a pagar.
          Fazio. Non porta.
          Bolognino. Cambio...
          Fazio. C’ha Cambio?
          Bolognino. ... mi pregò che io menassili
          a lui.
          Fazio. Che ne vuol far?
          Bolognino. Credo che sgomberi.
          Ma non son stato a tempo, che servitosi

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          debb’esser d’altri ed ito via; che l’uscio
          ha serrato a chiavistello (ponetevi
          mente) e le finestre ancor (guardatevi)
          sono serrate tutte.
          Fazio. Oh! Che domine
          vorrá dir questo?
          Bolognino. Non so.
          Fazio. Che accadutoli
          può esser, ch ’un partito cosí subito
          ha preso?
          Bolognino. La pazzia l’ha tócco.
          Fazio. Or mandali
          via. Da’ lor qualcosa; e poi rendere
          te li fará’da lui. Ma io dubito
          non ci sia altro.
          Bolognino. Che altro?
          Fazio. Ov’è Albizo?
          Bolognino. Oh! Ve l’avev’a dire. Egli aspettavi
          al «Diamante», che ha un grandissimo
          bisogno di parlarvi.
          Facchino primo. Ora spacciatene.
          Non fa per no’ star qui.
          Fazio. Orsú! Accordali.
          Facchino secondo. Chi n’ha pagar, messer?
          Fazio. Ehi, dico! Escine;
          da’ lor licenzia. E po’ ne va’ da Albizo;
          di’ ch’i’ sarò or lá.
          Bolognino. Oh! Gli era meglio
          ch’andassi ora.
          Fazio. Perché?
          Bolognino. Non so la causa.
          Ma vi voleva subito; e ciò imposemi
          ch’i’ vi dicessi: che forse qualch’opera
          avete a far.
          Facchino primo. Chi ci paga?
          Bolognino. Aviatevi,
          che vi pagarò io.

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          Fazio. Fa’ quel che dicoti.
          Non ti dar tanti impacci; ch’or ir voglione
          in casa.
          Bolognino. Oimè! ch’e’ vi troverrá Albizo,
          che fardello fará con suo’ man proprie.
          Senio spacciati!
          Facchino secondo. Non bisogna fingere.
          Pagaci, prima, e poi teco lamentati
          quanto ti par.
          Bolognino. Oh Dio! Che rimedio
          sará il nostro?
          Facchino primo. Pagaci. Pur forbice!
          L’è quella bella.
          Bolognino. Che vi venga il canchero!
          Andatevi con Dio. Su! Levatemivi
          dinanzi, ch’orama’ m’avete fracido.
          Facchino secondo. E a te venga lo mal di san Lazzero!
          Bolognino. Non vi vo’ pagar, dico.
          Facchino primo. E co’ diavolo
          fará’non ne pagare?
          Bolognino. Ignorant’asino!
          Facchino primo. E chiami asino me?
          Facchino secondo. Dalli del cercine.
          Or, cosi.
          Facchino primo. Vo’ ch’empari a voler dondolo
          de’ fatti nostri.
          Bolognino. Ah! S’i’non fussi a l’uscio
          del padron...
          Facchino primo. Che faresti?
          Bolognino. I’ vogl’irmene;
          che, stando qui, sarebbe doppio scandalo.
          Vi troverrò altrove.
          Facchino secondo. Vo’ che trovici
          allo «Frascato».
          Facchino primo. Di calcagni pagaci!
          Facchino secondo. Orsú! Quest’altra volta farem meglio.
          Andiamone con Dio. Pazienza!

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SCENA VII

Messer Rimedio, Girolamo ciciliano vecchi, Gianni servidore.

          Messer Rimedio. La prima cosa, i’ vo’ ch’alia «Graticola»
          andiam e domandiam con diligenzia
          di lui; che, se per sorte ivi troviamolo,
          state sicuro ch’i’ gli farò mettere
          le man a dosso.
          Girolamo. O messer Rimedio,
          certamente io arò con voi tropp’obligo.
          Messer Rimedio. Non vogli’ obligo alcun, che troppo increscemi
          di voi. Vienne anco tu, Gianni.
          Gianni. Eccomi.
          Messer Rimedio. Quest’è la nostra strada.
          Girolamo. Oh, per Dio! Eccolo
          di qua.
          Messer Rimedio. Qual è?
          Girolamo. Colui e’ ha quella femina
          con esso seco.
          Messer Rimedio. Oh! Costui è un publico
          ruffian. Io non ne vo’ piú. Aspettiamolo.

SCENA VIII

Bernardo Spinola, Spinetta fanciulla, Messer Rimedio,

Girolamo, Gianni.

          Bernardo. Non temere, Spinetta; e non piangere:
          che tu ha’ avuta una sorte grandissima,
          che io t’abbi trovata. Meglio abbatterti
          non ti potevi. Sta’ pur in proposito
          di dir ch’i’sie tuo fratel. Questo è ottimo
          partito ed ancor piú onorevole
          per te.

[p. 392 modifica]

          Spinetta. Cosí farò.
          Bernardo. Io son da Genova
          venuto per maritarti; e a quest’Albizo
          ti darò, se egli ti vorrá.
          Messer Rimedio. Lasciateli
          prima parlar a me; né cosí subito
          vi scoprite.
          Girolamo. Si ben.
          Gianni. I’ farò il mutolo.
          Messer Rimedio. Non dico a te; non ha’ a parlar tu. Giovane,
          dove ne vai con cosí bella femina?
          Bernardo. Qui presso, gentiluom. Perché voletelo
          cosi saper?
          Messer Rimedio. Per ben. Che apartieneti,
          se ti piace?
          Bernardo. Quest’è una mia sirocchia,
          che gran tempo è ch’i* non la vidi; ed oggi
          l’ho ritrovata.
          Messer Rimedio. Onde sei?
          Bernardo. Di Cicilia.
          Messer Rimedio. Di qual cittá?
          Bernardo. Palermo.
          Messer Rimedio. Come chiamiti?
          Bernardo. Giulio Fortuna.
          Messer Rimedio. E ’l padre tuo?
          Bernardo. Girolamo.
          Messer Rimedio. Che fai in questa terra?
          Bernardo. Adesso stomici
          per mio sollazzo. E giá ben fui essule
          da casa mia; ma or son fatto libero
          e poss’ir dove i’ voglio.
          Messer Rimedio. E la sirocchia
          com’ha nome?
          Bernardo. Spinetta.
          Messer Rimedio. Or vo Girolamo,
          che dite contr’a questo?

[p. 393 modifica]

          Girolamo. Che gli è un pessimo
          assassino e un baro; ch’attribuiscesi
          il nome del mio figliuolo che uccisomi
          ha.
          Bernardo. Che mi dite voi? Non vo’ rispondere
          come meriteresti; ma sol dicovi
          che io son udoi da ben.
          Messer Rimedio. Non puoi essere
          uomo da bene, se attribuisciti
          il nome d’altri.
          Bernardo. Come attribuiscomi
          il nome d’altri? Io dico che son Giulio ^
          Fortuna, da Palermo, e di Girolamo
          figliuolo.
          Girolamo. Mio figliuol non sei tu.
          Bernardo. Sommelo,
          cotesto, perché tu non se’ Girolamo
          Fortuna.
          Girolamo. Cosí non fuss’io, povero
          me!
          Bernardo. E ben pover! Guarda se sa fingere!
          Come se, altra volta, non avessimi
          parlato e detto che eri da Trapani!
          Ma tu non mi trapanerai.
          Girolamo. Io dissilo,
          si, ma per iscoprir me’ le tuo’ trappole.
          Bernardo. Trappole son le tua.
          Messer Rimedio. Io dubito
          ch’e’ non sien duo ribaldi.
          Bernardo. Questa giovane
          chiarirá il tutto; che, se sei Girolamo,
          saresti ’l padre suo.
          Messer Rimedio. Riconoscetela
          voi, Girolamo? Guardate.
          Bernardo. Si; guardala
          bene.

[p. 394 modifica]

          Girolamo. Oh Dio! Io riconosco l’aria.
          Questa è la mia figliuola, certo.
          Bernardo. Proprio
          tua figliuola? Ve’, se fa le stimite!
          E quanto egli ha penato a riconoscerla!
          Messer Rimedio. V non so che mi dire.
          Bernardo. Oh! Discostati
          un po’; non tante carezze.
          Messer Rimedio. Lasciatemi
          parlargli un po’ da me a lei.
          Bernardo. Parlateli
          quanto vi piace.
          Girolamo. Si ben.
          Messer Rimedio. Dimmi, giovane:
          è questo il padre tuo?
          Spinetta. Non so giá dirvelo;
          perché, quando lo persi, io ero piccola.
          Messer Rimedio. Che fu di lui?
          Bernardo. Or questo ben desidero
          ch’ella vi dica.
          Messer Rimedio. Lasciate rispondere
          a lei.
          Bernardo. Di’ sii! E’ par che tu ti periti.
          Qui non è alcun che t’abbia a far ingiuria.
          Spinetta. Affogò, el poveretto.
          Bernardo. Orsú! Non piagnere,
          che ha’ trovato el fratello. Ch’altro intendere
          volete?
          Girolamo. Tu ne menti.
          Bernardo. Anzi, tu mentine,
          baro!
          Messer Rimedio. Di grazia, lasciate il combattere,
          s’el ver volete trovar.
          Girolamo. Non desidero
          giá altro.
          Bernardo. Né anch’io.

[p. 395 modifica]

          Messer Rimedio. Dunque, lasciatemi
          parlar quietamente.
          Girolamo. Contentissimo
          son io.
          Bernardo. Ed io.
          Messer Rimedio. Dimmi un po’: vedestilo
          affogar, tu?
          Spinetta. Veddi la nave propria,
          o v’era, andar in fondo.
          Bernardo. Dunque, essere
          non può giá qui.
          Messer Rimedio. Che dite or voi, Girolamo,
          a questo?
          Girolamo. Dico che vedde somergere
          una fusta ove io fui, che verissimo
          è questo; ma di quella giá cavatone
          ero stato.
          Bernardo. Oh! Gli ha trovata la gretola
          ond’uscir.
          Messer Rimedio. Per mie’ fé’, ch’i’ son in dubbio
          a chi mi debba di questi duo credere.
          Bernardo. Ascoltate, gentiluomo, di grazia.
          Gli è, in questa terra, un altro testimonio
          che, bisognando, proverrá il medesimo.
          Girolamo. Sará un tristo; ch’e’ ribaldi sogliono
          favorirsi l’un l’altro.
          Bernardo. Tu ribaldo
          sei, dico, e un truffatore.
          Messer Rimedio. Ecco a combattere?
          Girolamo. E chi sará costui?
          Bernardo. È un mio fedelissimo
          servidor che fu anco di Girolamo
          mio padre.
          Messer Rimedio. Non sará fuor di proposito.
          Gli è ben che noi l’udiamo.
          Girolamo. Come chiamasi
          questo tuo servidor?

[p. 396 modifica]

          Bernardo. Piro si nomina,
          piamontese.
          Girolamo. E Piro è vivo?
          Bernardo. E trovasi
          in questa terra.
          Girolamo. Orsú! Piro producasi:
          e, se non mi conosce per Girolamo
          Fortuna, siemi fatto quel ch’i’ merito;
          ma, se dice giá mai che ei sia Giulio
          mie’ figliuol, i’ vo’ certamente credere
          non esser piú ch’i’ son.
          Bernardo. Questo fia facile.
          Girolamo. Si. Ma non sará Piro, poi.
          Bernardo. Veggasi.
          Messer Rimedio. Veggasi: e’ dice ben.
          Bernardo. Orsú! Lasciatemi
          ir con mie’ sorella.
          Girolamo. Questo non piacemi.
          La mie’ figliuola vo’ i’ qui. Tu vattene
          dove ti pare.
          Bernardo. E tu ritener credimi
          la mie’ sorella? Non fie ver; non usansi
          questi modi, in Firenze. Domandatela,
          gentiluom, se vi piace, se fratello
          gli sono; e i’ son contento al tutto starmene
          al detto suo.
          Messer Rimedio. Che di’, fanciulla?
          Spinetta. Dico
          di si; ch’è mio fratel.
          Bernardo. Che testimonio
          altro volete?
          Girolamo. Io son tuo padre?
          Spinetta. Dubito
          di questo, che non posso riconoscere
          mie’ padre.
          Girolamo. Né manco puo’ riconoscere

[p. 397 modifica]

          il fratello. Ti sei lasciata svolgere,
          meschina te! perché tu non consideri
          che fine sará ’l tuo.
          Messer Rimedio. Orsú! Non piagnere.
          Girolamo. L’ha ragion. I’ ancor tener le lagrime
          non posso.
          Bernardo. Non facciam qui tante storie.
          Lasciatem’ir pel servidor.
          Messer Rimedio. Ascoltami,
          fratel. I’vo’ che tu ti lasci svolgere
          a me e che ti attenga al mio consiglio,
          r vo’ che tu mi lasci questa giovane,
          o tuo’ sorella o altri che sia (odimi),
          qui, in casa mia: che si stará con mogliama,
          e non con altri, in fin che questo dubbio
          sia resoluto se tu se’ quel Giulio
          che tu ci di’ e se questo è Girolamo
          che tu nieghi e che egli afferma d’essere;
          e, se tu ara’ ragion, io promettoti,
          da gentiluomo ch’i’ sono, di renderla
          a te proprio. Che ne di’?
          Bernardo. Che quietomi,
          se piace a lei.
          Messer Rimedio. E tu che di’?
          Spinetta. Ahi misera
          me! Io farò quel che vi piace.
          Messer Rimedio. Or vattene
          qua in casa.
          Bernardo. Va’ pur: che io sarò subito
          qui con Piro; ed alfin sará’lietissima.
          Messer Rimedio. Gianni, chiama le serve, che la menino
          su. s,
          Gianni. Olá, Pasqua! Mena questa giovane
          dalla padrona, su, nell’anticamera.
          Messer Rimedio. Or va’ via a tuo’ posta. E fa’ che menici
          qui il servidor, che si ritruovi il bandolo

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          di questa matassa. E noi aspettiamoti
          qui fuori.
          Bernardo. Ecco ch’i’ vo.
          Messer Rimedio. E voi, Girolamo,
          siate contento a questo?
          Girolamo. I’ vi ringrazio
          e contento ne sono; ma i’ dubito
          che non verrá altramente.
          Gianni. Deh! Lasciatemi
          dir duo parole.
          Messer Rimedio. Dinne venti, e spacciati.
          Gianni. Padron, non bisogn’altro testimonio,
          a provar che quel tristo non è Giulio,
          che Alamanno vostro, ch’amicissimo
          gli è.
          Messer Rimedio. E a chi?
          Gianni. A Giulio, dico.
          Girolamo. A Giulio
          mio figliuolo?
          Gianni. A Giulio di Girolamo.
          Messer Rimedio. È dunque in questa terra?
          Gianni. E conoscetelo.
          Ma che dich’io? Gli è a Roma, ora.
          Messer Rimedio. Dov’abita,
          poi ch’il conosco?
          Gianni. Con Fazio Ricoveri.
          Messer Rimedio. E chi sta altri, con Fazio Ricoveri,
          che un genovese?
          Gianni. Cotestui è Giulio.
          Messer Rimedio. Che di’ tu «Giulio», pazzo? che domandasi
          Bernardo.
          Gianni. Ben, be’, padron: domandatene
          pur Alamanno; che, benché egli chiamisi
          Bernardo, gli è quel ch’i’ vi dico. Statene
          sopra di me.
          Messer Rimedio. Perché non lo dicevi
          allor che c’era colui?

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          Gianni. Io volsivi
          obidir. Vo’ m’imponesti ch’i’ stessimi
          cheto. Io stetti.
          Girolamo. Deh! Cerchiam, di grazia,
          di questo vostro figliuoli che struggermi
          sento.
          Messer Rimedio. Si bene. Gianni, va’ via. Cercane
          a casa il mio fratello; e, non trovandolo
          ivi, va’ po’ ne’ luoghi dov’è solito
          usar; e, se lo truovi, di’ che subito
          venga in piazza o in mercato, che saremoci.
          Gianni. Sta bene.
          Messer Rimedio. Io vogli’ ora ch’andiamone
          a trovar questo Fazio; e da lui intendere
          potremo il tutto.
          Girolamo. Andiam, ch’i’ v’ho tropp’obligo.

SCENA IX

Albizo giovanetto, Bolognino servidore.

          Albizo. È egli nella via? o altri vedemi
          uscir di casa, che possa po’ dirgnene?
          Non veggio alcun. Oh che sorte grandissima
          è stata questa! O Bolognin carissimo,
          per che cagion innanzi non mi capiti,
          acciò che teco si fatta letizia
          possa un poco sfogar? Oh! Per Dio, eccolo;
          eccol che viene.
          Bolognino. I’ non fu’ mai coll’animo
          tanto sospeso né con tanto dubio
          quant’i’ son or, non sapendo quel ch’Albizo
          s’ha fatto.
          Albizo. Di me parla.
          Bolognino. E, perché Fazio

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          ha voluto la chiave, fa ch’i’ dubiti
          di qualche mal.
          Albizo. Che mal? che va benissimo.
          Bolognino. Oh padroni Siate qui, ch? come avvennevi?
          trovòvi Fazio a far fardel?
          Albizo. Non credere
          ch’i’ sie, ne’ fatti mie’, si poco cauto.
          Com’i’ sentii la chiave in l’uscio mettere,
          imbucai sotto ’l letto; ch’era in camera
          per apostar quel ch’i’ potessi in pegno
          mandare. E quivi mi messi: con animo
          di starvi tanto ch ’e’ partissi, e poscia
          seguir il fatto mio.
          Bolognino. Che fatto?
          Albizo. L’opera
          che far disegnavamo. Ma proveddemi
          la fortuna di meglio assai.
          Bolognino. Che «meglio»?
          Albizo. Tanti scudi ch’a pena posso muovermi
          con essi a dosso. La borsa, le maniche,
          il petto anco n’ho pieno.
          Bolognino. Eh! La baia
          volete meco.
          Albizo. Te voglio la baia?
          Cerca anco qui; e qui.
          Bolognino. Oh! Che miracolo
          è questo?
          Albizo. Amor vuol farmi felicissimo
          sopr’ogni amante.
          Bolognino. Ditemi, di grazia,
          come facesti averli; ch’i’ strabilio.
          Albizo. Non tei vo’ dir, se prima non promettimi
          di noi dir mai.
          Bolognino. Dunque, di me si dubita?
          Albizo. Che so io? L’è cosa d’importanzia.
          Bolognino. Eh! che m’avete stracco!

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          Albizo. Orsú! Vo’ dirtelo;
          i’ son contento. Or odi. E’ tornò el vecchio,
          con una borsa piena, pur con animo
          di riporla, pens’io, nello scrittoio.
          Ma, come fu con essa giunto in camera,
          s’accorse non aver le chiave (e credomi
          l’avessi fuor lasciate in qualche fondaco
          o in qualche banco dove spesso bazzica):
          e, per non ritornar fuor con quel carico
          di quella borsa, per certo credendosi
          ch’en casa non fussi persona, messeli,
          cosi come gli ave’, sotto la coltrice
          del letto e, senza far altro, di camera
          s’uscí; e, tratta la chiave de l’uscio,
          a cagion che da altri non potessesi
          aprir, lo tirò a sé ed andò subito
          fuor, da l’uscio di dietro. Io, che sentitolo
          avea toccar il letto, come giovane
          desideroso di veder e ’ntendere
          quel che ave’ fatto, alzai dipo’ la coltrice
          e trova’ quella borsa piena.
          Bolognino. O Albizo,
          che sorte è stata questa!
          Albizo. E, resolutomi,
          senza pensarvi piú su, di servirmene
          a’ mia bisogni, ne cavai...
          Bolognino. Che? l’anima?
          Albizo. ...l’anima, tu l’ha’ detto; e riempiegnene
          di rena.
          Bolognino. Oh! To’ quest’altra!
          Albizo. E serra’ l’uscio
          come l’ave’ lassato; ch’empossibile
          è che ma’ pensi ch’uom alcuno abbiali
          possuti aver.
          Bolognino. Mi piace. Ma che numero
          sono? Ditemi ’l vero.

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          Albizo. Oh! Son un numero
          grande! I’ non gli ho contati; ma ben passano
          dumila scudi.
          Bolognino. Voi siete richissimo.
          Or non bisogna cercar di piú trappole
          per far danar.
          Albizo. No; che ce n’è dovizia,
          ringraziato sia Dio.
          Bolognino. Non maraviglia
          che mi tolse la chiave. Di non perderli
          temea; che gli è avvenuto. Ma che diavolo
          ha egli a dir, se non li truova?
          Albizo. Pensivi
          egli. Facciam i fatti nostri.
          Bolognino. Faccinsi.
          Albizo. Andiamo alla Aldabella; ch’i’ delibero
          che si contenti.
          Bolognino. Andiamo.
          Albizo. E tu la mancia
          arai, non dubitare.
          Bolognino. Io non ne dubito;
          basta a me che siate contento.
          Albizo. Credolo.
          Ma non perdiam pivi tempo. Andiam via subito;
          ch ’a dirti il vero, io non credo mai vivere
          tanto ch’i’ veggia la Spinetta e parligli.
          Bolognino. Andiam, ch’orma’ presto l’arete in braccio.
          Ma sta’ ! Ecco di qua quella stregaccia
          dell’Aldabella.
          Albizo. L’è dessa. Che domine
          vuol dire, che l’è cosí fuori? Io dubito
          di qualche male.
          Bolognino. Sempre que’ che amano,
          ancor che siano in possession, temano.
          Albizo. La viene in qua. Aspettiamla.
          Bolognino. Di grazia.

[p. 403 modifica]

SCENA X

Aldabella, Albizo, Bolognino.

          Aldabella. Che ho io a dir, or, come io trovo Albizo?
          Che la Spinetta, lasciandosi svolgere
          alla prima, n’è ita con quel giovene?
          Di grazia. Che scusa troverò io che li cappia,
          per la qual io gli possa dare a credere
          di non l’aver tradito? Ma oimè! Eccolo.
          Bisogna far del cuor ròcca. Or aiutati,
          lingua, se mai valesti; ch’a proposito
          è ora. Io voglio in molta angoscia fingermi
          e far l’afflitta. Oh me meschina! Oh povera
          me! Come farò io? e con che animo
          ho io andar inanzi al mio caro Albizo?
          Albizo. Ella si duole.
          Bolognino. E’ par che la vi nomini.
          Albizo. Stiamo ascoltar.
          Aldabella. Come potrá ei credere
          che la non abbia avuto pazienzia
          d’aspettarlo?
          Albizo. Oimè!
          Aldabella. Questo disordine
          ha fatto ei col suo si lungo indugio.
          Albizo. O Bolognino, io son morto.
          Bolognino. Oh rea femmina!
          Costei ve l’ha appiccata.
          Albizo. Oh sorte pessima!
          Aldabella. Ma eccolo qua appunto. Dio vi consoli.
          Bolognino. Si; che tu l’hai con le tue divine opere
          in modo concio che n’ha un grandissimo
          bisogno.
          Aldabella. Or to’ or questa! Io son causa,
          dunque, d’ogni suo male?

[p. 404 modifica]

          Bolognino. Tu, si: hottelo
          saputo dir, ribalda?
          Albizo. Dove trovasi
          la mia Spinetta?
          Aldabella. Io credo che debbe essere
          tornata a casa.
          Bolognino. Dice anco «debbe essere»!
          Albizo. Come «tornata a casa»? Adunque, avetela
          lasciata andar, senza aspettarmi?
          Aldabella. Albizo,
          non ho potuto far altro, io.
          Bolognino. Credolo.
          Aldabella. Poi che l’ebbe aspettato con disagio
          dua o tre ore, gli venne una fregola
          di tornarsene a casa che il fistolo
          non Parebbe tenuta.
          Bolognino. È da credere!
          Albizo. Ehi, mona Aldabella! Io so che vo’ me la
          avete fatta netta!
          Bolognino. Va’ ! Vergognati,
          poltrona!
          Aldabella. Adunque, voi pensate, Albizo,
          ch’i’ ne l’abbia mandata?
          Albizo. Io son certissimo
          che voi n’avete fatto ad altri copia.
          So come sete fatta.
          Aldabella. Oh! Questo vienmisi
          per la mia fatica?
          Bolognino. Anzi, verrebbesi,
          piú presto, una cavezza.
          Aldabella. Tant’è, Albizo,
          di cosí fatta moneta si pagano
          e’ mie’ servigi, ch?
          Albizo. E che servigio
          m’avete fatto?
          Bolognino. Si, padron: pagatela
          de’ suo’ servigi.

[p. 405 modifica]

          Aldabella. Dice «che servigio» !
          Chi fece alla Spinetta voltar l’animo
          a’ fatti vostri? chi la fece uscirsene
          di casa per venir con voi?
          Albizo. Che giovano
          coteste cose?
          Aldabella. Essendo voi sollecito,
          si come dovevate, vi giovavano,
          Albizo, pur assai. Ora doletevi
          de’ casi vostri.
          Albizo. Ah Dio!
          Aldabella. Ma potrebbesi
          ancora a tutto rimediar.
          Bolognino. Potrebbesi
          il mal che Dio ti dia!
          Aldabella. Non vo’ rispondere
          a te, per ora.
          Albizo. E come potrebbesi
          rimediar, ora?
          Aldabella. No, no. Io son la pessima
          e la ribalda!
          Albizo. Dite su, di grazia.
          S’ella è tornata a casa, che rimedio
          ho io?
          Bolognino. Eh! Non li date piú udienza,
          padron. Andianne con Dio. Lasciatela
          nella malora, la ruffiana.
          Albizo. Taci tu.
          Aldabella. S’i’ sono una ruffiana e le mie opere
          non fanno piú per voi, dunque lasciatemi
          andare; non mi date piú molestia.
          Albizo. Udite, mona Aldabella.
          Aldabella. Lasciatemi
          andar, dico.
          Albizo. Udite un po’, di grazia.
          Aldabella. Non voglio udir chi sempre piú m’ingiuria
          con le parole.

[p. 406 modifica]

          Albizo. Orsú! Perdonatemi,
          s’i’v’ho ingiuriata. La doglia incredibile
          ch’i’ ho al cuor m’ha fatto uscir dell’ordine.
          Abbiatemi per iscusato.
          Bolognino. Oh povero
          giovane!
          Albizo. State a udire; voltatevi
          in qua. Orsú! Non si può ricorreggere
          questo errore?
          Aldabella. Puossi: e per tal causa
          era fuori.
          Albizo. Per quale?
          Aldabella. Voleva irmene
          verso la casa; e veder se possibile
          era parlarli di nuovo e fare opera
          che la tornassi.
          Albizo. E ciò saria possibile?
          Aldabella. Saria; ma vo’ m’avete in modo torbida
          fatta la fantasia ch’io sto in dubbio
          di quel e’ ho a far.
          Albizo. Deh, madre mia! Fidatevi;
          che non vi sarò ingrato.
          Aldabella. Si! si! Datemi
          parole pur assai.
          Albizo. Tenete: eccovi
          fatti. Or andate.
          Bolognino. Oh che li venga il canchero!
          De’ tradimenti ha premio.
          Albizo. E, se non bastano
          questi, ve ne darò piú.
          Aldabella. Ogni piccola
          cosa mi basta. Io voglio andar. Ma, o Albizo,
          farete, per un’altra volta, intendere
          a cotestui che con piú riguardevole
          modo favelli altrui; e questo massime
          colle donne da bene. E riturisi

[p. 407 modifica]

          quella boccaccia; ch’ognun non fia facile
          a sopportar, com’io, che a ciò sforzami
          l’amor ch’i’ porto a voi.
          Albizo. La penitenza
          gli farò fare.
          Aldabella. Io vo. E voi lasciatevi,
          poi, riveder.
          Albizo. Umbé?
          Bolognino. Deh possa nascerli
          tutti e’ mali! Ella v’ha straziato e fattovi
          il peggio e’ ha potuto, e voi donatili
          avete i danar vostri! Or, se avessi vi
          fatto quel che dovea, che aresti datole?
          La vita, mi credo io.
          Albizo. La vita e l’anima.
          Bolognino. Sta bene.
          Albizo. Ma che ne credi?
          Bolognino. Il medesimo.
          Albizo. Della Spinetta, dico.
          Bolognino. Ch’abbia fattane
          copia ad un altro ed a voi nuove trappole
          vadia tendendo.
          Albizo. E’ potrebbe pur essere,
          come la dice, che ella ritornatasi
          fussi a casa il padrone.
          Bolognino. Potrebbe essere;
          ma non lo credo: benché, il mio credere,
          o no, importa poco. Aspettiam l’esito
          di questa cosa.
          Albizo. Bolognin, dch! Seguita
          un po’ le sua pedate e considera
          tutto quel ch’ella fa; ma con riguardo,
          ch’ella non se ne accorga. Io, intanto, voglione
          andar a casa Silvio acciò che posivi
          questi danar che m’hanno stanco.
          Bolognino. Credolo,
          senza il giuriate.

[p. 408 modifica]

          Albizo. E di poi farai d’essere...
          oh! dove poss’io dir, che non ritrovici
          mio padre?... di lá d’Arno, in Santo Spirito.
          Bolognino. Tanto farò.
          Albizo. Oh infelice Albizo!
          Come si tosto si è ogni mia gioia
          conversa in doglia! Che partito prendere
          debbo io adesso? Aspetterò se opera
          alcuna fa costei o se mi strazia,
          si come io ho paura. E poi, per ultimo
          rimedio, me n’andrò dinanzi a Noferi,
          narraròlli ogni cosa e gitterommegli
          nelle braccia. Potrebbe di me increscerli
          di sorte che, come padre, tal opera
          farebbe che sarei alfin felicissimo

.